di Luka Mesec
L’Unione europea si è dimostrata incapace di affrontare la crisi politica ed economica – ma questo non vuol dire che sia impotente. L’esperienza di governo di SYRIZA lo ha mostrato chiaramente.
La sconfitta ad opera dei capitali transnazionali – incarnati nelle istituzioni europee – ha richiamato alla memoria le difficoltà affrontate dalla sinistra francese negli anni ‘80 e altri tentativi di governo della sinistra. Sembra che la moderna sinistra europea abbia solo due possibilità: piegarsi al neoliberismo – e abbandonare la maggior parte dei suoi obiettivi – o ingaggiare battaglie senza speranza contro l’Unione europea.
E da questo vicolo cieco che stiamo cercando di uscire con Iniciativa za Demokratični Socializza (Iniziativa per un socialismo democratico, IDS), membro della coalizione parlamentare Združena levica (Sinistra unita) in Slovenia. Abbiamo cominciato un’ampia discussione tra i nostri membri riguardo al “piano B” – un piano per uscire dall’eurozona. L’esperienza greca è stata discussa e paragonata alla nostra in Slovenia, portandoci alla conclusione che c’è bisogno di un nuovo approccio.
Non si tratta di un approccio totalmente nuovo. Il tentativo di riformare le istituzioni dell’UE rimane parte integrante del programma. Ciò evidenzia importanti differenze tra la situazione greca e quella slovena. SYRIZA ha vinto le elezioni in un paese che era insolvente, gravato da debiti insostenibili, completamente dipendente dalle finanze della troika, ingabbiata non solo dalla struttura monetaria dell’eurozona, ma anche da un insieme paralizzante di memorandum di austerità. In Slovenia, la situazione è diversa. Il debito è gestibile, le banche sono ricapitalizzate, il paese ha un buon surplus commerciale, la crescita economica è ripartita e vi è uno dei più alti tassi di proprietà statale in Europa. Pertanto sarebbe più facile per un potenziale governo di sinistra raggiungere i suoi obiettivi: lotta contro la povertà, ridistribuzione della ricchezza, supporto all’autogestione dei lavoratori ed espansione del welfare.
Ma l’appartenenza all’eurozona rappresenterebbe un ostacolo all’implementazione di politiche industriali e di sviluppo e al controllo dei flussi di capitale. Inoltre, è fondamentale avere in mente che la situazione, soprattutto in tempi turbolenti come oggi, può deteriorare rapidamente. Pertanto, abbiamo concordato che dovremmo lavorare su un piano per riprenderci immediatamente la sovranità monetaria – se necessario. Il documento che segue è stato elaborato e adottato da Iniciativa za Demokratični Socializem all’inizio di questo mese.
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Il 2015 sarà ricordato come un anno decisivo nella storia dell’integrazione europea. L’Unione europea ha rivelato la sua vera natura di baluardo del capitale nel quale la solidarietà internazionale e la vita umana non hanno alcun valore.
L’UE ha dimostrato che le sue istituzioni non soffrono semplicemente di un deficit democratico, ma sono costituzionalmente antidemocratiche. La narrazione ideologica della coesistenza pacifica delle nazioni europee e la convergenza economica alimentata dal libero mercato è stata sostituita da ideologie razziste su cicale greche e altre popolazioni meridionali che vivono alle spalle dei lavoratori degli Stati del nord, più competitivi e industriosi.
In parallelo, gli attacchi terroristi di Parigi all’inizio e alla fine del 2015 hanno fatto aumentare l’islamofobia e la xenofobia, mentre centinaia di migliaia di rifugiati arrivavano da Afghanistan, Iraq, Pakistan, Siria e altri paesi dopo aver sofferto per anni, se non decenni, devastazioni scatenate o permesse dall’Occidente.
L’unico beneficiario del rifiuto delle nazioni europee e delle loro istituzioni di trovare una soluzione efficace ed umanitaria alla crisi dei rifugiati è stata la destra politica estrema, che ha già messo le mani sul potere in un terzo dell’Europa.
