Bruxelles – La Commissione europea sta lavorando ad una riforma del contestato regolamento di Dublino, la convenzione sull’accoglienza dei rifugiati sottoscritta, inizialmente, da 12 Stati dell’Ue, nella capitale irlandese nel 1990 ed entrata in vigore l’1 settembre 1997. Il regolamento prevede l’applicazione di alcune regole in tutti gli Stati membri riguardo la gestione delle richieste di asilo e standard condivisi per l’accoglienza dei rifugiati. Fin dall’inizio il regolamento ha ricevuto numerose critiche a causa di regole troppo vaghe, e per essere ritenuto ingiusto coi Paesi “di frontiera”, visto che, secondo il regolamento, i rifugiati una volta identificati devono rimanere nel primo Stato dell’Unione in cui mettono piede.
Cosa prevede l’accordo di Dublino
L’accordo di Dublino non affronta i criteri che ogni Stato deve utilizzare per decidere se un migrante meriti o meno il diritto di asilo sul territorio (a parte lo status di rifugiato in fuga da contesti di guerra e persecuzione), ma soltanto quale Paese europeo debba farsi carico di ospitarlo. Ogni Paese europeo ha il dovere di accogliere i rifugiati, ma in teoria dovrebbe anche avere il diritto di scegliere su quali basi farlo, e cosa garantirgli.
La Convenzione è stata creata dunque per decidere una pratica comune in Europa, evitando che un richiedente asilo possa richiedere l’accoglienza in vari stati dell’Unione, andando così a creare confusione e conflitti di responsabilità. La prima versione stabiliva due punti chiave che non sono cambiati fino ad oggi:
1) Lo Stato responsabile della gestione della domanda di asilo di ciascun rifugiato è quello in cui abitano legalmente i suoi parenti stretti, o dal quale ha già ricevuto un permesso di soggiorno.
2) In assenza di legami accertati, lo Stato che si fa carico della domanda e dell’accoglienza è il primo in cui il rifugiato mette piede.
Col passare degli anni però la convenzione è stata adeguata ad esigenze che non erano state approfondite nell’accordo iniziale, così nel 2003 sono stati aggiunti criteri più precisi per la tutela dei minori, riaffermando come principio centrale il rispetto del nucleo familiare. Nel 2013 è stata poi aggiunta la possibilità che un Paese si rifiuti di trasferire un migrante nello Stato scelto nel caso in cui ci siano timori che egli possa ricevere “un trattamento disumano e degradante”. Il processo di indagine e scelta dello Stato tutore è stato reso inoltre più “inclusivo”, obbligando ogni Stato a tenere informato il rifugiato nei vari passaggi della sua pratica, prendendo in considerazione le sue esigenze.
Nonostante i tentativi di rinnovamento, le norme di Dublino non sono riuscite ad adattarsi allo scorrere del tempo, all’interno di un contesto che non è più lo stesso; dopo 26 anni sono cambiate molte cose, primo tra tutti il numero degli Stati che inizialmente le avevano sottoscritte, si è passati da 12 Stati ai 28 dell’odierna Unione europea, con l’aggiunta di Norvegia, Islanda, Svizzera e Liechtenstein. Secondo problema è che la Convenzione era stata immaginata all’interno di un contesto dove i flussi di rifugiati erano in qualche modo “controllati”, negli anni però è diventato chiaro che la maggior parte dei migranti entrava nell’Ue in modo illegale, senza alcun documento per non farsi identificare nel primo Paese in cui mettevano piede, soprattutto se offriva meno prospettive di occupazione dei Paesi dell’Europa settentrionale, spesso obiettivo finale dei migranti richiedenti asilo.
Un esempio pratico è la situazione di Italia e Grecia, dove le autorità si sono trovate nella situazione di dover offrire rifugio e assistenza temporanea a decine di migliaia di persone che però, contemporaneamente, non vogliono farsi identificare perché interessate a continuare il loro viaggio verso il nord Europa. Inoltre, secondo il trattato di Dublino, il primo Stato in cui il rifugiato viene registrato deve indagare sul percorso che il migrante ha fatto per raggiungerlo, rimandandolo nel primo Paese in cui è entrato attraverso una vera e propria espulsione dal luogo in cui intende chiedere asilo.
Come cambierà l’accordo di Dublino
Questi sono i motivi che hanno portato la Commissione Ue ad ammettere, nell’agenda sull’Immigrazione pubblicata a maggio 2015, che le norme previste da Dublino “non stanno funzionando come dovrebbero” e a chiedere una maggiore collaborazione fra gli Stati membri. Per il momento l’esecutivo comunitario ha proposta la creazione di Eurodac, un database unico per raccogliere le impronte digitali direttamente nei Paesi di “frontiera”, con l’aggiunta di regole ancora più ferree per i minori non accompagnati. Ma la vera proposta di modifica sarà presentata mercoledì dalla Commissione europea che punta a superare proprio il principio base del meccanismo attuale, quello secondo cui spetta al primo Paese di arrivo, trattare la domanda di asilo di un migrante.
La commissione libertà civili del Parlamento europeo ha intanto già concordato alcune richieste di modifica, che saranno votate nel corso della prossima Plenaria a Strasburgo. Tra queste gli eurodeputati chiedono in particolare:
1) Misure urgenti di ricollocamento e di assistenza per i Paesi di “primo arrivo” come Italia e Grecia.
2) Maggiore assistenza sugli hotspot (i centri dove le autorità locali, assistite da funzionari delle agenzie europee Easo, Frontex ed Europol, dovrebbero distinguere tra chi ha diritto all’asilo e chi invece va rimpatriato).
3) Affrontare la questione Schengen, dopo le decisioni di diversi Stati membri di chiudere le frontiere nazionali o introdurre controlli temporanei.
4) Che i rimpatri dei migranti siano effettuati solo verso Paesi sicuri.