di Guglielmo Forges Davanzati
La lunga recessione italiana non dipende né dall’elevato debito pubblico né dall’adozione della moneta unica, come le narrazioni dominanti – ovviamente su sponde politiche diverse – provano a spiegarla. Si tratta di motivazioni che, nella loro semplicità, sono facilmente divulgabili e, per un’opinione pubblica disattenta o poco informata, facilmente assimilabili. Non vi è però dubbio in merito al fatto che l’adesione alla moneta unica ha contribuito ad accentuare i problemi, sia perché l’impalcatura istituzionale dell’Unione monetaria europea (UME) è di fatto costruita in modo da produrre deflazione e recessione[1], sia perché, attraverso l’attuazione di misure di austerità, contribuisce alla crescita del debito, in particolare nei paesi periferici.
La recessione italiana andrebbe piuttosto inquadrata in una prospettiva di carattere più generale che attiene a ciò che viene definito il declino economico italiano: quella italiana è una crisi nella crisi, che non trova eguali nel resto d’Europa[2]. Per darne conto, può essere sufficiente il solo dato per il quale nel 2014 l’Italia è stato l’unico grande paese europeo a sperimentare un tasso di crescita ancora di segno negativo, con un Mezzogiorno che continua a diventare sempre più povero (SVIMEZ, 2015).
La categoria del declino economico attiene a una prospettiva di lungo periodo ed è difficile individuare una data esatta dal quale farlo partire. Non vi è dubbio che il doppio shock petrolifero degli anni settanta costituisce un punto di svolta rilevante per l’economia italiana, dal momento che ha posto sostanzialmente fine al modello di crescita basato sulle esportazioni che è stato alla base del c.d. miracolo economico del precedente decennio. Si può, tuttavia, assumere il biennio 1992-1993 come punto di svolta ancora più rilevante, sia per il radicale cambiamento del segno della politica fiscale, sia per le note vicende giudiziarie che portarono alla delegittimazione del ceto politico (la c.d. tangentopoli) e al conseguente insediamento dei governi “tecnici” presieduti da Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi[3].
Sul piano empirico, Banca d’Italia riporta che, a partire dalla metà degli anni novanta, la spesa pubblica corrente si è sistematicamente ridotta, con una contrazione di circa un punto percentuale fra il 1993 e il 1994. Viene anche rilevato che la spesa pubblica italiana in rapporto al PIL è stata (e continua a essere) sistematicamente inferiore alla media dei paesi OCSE e che nell’ultimo decennio il tasso di crescita della produttività del lavoro si è ridotto di circa il 2%. Il che sembra confermare l’ipotesi interpretativa in base alla quale la riduzione della spesa pubblica contribuisce a generare effetti di segno negativo sulla dinamica della produttività del lavoro.
Il costante declino della domanda interna (soprattutto imputabile all’attuazione di politiche fiscali restrittive nel periodo considerato) lo si può spiegare a partire dalla fragilità del tessuto produttivo italiano e dalla conseguente tendenza della nostra economia a registrare disavanzi commerciali. In tal senso, risulta possibile argomentare che la riduzione della spesa pubblica è servita a evitare sistematici disavanzi della bilancia commerciale (e, al tempo stesso, per contenere la crescita del debito pubblico), a fronte della dipendenza dalle importazioni di materie prime (e macchinari). Al tempo stesso, essa è risultata funzionale a una specializzazione produttiva – il c.d. made in Italy – che non richiede rilevanti innovazioni tecnologiche (e che, dunque, non richiede rilevanti importazioni di materie prime e macchinari), e che deriva da produzioni generate per lo più da imprese di piccole dimensioni.