Mentre la crisi dei rifugiati ha esposto la falsità dei grandi discorsi sui diritti umani e la libera circolazione delle persone, l’esempio greco ha dimostrato che il processo di integrazione europea è privo di qualsiasi solidarietà tra gli Stati membri. Il rifiuto da parte della BCE di accettare come collaterale i titoli greci, impendendo così alle banche del paese di accedere alla liquidità emessa dalla banca centrale, ad appena una settimana dalle elezioni di gennaio, è stato l’inizio della resa dei conti tra la troika ed il governo di Tsipras.
Donald Tusk, il presidente del Consiglio europeo, ha ammesso tranquillamente al Financial Times che l’UE teme il “contagio politico” molto più delle conseguenze finanziarie della crisi greca. In altre parole, le élite politiche europee hanno fatto tutto quanto era in loro potere per impedire alla sinistra vittorie elettorali come quella greca. È il momento di abbandonare i sogni romantici di un’illusoria “Europa unita” e riconoscere che siamo di fronte ad una malcelata battaglia del capitale contro i lavoratori.
L’esito di questa battaglia è ben noto. A seguito del referendum del luglio 2015 in Grecia, dove il 61% dei votanti si è espresso contro la continuazione delle misure di austerità, che hanno creato un abisso sociale ed economico di proporzioni storiche, il governo di SYRIZA ha dovuto affrontare proprio il dilemma che cercava di evitare fin dal principio dei negoziati con la troika.
Da una parte, firmare il terzo memorandum avrebbe significato il tradimento sia dell’“oxi” (no) del referendum che dello stesso programma di SYRIZA. Dall’altra parte, tuttavia, alla luce dell’asfissia bancaria iniziata la settimana prima del referendum, che aveva causato la chiusura del sistema bancario e l’imposizione dei controlli sui capitali, la Grecia sarebbe stata costretta ad una uscita caotica dall’eurozona e ad una frettolosa reintroduzione della dracma.
Dal momento che il governo Tsipras era impreparato tecnicamente, finanziariamente e in qualsiasi altro senso all’uscita, la capitolazione è stata l’unica scelta possibile. La sconfitta di SYRIZA è stata quindi il risultato non solo del dover cedere a un attore esterno molto potente, ma anche ad una cecità strategica derivante da una mancanza di democrazia interna del partito e dall’aver rinunciato al proprio programma.
Nell’IDS siamo convinti che le vicende della Grecia e dei rifugiati impongano un cambiamento di strategia alla sinistra europea. Dopo il 2015, perfino i più creduloni rispetto all’idea dell’“Europa unita” non possono più negare il fatto che l’Europa come è fatta ora è quanto di più lontano da una comunità di nazioni uguali; al contrario, è una struttura che sostiene gli interessi trasversali dell’élite politica e capitalistica.
Questa classe, con la scusa dell’integrazione europea, ha creato uno spazio comune all’interno del quale possono avanzare e imporre le politiche economiche che preferiscono e che non potrebbero essere accettate all’interno dei singoli Stati membri a causa delle limitazioni democratiche. Una volta che riconosciamo l’integrazione europea come un “comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese”, come Marx ed Engels descrissero lo Stato capitalistico nel Manifesto del Partito Comunista, diventa chiaro che l’approccio adottato dal governo Tsipras richiede una modifica e un miglioramento radicale, se vogliamo cambiare la natura di queste integrazioni.
L’aggiornamento della strategia della sinistra e, per estensione, della strategia dell’IDS per dare nuova linfa all’integrazione europea dovrebbe essere duplice. In primo luogo, qualsiasi governo guidato da un partito di sinistra impegnato in discussioni e trattative con le istituzioni dell’UE (piano A) non dovrà fare affidamento esclusivamente sulla forza dei suoi argomenti, ma dovrà fortificare questi ultimi con il potere politico, il solo che può farli valere. Una sfida internazionale richiede una forza internazionale: una coalizione paneuropea di organizzazioni progressiste e collettivi che chiederanno il cambiamento ad ogni livello sociale, non solo nelle sale riunioni e nelle conferenze stampa.
