di Alberto Fierro
Nel dibattito pubblico britannico non si parla d’altro da mesi: il 23 giugno si terrà il referendum per decidere se il Regno Unito debba restare o meno nell’Unione Europea. I sondaggi sono quanto mai incerti: i “leave” sembrano in leggero vantaggio sui “remain”, ma la percentuale di indecisi è alta. Il referendum è diventato l’evento politico attorno al quale ruotano anche molti conflitti interni al governo conservatore di Cameron: ad esempio la presa di posizione del sindaco di Londra Boris Johnson giudicata da molti puramente strumentale. Johnson – da sempre considerato un europeista convinto – si è lanciato nella campagna per il Brexit. Tale posizionamento sarebbe volto all’ottenimento di maggiore potere all’interno del partito: se dovessero vincere i favorevoli al Brexit Cameron – tra i principali sostenitori della permanenza nell’UE – sarebbe quasi sicuramente costretto a dimettersi e il sindaco sarebbe il migliore candidato per subentrare a Downing Street. Il primo ministro conservatore ha fatto del suo meglio per ridefinire gli accordi di permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. Dopo aver concesso il referendum per placare gli animi dell’ala più nazionalista del suo partito, il mese scorso Cameron si speso in lunghe trattative con l’UE per ottenere condizioni migliori nel caso che il Regno Unito rimanga nell’Unione.
I termini dell’accordo
L’accordo che Cameron ha negoziato a Bruxelles entrerà in vigore solamente nel caso di vittoria dei “remain”. Cameron ha ottenuto un riconoscimento abbastanza generico di maggiore sovranità: il Regno Unito non sarebbe più automaticamente obbligato a collaborare per aumentare l’integrazione con gli altri 27 membri dell’Unione (ma questo implicherebbe una modifica dei trattati costitutivi); inoltre la volontà dei paesi che non aderiscono alla moneta unica sarebbe maggiormente tutelata. Sul lato della spesa sociale nei confronti dei cittadini UE che vivono nel Regno Unito Cameron ha portato a casa una mezza vittoria: l’obiettivo era mettere un limite di quattro anni per l’ottenimento del diritto a sussidi economici dei migranti UE. L’accordo finale stabilisce che, in via emergenziale, per i prossimi 7 anni (Cameron ne aveva chiesti 13) i cittadini dell’Unione che lavorano nel Regno Unito non avranno diritto ai sussidi garantiti ai britannici per 4 anni. Inoltre, per i figli dei migranti UE che non vivono in UK l’ammontare dell’assegno sarà commisurato al costo della vita del paese di origine. Secondo dati del governo sarebbero 20.000 i cittadini UE che beneficiano degli assegni per i figli. Cameron ha anche ottenuto l’inserimento di una procedura che permetterebbe di fermare nuove leggi dell’Unione nel caso fossero contrari un numero minimo di parlamenti nazionali (almeno corrispondenti al 55% dei cittadini dell’Unione). L’accordo siglato da Cameron il mese scorso non sembra aver convinto i sostenitori del Brexit all’interno del suo partito: il leader dei Tories alla Camera dei comuni ha esplicitamente criticato l’accordo, sostenendo che il negoziato non avrebbe riportato a Londra nessun potere significativo. Inoltre un istituto di ricerca legato al parlamento britannico ha evidenziato la provvisorietà del negoziato, infatti, se «la Corte di giustizia dell’Unione ravvisasse conflitti con i trattati l’accordo potrebbe non essere applicato».
