Londra – Sono le 14 in punto. Ci ritroviamo alla fermata della metro Pimlico, al centro di Londra, il Tamigi scorre dietro di noi. È una giornata fredda, ma stranamente soleggiata, il sole picchia sulla giacca a mitigare il vento gelido che viene dal fiume. “Ci divideremo in gruppi da due, prendendo per Tachbrook Street, ognuno porti il suo materiale”. Arrivo giusto un attimo prima della partenza, il tempo di presentarmi a David, il coordinatore del gruppo di volontari di Vote Leave, i supporter della Brexit al referendum del prossimo 23 giugno. 35 anni, businessman, un passato nel partito conservatore, David è il tipico ragazzo inglese con un grande amore per l’Italia. Amore che sembrano condividere in tanti, almeno in questo gruppo.
Mi presento e tutti credono che sia venuto per dare man forte alla loro causa. Passano nemmeno 5 minuti e comincia la camminata, armati di volantini, con l’obiettivo di spargere il verbo secessionista. Sono in 9, provenienti da partiti, estrazioni sociali e generazioni differenti. Sembra che questo piccolo gruppo riesca a contenere tutte le varie anime del movimento che si è schierato a favore della Brexit, per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Manca solo qualcuno del Labour Party. All’inizio la timidezza fa da padrona ma ben presto ognuno comincia a dire la sua. Sembrano voler inviare un messaggio a noi Overseas, come a dire: “Cambiate finché siete in tempo”.
Una lunga passeggiata, attraversando Dunbig Street, lasciando volantini in ogni casa, eccetto quelle con scritto “No Junk Mail”, non si sa mai, qui la gente ha un grande senso civico. È una passeggiata corredata da lunghi discorsi, comprensioni e incomprensioni, in particolare sul senso di comunità. Se c’è qualcosa che proprio non va giù a David è il fatto di “far parte di una comunità di 27 stati quando ce ne sono 196 nel mondo” e in particolare che le decisioni vengano prese da “qualcuno a Bruxelles che non è stato eletto, minando la democrazia, mentre noi vogliamo il controllo sui processi decisionali”.
“Non possiamo essere legati a 27 altri Stati, cosa succederebbe se il Regno Unito volesse stipulare un accordo con la Cina e l’India? L’Ue è un blocco per il Regno Unito”. Da vero uomo d’affari, David, guarda molto al lato economico del “problema” Europa. La parola “trade agreement” risuona spesso nei suoi discorsi che inseguono sempre di più un percorso fatto di tasse, accordi commerciali e la magnifica Asia, Paese dei balocchi secondo il businessman. Del resto siamo a Londra e la parola business rientra in qualsiasi campo, dalla musica all’immigrazione.
È proprio su questo ultimo punto che mi domando quale sarà il suo peso nella scelta di David. Un ragazzo che vive da 11 anni a Londra non può certamente non accorgersi che questa è la capitale del cosmopolitismo. La risposta è di quelle che colpiscono un po’, perché nonostante lui si senta a suo agio, “con Tony Blair, l’immigrazione è aumentata notevolmente, circa 2 milioni di immigrati, sono troppi!” e poi c’è il problema degli affitti, “a Londra trovare un appartamento decente è diventato quasi impossibile”.
I nostri discorsi si fanno intensi come i nostri passi e mano a mano raggiungiamo il gruppo. Ancora indicazioni. Un primo resoconto: sono le 15 in punto e abbiamo coperto solo due vie. Londra è grande e le cassette postali sembrano non volersi mai esaurire. Mentre accendo una sigaretta, una donna sulla quarantina si avvicina e indicando David mi dice: “Lasciali stare, loro sono Tories, sono blandi, noi dell’Ukip siamo quelli che davvero vogliono uscire”.
Entra così nel mio universo Elizabeth, la più grande amante della cultura italiana che abbia mai conosciuto. Non c’è discorso che non inizi con “ho un amico italiano fortissimo”, “all’istituto di cultura italiana ho visto…”. Una donna che sa addirittura il motivo per il quale Bernardo Bertolucci si ritrovi su una sedia a rotelle. “Lo sai? Per la malasanità. Del resto in Italia le cose non funzionano proprio bene. In Italia i soldi dell’Europa vanno alla mafia, io non voglio che questo succeda, vogliamo avere il controllo sui nostri soldi”.
Avvocato, specializzata nel diritto familiare, ha avuto un trascorso nel partito conservatore che ha lasciato ben presto, criticandone lo spirito corporativista, “i Tories sono come quei concorsi di bellezza dove vincono le ragazze grasse solo perché votate dai propri compagni di classe”. Una grande fede nell’Ukip (United Kingdom Indipendent Party), che si rispecchia nei suoi ideali, in particolare l’immigrazione. L’UE secondo Elizabeth “sta facendo entrare tutti, semplicemente perché la Merkel ha detto che li dobbiamo accogliere. Ma chi è lei per dire questo? Io ho paura, non c’è controllo!”.
