di Gustavo Piga
La decisione di Draghi ha eccitato molti. In realtà è il segnale della disperazione di Francoforte per l’impotenza del suo cannone di politica monetaria contro una crisi che non se ne va e che umilia ogni giorno di più la BCE, sempre più incapace di raggiungere il suo obiettivo del 2% di inflazione nell’area euro. Finita la speranza che il commercio mondiale avrebbe ravvivato il continente, ci troviamo di fronte alle nostre miserie e siamo obbligati a prenderci delle responsabilità che speravamo maldestramente di evitare: finalmente il nemico bussa alle porte, non ci sono più scuse, bisogna guardarlo in faccia e combattere.
E Draghi fa il suo, per quanto possibile. Non tanto con la decisione di abbassare i tassi, né tantomeno con l’effetto a sorpresa di pagare queste banche se prestano, che altro non è che un (ingegnoso) modo di abbassare i tassi sotto quota zero. Queste misure aiuteranno un po’, quanto hanno aiutato in passato (cioè poco), a stimolare la domanda interna di investimenti privati che langue. In realtà se consideriamo che l’inflazione è diminuita ancora (e di tanto, inaspettatamente) l’abbassamento dei tassi nominali della BCE è in parte compensato dall’abbassamento dei prezzi per le imprese e dunque è unguento maggiore su una ferita che si allarga.
Piuttosto, Draghi spariglia con una frase, una piccola frase, alla fine del suo discorso. Una frase che di nuovo denota il coraggio della disperazione. Eccola qui: «Infine, guardando avanti, tenendo in considerazione l’attuale scenario per la stabilità dei prezzi, il Consiglio della BCE si attende che i suoi tassi di interesse di riferimento rimangano all’attuale o a un minore livello per un periodo di tempo prolungato, e ben al di là dell’orizzonte temporale del nostro piano di acquisti di attività finanziarie nette».
Ecco il messaggio chiave, un po’ sullo stile Fed americana, volto a influenzare l’unica cosa che può far ripartire a questo punto la depressa economia europea: le aspettative degli operatori. Draghi dice, urbi et orbi, legandosi le mani e legando soprattutto le mani della Bundesbank tedesca, che rimane sempre all’opposizione interna nella BCE, che da una politica espansiva, fino a quando l’inflazione non tornerà verso quota 2%, non si smuoverà. Il che significa che manterrà questi tassi anche a fronte di aumenti dei prezzi, promettendo dunque agli imprenditori tassi reali sui loro debiti sempre più bassi mano a mano che la ripresa dell’inflazione prenderà forza. Un incoraggiamento notevole, perché tocca i conti dell’azienda esattamente là dove deve: nei loro programmi di medio e lungo periodo, nelle tabelle Excel direbbe qualcuno, dei loro piani di investimento, abbattendo i costi del rischiare in maniera significativa.
Basterà? Non credo.
La battaglia è così ardua, il pessimismo o il timore di scommettere sul futuro così pervasivi, che anche sotto queste condizioni pochi se la sentiranno di rischiare. Anche perché l’alleato di Draghi nella battaglia se la dà a gambe levate e questo, ovviamente, dà baldanza proprio al nemico dell’Europa, il pessimismo. Quell’alleato si chiama politica fiscale, investimenti pubblici, che restano al palo perché in mano a governi che non se la sentono di prendere l’ascia e combattere come Draghi. Certo quest’ultimo non si fa un favore quando alla fine del suo discorso compensa il coraggio di cui sopra affermando come «le politiche fiscali devono supportare la ripresa economica, ma rimanendo rispettose delle regole fiscali dell’unione europea. La piena e coerente attuazione del patto di stabilità e crescita è cruciale per mantenere la fiducia nella costruzione fiscale».
Certo, è probabilmente il prezzo che deve pagare alla Bundesbank per potersi esporre sulla politica monetaria. Ma così mortifica il suo impatto positivo sulle aspettative degli operatori, confondendole, perché con una mano, di suo, dà e con l’altra conferma che l’Europa toglie: dare liquidità ma al contempo chiedere ai governi di ridurre il loro sostegno all’economia riducendo i loro deficit pubblici è messaggio contraddittorio.
Questa contraddizione uccide contemporaneamente l’Europa e la mossa di Mario Draghi: Franklin Delano Roosevelt negli anni Trenta non cadde nell’errore, chiedendo non solo alla Fed di fare quello che Draghi dice oggi che farà con la politica monetaria, ma anche obbligandosi ad essere “fiscalmente irresponsabile”, promettendo cioè ai cittadini una politica fiscale dove la manona pubblica, ben visibile, avrebbe supportato a suon di appalti, le vendite del settore privato, riportando l’ottimismo necessario.
Se non vi piace Roosevelt perché lo trovate agé, accontentatevi del premio Nobel Sims, che pochi anni fa ebbe modo di ricordare all’Europa cosa andava fatto da parte delle politiche economiche per risvegliare il continente: «Una politica fiscale espansiva oggi, senza un impegno a tagliare le spese, oggi o domani, o ad aumentare le imposte». Facile? Mica tanto. Sempre Sims: «Purtroppo la gente è molto convinta che questa non è la politica fiscale che abbiamo e che per averla dovremmo richiedere un cambiamento radicale nelle politiche e nei discorsi dei politici e delle banche centrali affinché questa gente si convinca che un cambiamento di questo tipo avverrà. Tutto ciò richiede un sistema politico capace di legarsi le mani nel tempo e di non modificare le sue promesse espansive, cosa difficilissima per i politici».
Ecco, rispetto al discorso del 2014 di Sims una prima gamba per combattere nel viscido terreno europeo ora c’è: il discorso di Draghi va in questa direzione, di influenzare a lungo le aspettative. Adesso i governi vigliacchi e maldestri facciano la loro parte, modificando la Costituzione europea, rovesciando il fiscal compact, e permettendo di sostenere credibilmente nel tempo la domanda pubblica come Draghi cerca di sostenere quella privata: se non la faranno non solo manderanno a casa Draghi, manderanno a casa il progetto europeo.
Pubblicato sul blog dell’autore il 12 marzo 2016.