I governi che si sono succeduti almeno nell’ultimo ventennio hanno dunque rinunciato ad attuare politiche industriali, confidando nella presunta “vitalità” della nostra imprenditoria. D’altra parte, poteva sembrare, in quegli anni, una scelta scontata, sia perché legittimata dalla tesi del “piccolo è bello”, sia perché funzionale a contenere la dinamica della spesa pubblica per provare a ridurre il debito pubblico e, contestualmente, a evitare disavanzi sistematici della bilancia commerciale. La costante riduzione della domanda interna è derivata (e deriva), dunque, non solo da riduzione dei consumi e degli investimenti privati, ma soprattutto da riduzioni della spesa pubblica e continui aumenti della pressione fiscale. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, si può considerare che un’elevata evasione fiscale implica una redistribuzione dell’onere fiscale a danno dei percettori di redditi bassi, dal momento che, di norma, si tratta di redditi tassati “alla fonte”. Quest’ultima considerazione contribuisce a spiegare per quale ragione[4].
L’Italia è, fra i paesi OCSE, quello che ha registrato la maggiore crescita delle diseguaglianze e il maggior grado di immobilità sociale. L’indice di Gini, l’indicatore comunemente utilizzato per misurare le diseguaglianze, è quasi raddoppiato nel corso degli ultimi trenta anni: il che significa che l’1% della popolazione si è progressivamente arricchito, in termini monetari e reali, e la restante parte della popolazione si è sempre più impoverita. L’Italia ha sperimentato questa dinamica in modo molto accelerato, anche in considerazione del fatto che le diseguaglianze distributive, nel nostro paese, non sono solo diseguaglianze fra gruppi sociali, ma anche diseguaglianze (crescenti) fra aree geografiche. La crescita delle diseguaglianze è associata alla riduzione della mobilità sociale. Quest’ultima è misurata dall’elasticità intergenerazionale dei redditi, ovvero dalla quantità di risorse che vengono trasmesse da una generazione alla successiva, ed è anche immobilità di status: è cioè molto probabile, e sempre più probabile, che il figlio di un operaio diventi operaio e che il figlio di un imprenditore diventi imprenditore.
Le politiche di ridisegno del sistema formativo che lo rende sempre più elitario hanno ampiamente contributo a questo esito, che rappresenta non solo un problema di equità, ma anche un problema propriamente economico dal momento che impedisce che, nel mercato del lavoro, la forza-lavoro sia allocata in base alle effettive competenze dei singoli e accentua, per conseguenza, un processo di allocazione della forza-lavoro basata sulle reti relazionali. Si tratta, peraltro, di un fenomeno che si autoalimenta, dal momento che i giovani provenienti da famiglie con basso reddito (e basso livello di istruzione) apprendono che – e si attendono che – il titolo di studio non accresce la probabilità di trovare impiego, o comunque un impiego coerente con le qualifiche acquisite.
L’esito di queste scelte è stato duplice e, in entrambi i casi, controproducente ai fini del recupero di un percorso di crescita. In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica (e l’aumento della tassazione) non è risultata una strategia efficace per ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, che ha continuato a crescere soprattutto – se non esclusivamente – a ragione della riduzione del tasso di occupazione e del PIL conseguente all’attuazione di politiche fiscali restrittive in fase di recessione[5]. In secondo luogo, il declino della domanda interna ha ridotto i mercati di sbocco, contribuendo a ridurre ulteriormente le dimensioni medie aziendali. Imprese di piccole dimensioni sono, di norma, imprese poco innovative (che, dunque, non esprimono domanda di lavoro qualificato), nelle quali le retribuzioni sono basse, e sono imprese fortemente dipendenti dal credito bancario. È stato rilevato a riguardo che, nel caso italiano, la crescita della produttività del lavoro, nei pochi casi nei quali si è verificata, è principalmente imputabile alla crescita dei ricavi, secondo un modello di espansione dell’impresa definito “growth on the market”[6].