L’immigrazione è il fil rouge che lega la giornata. Arriviamo a Dolphin Square, un complesso residenziale che si impone al centro di una piazza, noto per uno scandalo di pedofilia che ha visto coinvolti alcuni parlamentari inglesi. Un unico palazzo, a metà tra il Corviale in stile british e l’Overlook Hotel (Del film Shining), mattoncini rossi e infissi bianchi. Un agglomerato urbano, di vaste dimensioni. Interni in moquette e ascensori di lusso. Siamo nella parte ricca di Londra, municipio W2, che sta per Westminster.
Dieci scalinate che si distendono per 9 piani. L’organizzazione è tutto e il gruppo si divide nuovamente. Due persone a scalinata. Come una pallina rimbalzo da un gruppo all’altro, si sale al nono piano in ascensore e si scende per le scale, lasciando volantini in ogni buca delle lettere.
Peter, personaggio emblematico del gruppo, ha 67 anni ed è affaticato dalla lunga camminata. Ha un passato da viaggiatore, in Usa, Armenia, Francia e Svizzera e uno spiccato accento british rende la chiacchierata più difficile del previsto. Mi vede come un nipote e si confessa. “Sai io non sono contro l’Ue, il vero problema sono gli immigrati, ce ne sono troppi, gli est europei ci stanno invadendo”. La sua paura è che gli immigrati rubino il lavoro agli inglesi, “ma non pensare che io sia razzista, mia nonna paterna era contro i cattolici e gli immigrati, beh, mia madre era cattolica e immigrata”. Si definisce conservatore “by nature” e non dimentica di dirmi che lui non crede nella politica perché “i politici sono tutti bugiardi”. Sembra quasi che lo scandalo di Dolphin Square rappresenti per lui, per analogia, la decadenza della classe politica inglese, che si è venduta a Bruxelles, lasciando il suo popolo senza il potere decisionale.
Un tema che sembra farsi strada nelle parole di tutti i volontari, come in quelle di Marc. Anche lui proveniente dall’Ukip, con una recente delusione politica, alle scorse elezioni si è candidato ma è arrivato secondo nel suo seggio (nel Regno Unito vige un sistema maggioritario con seggi uninominali.) È convinto della sua fede Marc, e vede nel partito euroscettico la luce che farà brillare di nuovo il Grande Regno Unito. Parla di “Accountability”, la responsabilità dei politici nei confronti dei propri cittadini, “perché in Europa non esiste questo concetto, noi non eleggiamo la Commissione Europea, benché metà delle nostre leggi vengano decise da questo ente”. La sua convinzione è talmente forte da portarlo a credere che nel caso di Brexit ci sarà una crisi, “ma sarà per l’Ue e non per l’Uk”. “Dobbiamo fare campagna perché siamo testa a testa”, mi dice tra il sesto e il settimo piano della scalinata D.
Sulla stessa linea si inserisce Andrew, il più misterioso di tutti. Uomo distinto sulla quarantina, che assecondando le parole di Marc mi ripete quello che finora è stato il punto cardine: “Non è solo un problema di accountability, noi vogliamo decidere come spendere i nostri soldi, stiamo perdendo la nostra sovranità”. Sembrerebbe un ritorno all’antico motto della rivoluzione americana “No taxation without representation”, ma questa volta gli inglesi si ritrovano nel ruolo dei “colonizzati” e non dei coloni.
Sono ormai le 16:30 e mentre il sole sta calando e il vento vince la forza dei raggi solari, ci ritroviamo alla base dell’edificio, che si distende di fronte a noi in tutta la sua grandezza, facendoci ombra e portandoci a rabbrividire. In un paragone continuo con il clima, la giornata cala d’intensità e la stanchezza comincia a farsi sentire, non solo sulle gambe di Peter. L’attenzione si sposta su di me mentre cerco fare il punto della situazione. Torno da David, riprendendo il discorso che sembrava morto. Le banche, sì le banche, benché si sia parlato di business il tema della finanza non è mai stato toccato.
Una voce sovrasta il discorso. “Le banche della City hanno paura di dire la verità”, dice Simon, il più giovane di tutti, indipendente con un passato da ‘astenuto’ alle elezioni. “Lavoro in banca a Old Street e ti dico che c’è un terzo di possibilità che l’Uk possa uscire dalla Ue, ma le fluttuazioni che avvengono sul mercato sono assolutamente normali”, dice prendendo le redini del discorso. “Non è assolutamente vero che le banche hanno paura di una Brexit, l’unica cosa di cui hanno paura è Bruxelles, perché è l’istituzione regolatrice e in caso l’Uk dovesse rimanere nell’Unione, non saprebbero come giustificare le loro dichiarazioni”.
Quello che traspare dopo tante parole è che la Gran Bretagna, già voce dissonante nel coro europeo, sembra aver maturato un ulteriore senso di distacco rintracciabile nelle parole dei volontari di Vote Leave. In quelle di Elizabeth quando dice che “con tutti i soldi che diamo all’Unione Europea potremmo costruire degli ospedali” e in quelle di Marc che ripete in continuazione che “l’Uk non deve aiutare l’Europa”. Il desiderio di sovranità è forte e chissà che questa volta Il Regno Unito non riesca a fare quello che con la rivoluzione fecero in America, quella volta si trattava di tè, questa volta potrebbe trattarsi di Stock Options.