In secondo luogo, tale governo non deve finire nella trappola tesa a SYRIZA, ma deve essere preparato per la seconda eventualità: l’uscita dalla zona euro e l’introduzione di una moneta nazionale (piano B). Il suo potere negoziale aumenterebbe e avrebbe una reale linea di condotta alternativa nel caso dovessero fallire le trattative con le istituzioni dell’UE. Stabilirebbe anche una sincera cooperazione internazionale verso un nuovo ordine europeo a favore dei lavoratori.
Il piano B libererebbe lo Stato della sua gabbia economica, l’eurozona, e ripristinerebbe la sovranità monetaria. Tuttavia, la lezione greca va intesa nella sua interezza. Il confronto con le istituzioni dell’UE e con i mercati finanziari internazionali, come pure i loro compari domestici, provocherebbe senza dubbio terribili ritorsioni.
Un governo guidato da un partito di sinistra avrebbe quindi bisogno di sostenere il piano B con una legittimazione democratica di primissimo ordine, per mezzo di un dibattito pubblico sulla sua strategia prima delle elezioni e con un referendum. I lavoratori dovrebbero essere dettagliatamente e onestamente informati su tutti gli aspetti del piano B, nonostante il possibile prezzo economico e sociale.
È della massima importanza convincere la gente che uscire dall’eurozona significa l’inizio di un rinnovamento controllato e democratico dello Stato e dell’economia a beneficio del popolo. In altre parole, il piano B è la condizione per l’attuazione del programma di sinistra e, viceversa, il piano B non può essere attuato senza mettere in atto tale programma.
Poiché l’euro è una cinghia della camicia di forza del neoliberismo – l’altro sono le regole fiscali restrittive – l’introduzione di una valuta nazionale e, quindi, la sovranità monetaria, sono uno degli aspetti chiave del piano B. Sciogliere queste cinghie incontrerebbe senza dubbio la resistenza da parte del capitale internazionale e dei suoi rappresentanti politici sotto forma di attacchi economici, come la Grecia ha già sperimentato.
Per difendersi, esistono delle misure che lo Stato può intraprendere: i controlli di capitale, la cancellazione unilaterale del debito, il sequestro delle proprietà e il controllo della gestione del sistema bancario, politiche industriali e di investimento, e il rafforzamento dell’economia sociale.
Queste ultime, tuttavia, non possono essere fatte in un giorno. Pertanto i preparativi per eseguire il piano B, politici e non, sono di fondamentale importanza e includono almeno: l’esecuzione simultanea del piano A, la costituzione di relazioni politiche ed economiche internazionali alternative e la ricerca di alleati di fuori e di là del centro capitalistico.
Di primaria importanza è anche connettersi con la sinistra, i lavoratori e gli altri movimenti progressisti all’estero, costruire legami di solidarietà che facciano da bastioni contro gli attacchi del capitale. Il piano B deve svolgersi nell’ambito della lotta internazionale – e internazionalista – per un mondo diverso.
Molti potrebbero pensare che la mera contemplazione di un piano B sia radicale, figuriamoci la convinzione che esso sia una parte indispensabile della strategia di sinistra per l’Europa. Ma, nelle parole di Bertolt Brecht, uno deve sempre essere “radicale come lo è la realtà stessa”.
Nel momento in cui il fascismo è tornato ad essere una parte normalizzata dello spazio politico europeo e il filo spinato un modo diffuso per segnare i confini degli Stati, una ricerca di modi alternativi per il cambiamento sociale è, dal punto di vista delle strategie di sinistra, l’unico approccio che può far fronte alla realtà.
Pubblicato su Jacobin il 30 marzo 2016. Traduzione di Voci dall’Estero rivista da Thomas Fazi.