L’Europa farebbe bene ad essere molto preoccupata dopo la recente interrogazione del Parlamento europeo al presidente della Banca centrale europea (BCE) Mario Draghi. Tra le domande, ce n’erano due che vanno dritte al cuore delle più recenti lotte in seno alla zona euro. La prima riguardava la veridicità delle recenti rivelazioni secondo le quali il Tesoro italiano sarebbe in trattativa con la BCE per includere i crediti deteriorati delle proprie banche nel programma di quantitative easing della BCE. Draghi ha risposto che la BCE non avrebbe acquistato direttamente tali asset, ma che questi potrebbero essere accettati come garanzia in cambio di fondi. La seconda era legata ad un piano partorito dal Consiglio degli esperti economici tedeschi che comporterebbe uno stravolgimento nel modo in cui vengono trattati i titoli sovrani europei, con conseguenze potenzialmente disastrose per l’Europa meridionale. Su questa domanda Draghi ha sviato.
Le due questioni sono il più recente epicentro di una lotta in corso in Europa almeno dalla crisi finanziaria del 2008. Da un lato c’è l’Europa del nord, guidata dalla Germania, che vuole che ogni ulteriore avanzamento verso un’unione più stretta sia valutato con attenzione. La Germania ritiene che qualunque passo in avanti vada intrapreso solo dopo che tutti i membri abbiano dimostrato la loro rettitudine fiscale, in gran parte attraverso la riduzione dei loro livelli di deficit e di debito pubblico. Dall’altra parte ci sono le nazioni dell’Europa del sud, rappresentate bene dall’Italia, che vedono l’unione e la messa in comune dei fondi come una via d’uscita dai loro problemi finanziari. Questi paesi ritengono che con la potenza economica della Germania alle loro spalle saranno al sicuro dalle forze negative del mercato.
In questa battaglia è in vantaggio ora l’una ora l’altra parte. Quando la crisi del debito sovrano ha colpito, nel 2011, l’Europa meridionale si è trovata in ginocchio e sostanzialmente costretta a chiedere aiuto ai paesi del nord. I salvataggi sono arrivati – ma a condizioni molto stringenti. I destinatari hanno dovuto attuare profonde riforme e tutti i paesi hanno dovuto accettare il fiscal compact – un insieme di nuove regole di bilancio molto severe. Con la crisi sono arrivate anche nuove regole per il cosiddetto bail-in del settore bancario, in base alle quali, in caso di dissesto di una banca, gli investitori (obbligazionisti e depositanti sopra i 100,000 euro) devono sobbarcarsi il grosso delle perdite prima che possano intervenire i governi.
Per mezzo di queste politiche, il nord è rimasto in vantaggio per diversi anni, usando l’austerità e la responsabilità fiscale come parole d’ordine. Nel frattempo, il sud ha lottato per riconquistare il suo equilibrio. Questo status quo è cambiato nel 2015, quando la BCE di Draghi, che è italiano, andando contro la volontà tedesca ha intrapreso un programma di allentamento quantitativo (anche se i funzionari europei dovrebbero dimenticare la propria nazionalità quando assumono l’incarico, la nazionalità di Draghi in questo caso ha probabilmente giocato un ruolo).
La decisione di Draghi di iniziare l’allentamento quantitativo ha sostanzialmente ridotto la pressione ad avviare le riforme sugli Stati dell’Europa meridionale, poiché ha mantenuto i rendimenti dei loro titoli di Stato sotto controllo anche se essi non perseguivano l’austerità. Inoltre, il prezzo del petrolio è sceso drasticamente – una confluenza di eventi felici per il sud poiché ha rafforzato il potere dei consumatori europei, consentendo una maggiore crescita in paesi come la Spagna e il Portogallo e portando ad una rinascita di fiducia nel sud. Entro la fine del 2015, molti paesi del sud stavano pubblicamente violando il fiscal compact.
Ma il 2016 non è iniziato così bene per il sud. I meccanismi di bail-in dell’unione bancaria sono ormai entrati in vigore, e hanno portato l’attenzione dei mercati sui livelli esorbitanti di crediti deteriorati ancora esistenti nei sistemi bancari di paesi come l’Italia e il Portogallo. Il quantitative easing può proteggere i titoli di Stato, ma non protegge azioni e obbligazioni delle banche, e i paesi debitori adesso sono minacciati ancora una volta. È il problema che il Tesoro italiano vorrebbe che la BCE risolvesse includendo i crediti in sofferenza nel suo programma di acquisto di asset della zona euro.