Brexit
Cosa succederà in caso di uscita del Regno Unito dall’UE? La domanda impossibile è al centro del dibattito pubblico di queste settimane. Sarebbe un caso eccezionale nella storia dell’Unione: solo la Groenlandia – territorio d’oltremare della Danimarca – uscì in seguito ad un referendum nel 1982. Quel che è certo è che il Regno Unito dovrebbe rinegoziare i propri rapporti economici e commerciali da zero: un processo che richiederebbe probabilmente anni di trattative. Ci sono diversi modelli a disposizione: dall’adesione all’Area economica europea alla stregua della Norvegia al modello svizzero, in cui accordi commerciali vengono negoziati settore per settore. Il più forte cambiamento per i cittadini UK sarebbe la perdita del diritto alla libera circolazione e permanenza nei paesi UE. Ma è soprattutto al contrario che il Brexit spaventa: il Regno Unito (e Londra in particolare) sono diventati tra i più gettonati luoghi di emigrazione per i giovani dei paesi del Sud Europa: basti pensare che solo a Londra ci sarebbero circa 500,000 lavoratori italiani. Oggi venire a Londra è facile, basta acquistare un volo low-cost e dopo pochi giorni si trova lavoro nel settore dei servizi (ristorazione e pub vanno per la maggiore). Se veramente il Regno Unito dovesse uscire dall’Unione i giovani europei avrebbero bisogno del visto. Ed è proprio questo l’argomento forte sbandierato dai sostenitori dell’uscita dall’UE: riprendere il controllo dei confini nazionali e dei flussi migratori, perché, manco a dirlo, «gli immigrati europei rubano il lavoro ai britannici». Sul fronte di chi vuole restare i toni sono altrettanto accesi: l’uscita dall’UE causerebbe la perdita certa di milioni di posti di lavoro e anni di completa incertezza economica. L’OCSE è esplicitamente scesa in campo per condannare l’ipotesi Brexit, che sarebbe un dramma non solo per il Regno Unito ma anche per l’economia europea. Anche la confindustria britannica – The Confederation of British Industry – ha dichiarato la sua contrarietà al Brexit.
L’economia britannica: sempre più dipendente dal settore finanziario
Tra le maggiori preoccupazioni per una possibile uscita c’è il rischio di fughe di capitali verso paesi come l’Irlanda o il Lussemburgo per beneficiare del mercato interno europeo. Con più di 2,1 milioni di persone impiegate nel mondo della finanza, il Regno Unito e Londra rappresentano in effetti uno dei centri globali per i servizi finanziari e bancari. Il pericolo di un possibile Brexit avrebbe addirittura rappresentato la spinta decisiva per l’accordo raggiunto dalle due società proprietarie della borsa di Londra e Francoforte che hanno recentemente reso nota l’intenzione di costituire una società unica. Come evidenziato da un recente rapporto sull’economia britannica tradotto da Sbilanciamoci!, la crescita economica nel Regno Unito non brilla, con larghe fette degli occupati che hanno lavori a basso reddito nel settore dei servizi. La bilancia commerciale è in deficit, e certamente non aiuterebbero eventuali dazi alle esportazioni in seguito all’uscita dall’UE. È effettivamente il protagonismo della finanza a tenere a galla il sistema britannico, con un governo conservatore che persevera nelle politiche di tagli fiscali (recentemente proprio a favore delle rendite finanziarie) e nella riduzione della spesa pubblica.
Guerra civile nei Tories e posizionamento del Labour party
All’interno del partito conservatore, apparentemente diviso esattamente a metà tra sostenitori e oppositori del Brexit, è scoppiato un putiferio definito da alcuni “guerra civile”. Recentemente il segretario del lavoro e delle pensioni si è dimesso in seguito a nuovi tagli nella spesa per sussidi sociali. Come il sindaco di Londra Johnson, anche l’ex segretario è favore del Brexit, ed è per questo che molti lo hanno accusato di voler strumentalmente spaccare il governo e il partito in vista del referendum. Anche il leader dei conservatori al Parlamento europeo ha sostenuto le ragioni del Brexit. Il partito laburista invece sceglie per ora il basso profilo, e, a parte qualche rara defezione, i membri del partito e i suoi sostenitori dovrebbero votare per la permanenza nell’Unione. Tuttavia sembra che Jeremy Corbyn non voglia spendersi politicamente in prima persona per il referendum. In effetti, a sinistra è sempre più difficile sostenere le ragioni di un’Unione guidata da interessi antidemocratici e che si è dimostrata durissima nel negoziato con il governo Tsipras. Sembra però che in questa campagna si sentirà molto poco la voce di chi chiede un’uscita “da sinistra”.
Pubblicato su Sbilanciamoci! il 7 aprile 2016.