di Thomas Fazi
La vera novità del “super-QE” annunciato da Draghi il 10 marzo scorso – che poi di “super” ha ben poco –, oltre all’incremento degli acquisti mensili di titoli di Stato da 60 a 80 miliardi e al varo di nuove TLTRO (Target Long Term Refinancing Operations), in cui le banche potranno prendere a prestito dalla banca centrale anche a tassi negativi (in sostanza guadagnandoci), consiste senz’altro nella decisione di includere nel quantitative easing, oltre ai titoli di Stato, anche le obbligazioni societarie (i cosiddetti corporate bond) delle grandi aziende industriali, un mercato da circa 900 miliardi. Una vera manna per le grandi imprese del continente – e non solo? –, che potranno emettere nuovi titoli e venderli direttamente alla BCE (di fatto ottenendo un credito direttamente dalla banca centrale) e/o riacquistare i propri bond al tasso di rendimento attuale (in quella che si chiama operazione di buyback) e piazzarne sul mercato di nuovi ad un tasso di interesse molto più basso (e dunque ad un prezzo più alto, giacché il prezzo dei titoli è inversamente proporzionale rendimento).
Si tratta di una misura senza precedenti, che per la prima volta vedrà la banca centrale immettere denaro direttamente nelle imprese non finanziarie (nei fatti sostituendosi alle banche commerciali). Non tutte, ovviamente. Rimangono escluse dall’operazione, infatti, tutte quelle medie e piccole imprese che – soprattutto in Italia ma anche altrove – rappresentano la stragrande maggioranza delle imprese e dell’occupazione e che maggiormente hanno risentito – e risentono – della crisi indotta dalle politiche di austerità.
Ancora una volta, dunque, emerge la natura squisitamente politica – e di classe, potremmo dire – delle scelte apparentemente “neutrali” di politica monetaria delle banche centrali, nonché dei rapporti di forza – tra paesi oltre che tra classi – che determinano le scelte di politica economica in Europa: come ha rivelato Merrill Lynch, infatti, a beneficiare del “regalo” di Draghi saranno soprattutto le grandi imprese multinazionali del continente – che non solo non hanno risentito dalla crisi ma anzi sono quelle che raccolgono i frutti della deflazione salariale perseguita dalle classi dirigenti europee (la stessa che deprime i profitti delle piccole e medie imprese, che dipendono dalla domanda interna) – ed in particolare le grandi imprese francesi e tedesche. Non c’è da sorprendersi. Come riporta un recente articolo di Repubblica, Draghi lo andava ripetendo da mesi:
Porterò gli acquisti dei bond da 60 a 70 miliardi, questo è sicuro… Ma se vorrò alzarlo a 80 miliardi, dovrò per forza acconsentire alle richieste tedesche e francesi di estendere il QE ai corporate bond.
E così è stato. Non dovrebbe andare troppo male neanche alle multinazionali italiane comunque. Se l’ammontare dei bond aziendali “eleggibili” francesi è di 209 miliardi e di quelli tedeschi di 122, le obbligazioni nostrane qualificate raggiungono 69 miliardi. Come era prevedibile, la decisione della BCE di allargare il QE anche ai corporate bond ha provocato un’impennata di nuove emissioni, mentre i rendimenti dei titoli sono scesi a picco. Ma non sono soltanto gli emittenti europei ad essersi messi in moto. Si sono rivisti anche quelli americani, che dall’inizio dell’anno hanno effettuato emissioni per circa 30 miliardi di euro, superando i volumi dello stesso periodo del 2015 di 27,6 miliardi di euro. Al momento non è chiaro se l’operazione della BCE sarà limitata ai titoli europei o meno, ma escludere le società non europee potrebbe rivelarsi difficile anche da un punto di vista tecnico (considerando che molte multinazionali statunitensi possiedono succursali europee).
Una sola cosa è certa: ancora una volta, degli 80 miliardi “stampati” ogni mese dalla BCE, la stragrande maggioranza dei cittadini europei non vedrà un euro. E pensare che soli pochi giorni fa Peter Praet, capo economista della BCE, ha dichiarato che la banca centrale potrebbe «semplicemente distribuire denaro al pubblico» se lo volesse. Tra il dire e il fare, però, ci sono di mezzo quarant’anni di redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto.