di Christian Marazzi
Ringrazio, prima di tutto, Andrea Fumagalli per aver ripreso e articolato il discorso sul quantitative easing for the people (sul sito di Effimera, N.d.R.) che da un po’ di tempo vengo sostenendo con Marco Bertorello, con qualche intervento su il manifesto (qui e qui) e, recentemente, su Il Fatto Quotidiano. Lo ringrazio perché in Italia (almeno) questa idea, salvo qualche raro spunto su il Sole 24 Ore, non mi sembra abbia suscitato particolare interesse, certamente non a sinistra. Acqua sui vetri, al punto che in una tavola rotonda non proprio entusiasmante con Fassina e Paglia (SEL) sul cosiddetto “piano B” dello scorso novembre a Milano, il QE for the people che avevo ventilato come possibile alternativa alle misure di politica monetaria della BCE era stato comparato agli 80 euro di Renzi.
I dubbi di natura politica sollevati da Andrea sono certamente condivisibili, in particolare là dove si chiede se esiste in Europa la forza politica “di movimento” per orientare la svolta monetaria nella direzione di una reale redistribuzione della liquidità per ridurre le disuguaglianze e per contrastare le politiche austeritarie che stanno distruggendo i sistemi di welfare. La proposta di Andrea di un QE “dal basso”, che parta da realtà locali e concrete di auto-produzione e auto-organizzazione, per contrastare la versione liberista del QE oggi predominante (cioè quella friedmaniana dell’helicopter money a vantaggio delle imprese più che dei cittadini europei), mi sembra anch’essa condivisibile, almeno in teoria. Occorre soggettivare le politiche monetarie, definirne gli attori e i destinatari, cercando di uscire dalla nebulosa della “gente”. Giusto, anche se per il momento faccio fatica a vedere come si possa coniugare una manovra monetaria “dall’alto” con una sua articolazione soggettiva e concreta “dal basso”. Sicuramente, questo è un punto centrale del dibattito attorno al QE for the people, e quindi va preso molto seriamente. Di nuovo grazie a Andrea per queste puntualizzazioni.
A me sembra che la proposta di una diversa politica di creazione della liquidità da parte delle banche centrali, della BCE e della banca centrale giapponese in particolare, una politica cioè di creazione e di distribuzione della liquidità direttamente nelle tasche dei cittadini, vada interpretata per quello che realmente è, ossia la logica conseguenza del fallimento delle politiche monetarie stesse. La situazione è, per così dire, disperata, nel senso che tutto quanto le banche centrali hanno fatto dall’inizio della crisi fino ad oggi non ha contribuito in alcun modo a generare crescita e ancor meno inflazione, quest’ultima necessaria per alleviare il peso dei debiti pubblici a privati. È vero che, senza queste politiche espansive, le cose (la deflazione in particolare) sarebbero potute andar peggio. Le ultime decisioni di Draghi, di aumentare gli acquisti mensili di obbligazioni pubbliche e private e di ridurre ulteriormente i tassi sui depositi delle banche presso la BCE, sono un evidente sostegno ai mercati finanziari, ma certamente non hanno la capacità di rompere il circolo vizioso della finanziarizzazione, il fatto che il denaro non sgocciola nell’economia reale.
Pare che qualcosa come l’80% della liquidità iniettata nei circuiti bancari attraverso il QE vigente ritorni alla BCE sotto forma di depositi… a tassi negativi! Se protratta troppo a lungo, questa “strategia monetaria” rischia di essere travolta dai suoi effetti collaterali, in particolare l’indebolimento delle banche a causa di quei tassi negativi che, in assenza di un trasferimento sui depositi (per evitarne l’esodo), può solo ridurre i profitti bancari. Non è neppure detto che l’altra misura di Draghi, quelle delle aste (auction) a tassi zero o, se del caso, negativi per stimolare le banche a fare crediti alle imprese abbia possibilità di successo, dato che potrebbe rivelarsi un ulteriore stimolo a investire sui mercati finanziari.
Il QE nella forma dell’helicopter money sembra dunque il prossimo passo per permettere alle banche centrali di contrastare la stagnazione secolare che attanaglia l’economia globale. Sembra, non è detto che sia ineluttabile, ma è un fatto che se ne parla con sempre più insistenza; lo stesso Draghi, par di capire, non è ostile a priori. Dal nostro punto di vista, perché non “incunearsi” in questo dibattito? Perché lasciare il campo ai neoliberali in un momento in cui questa possibile versione del QE, nata dalla critica monetarista, viene rivalutata per contrastare i danni della stessa politica monetarista? È in questo paradosso che, forse, si aprono spiragli per la costruzione di possibili e certamente inedite “alleanze”.
Un’ultima cosa: al di là dei suoi effetti macroeconomici, ossia la riduzione delle disuguaglianze e l’aumento della domanda effettiva, nella nostra versione il QE for the people dovrebbe puntare, oltre alla distribuzione diretta di reddito, anche a investimenti di tipo “antropogenetico”, ossia nei settori della formazione, della socialità e sanità, della cultura e della solidarietà. Certamente non nelle infrastrutture del genio civile di keynesiana memoria (che è poi la versione neoliberale del QE for the people) che non contribuiscono in alcun modo a generare redditi duraturi e comportano esternalità negative devastanti. I settori in cui investire sono quelli che Andrea indica alla fine del suo intervento. Spetta alle situazioni locali, infatti, mobilitarsi e rivendicare questi investimenti.
Pubblicato su Effimera il 18 marzo 2016.