di Thomas Fazi e Guido Iodice
In questi giorni si fa un gran parlare dei #PanamaPapers, l’inchiesta-shock di un consorzio internazionale di giornalisti sulle ricchezze nascoste nei paradisi fiscali (in questo caso Panama) di politici, imprenditori e celebrità. Nihil novi sub sole. Quella dell’evasione e dell’elusione fiscale è una delle pratiche più “antiche” – e più diffuse – del capitalismo moderno. Il “presidente dell’Europa”, Jean-Claude Juncker, ne è stato un facilitatore per diversi anni nella veste di primo ministro del Lussemburgo, e quando la notizia è diventata di dominio pubblico un paio di anni fa (qualcuno si ricorda ancora l’hashtag #LuxLeaks?) essa non ha neanche suscitato particolari clamori (soprattutto tra gli addetti ai lavori, ai quali il fatto era stra-noto). Semmai quello che colpisce sono le dimensioni dell’ultima “soffiata”: ben 11,5 milioni di documenti, la stragrande maggioranza dei quali, però, non è stata rilasciata, come ha segnalato anche WikiLeaks, facendo sorgere molti dubbi sulla trasparenza (e sull’intento “politico”) dell’operazione. Non è questo il punto che ci preme sottolineare in questa sede, però. Ci pare più interessante, invece, riflettere su come il fenomeno dell’evasione/elusione fiscale ci riguardi molto più da vicino – anche in senso geografico – di quanto i #PanamaPapers potrebbero far supporre.
Partiamo dall’elusione fiscale, la versione “legale” dell’evasione fiscale. La forma più comune di elusione fiscale è il cosiddetto transfer pricing, che consiste nella pratica, comune a tutte le multinazionali, di “spostare” gli utili verso quei paesi con regimi fiscali più “convenienti” (cosa ovviamente non consentita ai comuni mortali). In Europa questa pratica si traduce nel fenomeno – diffusissimo – del dumping fiscale, quella forma di concorrenza fiscale in cui gli Stati europei competono tra di loro nell’abbassare le aliquote sulle imprese e sui redditi alti nel tentativo di attrarre investimenti e capitali, in una folle corsa al ribasso. È uno dei motivi per cui oggi l’UE presenta in media uno dei livelli di tassazione d’impresa più bassi al mondo. Spostando i profitti verso i paesi a fiscalità agevolata – tra cui spiccano l’Irlanda, la Svizzera, l’Olanda e il Lussemburgo –, a prescindere dal paese in cui vendono i loro prodotti, le grandi imprese transnazionali che operano in Europa riescono a pagare ancora meno dell’aliquota media europea, già bassa di suo. In cima alla lista dei “peggiori elusori fiscali del continente” spiccano megacorporation come Apple, la società di maggior valore al mondo (che nel 2012 ha pagato un’aliquota risibile dell’1,9 per cento sugli utili percepiti fuori dagli USA utilizzando delle sussidiarie irlandesi e olandesi), Amazon, Google, Ebay, Starbucks e Cisco Systems. Secondo uno studio condotto dall’organizzazione Tax Research UK, il fenomeno dell’elusione fiscale costa agli Stati dell’UE circa 150 miliardi di euro l’anno.
Si tratta di una cifra esorbitante, che impallidisce però di fronte al costo dell’evasione fiscale, a sua volta collegato al problema dei paradisi fiscali, che ha ricadute ancora più pesanti sui conti pubblici. Secondo la “lista nera” stilata dall’organizzazione britannica Tax Justice Network, esistono settantatré paradisi fiscali al mondo (secondo l’OCSE, gli unici due paradisi fiscali rimasti al mondo sarebbero invece le due isole-nazioni di Nauru e di Niue). Incredibilmente, tra i venti maggiori paradisi fiscali al mondo, otto di questi – Svizzera, Lussemburgo, Jersey, Germania («destinataria di grossi volumi di flussi illeciti da varie parti del mondo»), Regno Unito, Belgio, Austria e Cipro – si trovano in Europa (e con l’eccezione della Svizzera e di Jersey fanno parte dell’Unione Europea). Nella lista sono inclusi anche molti altri paesi europei, tra cui l’Irlanda, i Paesi Bassi, l’Italia, la Danimarca, il Portogallo, la Spagna e l’Ungheria.
