In questi giorni, dopo la tragedia del 22 marzo a Bruxelles, ho letto molto articoli di analisi sulla sicurezza in Belgio, in particolare sulla stampa italiana, francamente deludenti. Tanti erano conformisti, qualcuno cercava un’originalità devo dire, populista.
Il centro dell’analisi è sempre che il Belgio non è in grado di affrontare la lotta al terrorismo, e qualcuno, non ho capito su quali basi, è arrivato a scrivere che il Belgio è “uno stato fallito”. Vorrei partire da questa seconda affermazione. Il Belgio, uno dei sei fondatori dell’Unione europea, è un Paese con un livello di democrazia e con servizi sociali che l’Italia neanche si immagina. Forse c’è anche “troppa” democrazia, che sconfina nella burocrazia, per garantire che ogni comunità linguistica (ce ne sono tre, e quella francofona non è la principale) abbia la sua autonomia politica e amministrativa. Il Belgio è uno stato i cui cittadini sono in maggioranza cattoloci ma laico per eccellenza, e sono banditi i simboli religiosi da ogni ufficio pubblico, scuole confessionali comprese. Esistono, da anni, i matrimoni omosessuali, l’eutanasia, l’aborto, ogni sforzo è fatto per abbattere le differenze di genere. C’è una storica, consolidata, cultura dell’accoglienza e dell’integrazione, le regole per l’ammissione alle scuole sono stilate sotto il principio della “mixité sociale”. I diritti dei lavoratori, e sono tanti, sono sacrosanti.
Poi c’è l’aspetto dei servizi sociali: assegni familiari consistenti, sanità praticamente gratuita, assistenti sociali scrupolosi, sostegno sostanzioso per la disoccupazione, scuole gratuite e assegni ai più bisognosi. I mezzi pubblici sono efficienti.
La nazionale di calcio del Belgio, per chi ama questo tipo di analisi, è la prima al mondo nella classifica Fifa.
Dire che è uno “stato fallito” è una bestialità, irrispettosa per i tanti (la maggioranza forse) dei belgi orgogliosi del loro Paese, che vogliono vedere unito, ed è anche dimostrazione di ignoranza della reale situazione.
Il 22 marzo ci sono stati due tremendi attentati. Tremendi come quelli, ripetuti, in Francia, o in Gran Bretagna, o in Spagna, o negli Stati Unti (per fermarci a qualche Paese occidentale). Perché nessuno ha detto, o dice, che le polizie di quei paesi sono inefficienti? Perché nessuno dice che quelli sono Stati falliti? Il Belgio è un piccolo paese che con il terrorismo, per sua fortuna, non ha praticamente mai avuto a che fare, fino a due giorni fa. E’ vero, non ha esperienza in queste cose, avrà commesso anche alcune ingenuità, ma si è subito, immediatamente aperto all’aiuto dei più esperti (anche se duramente colpiti anche loro) francesi.
Il centro del problema però, quello dal quale si sfugge per fare sensazionalismo, per trovare un nemico “facile” da individuare e da raccontare a chi del Belgio e del terrorismo sa poco e niente, è che la polizia è solo l’ultimo anello della catena della prevenzione del terrorismo. Questo qualsiasi esperto del settore lo sa. Il terrore si combatte con l’intelligence, con i servizi segreti, con gli infiltrati. Le persone e le armi trovate in Belgio hanno prima viaggiato per mezza Europa, sono sfuggite al controllo di molti, non solo dei poliziotti di quartiere di Molenbeek.
Il tema vero è che in Europa, e non solo, neanche tra i paesi “democratici”, non c’è vera collaborazione, condivisione delle intelligence. Un fatto in apparenza insignificante avvenuto in Slovenia, unito a uno simile in Francia, e poi in Germania e magari anche in Belgio, può diventare un’informazione preziosa, se tutti questi elementi sono messi a sistema, se queste informazioni sono scambiate e condivise. Ma se un Paese sa, o sospetta, che qualche arma, materiale esplosivo, persona che passa dal suo Paese non è più un suo problema quando varca il confine allora qualcosa non funziona, allora anche i cittadini di quel Paese, come è successo qui a Bruxelles dove le nazionalità coinvolte negli attentati sono almeno quaranta, non sono al sicuro.