La lunga recessione italiana appare dunque imputabile a una sequenza così ordinabile: la riduzione della spesa pubblica ha ridotto i mercati di sbocco per le imprese che operano sul mercato interno (la gran parte delle imprese italiane); la riduzione dei mercati di sbocco ha compresso i profitti, le fonti di autofinanziamento degli investimenti – rendendo le imprese sempre più dipendenti dal credito bancario; la riduzione degli investimenti ha ridotto la domanda interna e il tasso di crescita della produttività, disincentivando la crescita dimensionale delle imprese[7].
Pubblicato su MicroMega il 4 marzo 2016.
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Note
[1] V., fra gli altri, A. Parguez (1999), “The expected failure of the European economic and monetary union: A false money against the real economy”, Eastern Economic Journal, 25, 1, Winter.
[2] V. C. D’Ippoliti e A. Roncaglia. (2011). “L’Italia: una crisi nella crisi”, Moneta e credito, 64, n. 255, pp. 187-227.
[3] Come osserva Graziani: «Il 1992 non fu soltanto… un anno di crisi per il Sistema monetario europeo; esso segnò anche, per la vita politica italiana, una svolta di considerevole portata». A. Graziani (2000), L’economia italiana dal ’45 a oggi, Bologna, Il Mulino, p.166. Si può ritenere che quelle misure rispondevano all’obiettivo di avvicinarsi ai parametri di Maastricht, ma sembra un non sequitur proporre una catena logica che va dal cambio di indirizzo della politica fiscale di quegli anni all’adozione dell’euro, all’impossibilità di svalutazioni competitive alla “perdita di sovranità monetaria”, alla necessità logica delle politiche di austerità (derivante dall’architettura istituzionale dell’Unione monetaria europea) per arrivare alla recessione italiana. Ciò, se non altro, perché è dal 1981, anno del c.d. divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, che in Italia è fatto divieto di monetizzare il debito pubblico – e, dunque, in questa accezione, la sovranità monetaria la abbiamo persa da oltre trent’anni. In più, l’austerità, nei paesi centrali dell’Unione, in economie nelle quali la crescita è export-led, sembra funzionare. Come ha rilevato Martin Wolf sulle colonne del Financial Times, l’Europa ha realizzato un consistente surplus commerciale negli ultimi anni. Va tuttavia osservato che questo risultato è niente affatto uniforme fra i paesi dell’area euro, e che, in particolare, il miglioramento del saldo delle partite correnti si è verificato quasi esclusivamente nei paesi centrali del continente.
[4] Si consideri anche che un elevato debito pubblico si associa, di norma, a un’elevata tassazione sui salari. Ciò accade, in particolare, in contesti nei quali risulta non conveniente, per un governo, tassare banche e/o imprese, ovvero in contesti nei quali le prime potrebbero reagire a un aumento della tassazione sui loro utili vendendo (o non acquistando) titoli di Stato e le seconde potrebbero reagire delocalizzando. In più, la tassazione sugli utili di impresa può tradursi nella traslazione delle imposte sui consumi, generando, anche per questa via, riduzione dei salari reali.
[5] Ma anche per gli elevati tassi di interesse sui titoli di Stato. Tassi di interesse tenuti elevati per attirare capitali speculativi e provare, per questa via, a riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Cfr. A. Graziani. (2000), L’economia italiana dal ’45 a oggi, Il Mulino, Bologna.
[6] A. Coad, R. Rao e F. Tamagni (2011), “Growth processes of Italian manufacturing firms”, Structural Change and Economic Dynamics, 22, pp.54-70.
[7] V. S. Perri, S. e R. Lampa (2014), “Il declino e la crisi dell’economia italiana: dalla teoria ai fatti stilizzati” in R. Cerqueti (eds.), Polymorphic crisis. Readings on the Great Recession of the 21th century, Macerata: Edizioni Università di Macerata. Una lucidissima ricostruzione della lunga crisi italiana è stata fornita da Marcello De Cecco, recentemente scomparso, nel saggio Una crisi lunga mezzo secolo: le cause profonde del declino italiano, Economia Italiana, 2012, n. 3, pp.69-92.