Stabilire con precisione la somma di denaro occultata in questi paradisi è, per ovvi motivi, piuttosto difficile. Secondo le stime di James S. Henry, ex capo economista della McKinsey e autore di uno degli studi più esaurienti sul tema realizzati finora, essa ammonterebbe a qualcosa tra i 21 e i 32 trilioni di dollari (appartenenti in buona parte a individui facoltosi e imprese transnazionali), pari al 24-32 per cento di tutti gli investimenti globali e più del PIL degli Stati Uniti e del Giappone messi insieme.
Secondo Henry, il “buco di evasione fiscale” dovuto all’esistenza dei paradisi fiscali costerebbe solo agli Stati dell’UE l’incredibile somma di 860 miliardi l’anno; sommandola ai minori introiti dovuti al fenomeno dell’elusione fiscale si arriva a una perdita stimata per le casse degli Stati europei di 1 trilione di euro l’anno. Dallo studio emerge che l’economia sommersa nell’UE ammonta al 22,1 per cento dell’attività economica, al 17,6 per cento della spesa pubblica totale dei paesi dell’UE e addirittura al 105,8 per cento della spesa sanitaria totale. In altre parole, il denaro che i governi europei perdono a causa dell’evasione fiscale è superiore a quello che spendono ogni anno per la salute dei loro cittadini. Un dato che andrebbe sempre tenuto a mente ogniqualvolta un politico dichiara che è «necessario» tagliare la spesa sanitaria perché «non ci sono i soldi». Ancora più scioccante è il fatto che in 16 paesi dell’UE – e nell’UE nel suo complesso – il buco di bilancio imputabile all’economia sommersa è superiore al disavanzo pubblico annuale; questo vuol dire che risolvere il problema dell’evasione fiscale sarebbe sufficiente, in teoria, ad azzerare tutti i deficit pubblici dell’Unione. Secondo lo studio di Murphy, l’Italia è il paese che subisce le perdite maggiori a causa dell’evasione fiscale: circa 180 miliardi l’anno, pari all’incirca al 250 per cento del deficit annuale.
Murphy sostiene che l’evasione fiscale ha contribuito a impoverire le masse europee, in quanto gli Stati si sono visti “costretti” a compensare la riduzione delle entrate aumentando la tassazione sul lavoro, tagliando i servizi o, appunto, indebitandosi sempre di più. Detto in parole semplici, negli ultimi decenni gli Stati hanno rinunciato a tassare i grandi patrimoni – attivamente per mezzo di politiche fiscali anti-redistributive o passivamente, tollerando il fenomeno dell’evasione fiscale – e hanno iniziato a chiedere loro in prestito, con il dovuto interesse, i soldi che hanno smesso di chiedere loro sotto forma di imposizione fiscale. In pratica, il debito pubblico, da strumento di politica economica nell’interesse pubblico, si è trasformato progressivamente in un meccanismo di “welfare al contrario”.
A questo riguardo, è opportuna ricordare, quando si parla del rapporto che intercorre tra bilanci pubblici ed evasione fiscale, che Il fenomeno dell’evasione fiscale costituisce in primo luogo un problema di equità e di equilibri politici – in quanto contribuisce ad aumentare le disuguaglianze, nonché il potere e l’influenza di chi siede in cima alla piramide sociale – prima che un problema di finanza pubblica. Nei fatti, però, è diventato un problema di finanza pubblica dal momento che la liberalizzazione dei flussi di capitale – all’origine del proliferare dei paradisi fiscali – è andata di pari passo con un altro fenomeno: quello della progressiva finanziarizzazione del debito pubblico e delle finanze pubbliche, che ha portato alla progressiva recisione del legame tra politiche monetarie e politiche macroeconomiche e fiscali (in base al dogma dell’indipendenza della banca centrale). È lapalissiano che questo processo di finanziarizzazione delle finanze pubbliche ha trovato nell’eurozona la sua forma più estrema, poiché gli stati non possono ricorrere al finanziamento monetario della spesa pubblica (prima che qualcuno gridi allo scandalo, si noti che uno dei maggior fautori di una “soluzione” di questo tipo è oggi nientedimeno che Adair Turner, ex presidente della Financial Services Authority britannica) e quindi sono stati costretti a tagliare la spesa o ad aumentare la tassazione su chi non può materialmente evadere.
Per concludere: ben venga che si parli del problema dell’evasione fiscale, ma è importante tenere a mente che esso rappresenta solo un aspetto di una guerra ben più ampia che da almeno trent’anni le élite hanno ingaggiato contro quel “modello sociale” conquistato a fatica in seguito alla seconda guerra mondiale, e di cui ormai non rimangono che le vestigia.
Questi temi sono al centro del libro “La battaglia contro l’Europa” di Thomas Fazi e Guido Iodice, disponibile in libreria e online.