Dal punto di vista italiano, l’inclusione sarebbe una semplice estensione del programma: più copertura della BCE per evitare il disastro. Dal punto di vista tedesco, riempirebbe la banca centrale dell’Unione con asset potenzialmente tossici, diffondendo la malattia dell’irresponsabilità del sud nel flusso sanguigno di tutta l’Unione. Ma Draghi ha dimostrato la sua volontà di opporsi ai tedeschi nel passato, e ora che ha dichiarato esplicitamente che la BCE accetterà i prestiti delle banche italiane almeno a titolo di garanzia, sembra che sia pronto a sfidare nuovamente la Germania.
Il che ci porta alla seconda questione, quella su cui Draghi ha glissato: la replica tedesca. Nato dal Consiglio degli esperti economici tedeschi – i cinque saggi, come sono comunemente chiamati, sebbene uno di essi sia una donna – il piano è stato fatto trapelare nel 2015. E ora ha apparentemente l’appoggio sia del ministero delle finanze tedesco che della Bundesbank e consiste nel prendere il concetto di bail-in introdotto per le banche della zona euro ed applicarlo anche ai titoli sovrani. Ciò significa che, per esempio, se il Portogallo raggiungesse un punto in cui non può ripagare i suoi debiti e dovesse fare default, i detentori dei titoli di Stato sarebbero i primi a sostenerne i costi prima che il Meccanismo europeo di stabilità – che è stato creato in risposta alla crisi del 2011-12 – possa entrare in gioco e puntellare le finanze del paese utilizzando i fondi provenienti dal resto dell’Unione.
L’attuazione di questo piano probabilmente aumenterebbe drasticamente i rendimenti dei titoli del Sud Europa, dal momento che gli investitori fronteggerebbero un rischio molto maggiore per tenerli. Se attuato, il piano probabilmente porterebbe subito l’Europa indietro ai giorni di panico del 2011-12, quando la zona euro era sull’orlo di un rapido disfacimento. Non è in sé sorprendente che questa idea sia stata proposta. Quel che è cruciale, però, è la decisione di farla trapelare, probabilmente per saggiare la reazione dell’opinione pubblica.
È chiaramente una proposta esplosiva, e la sua comparsa probabilmente riflette due fattori in gioco. Il primo è un sentimento profondo all’interno della classe dirigente economica tedesca che la zona euro, allo stato attuale, non è funzionale agli interessi della Germania. L’euroscetticismo ha assunto varie forme in tutto il continente. La forma tedesca è la spinta alla responsabilità fiscale e all’attuazione delle regole ad un punto tale che la zona euro potrebbe spaccarsi. Il secondo fattore è più tattico. Di fronte alla prospettiva terrificante di un cambiamento delle regole di tale portata, il Sud Europa potrebbe essere meno disposto ad aumentare la spesa ed il livello del debito.
La difficoltà nel separare questi due fattori – quello tattico dal vero euroscetticismo – è stata dimostrata la scorsa estate nel momento culminante della crisi greca, quando il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble (che da tempo suggerisce che una zona euro più piccola nel nord, costruita intorno alla Germania, sarebbe preferibile al modello corrente), ha suggerito una “fuoriuscita temporanea” della Grecia dalla zona euro. Se fosse stata portata avanti, la sospensione avrebbe inferto un duro colpo all’integrità strutturale della zona euro, ma la minaccia fu sufficiente a terrorizzare i greci al punto da farli firmare un accordo particolarmente umiliante con il cancelliere tedesco Angela Merkel.
Così, la battaglia tra nord e sud continua a infuriare. Un’ultima vittoria italiana comporterebbe l’acquiescenza illimitata da parte della BCE, con le banche italiane ed i titoli sovrani tutti protetti dalle garanzie europee. Una clamorosa vittoria tedesca comporterebbe impegni di bilancio stringenti per tutte le nazioni europee, rigorosamente applicate da un’istituzione europea inflessibile disposta ad imporre dure punizioni a coloro che infrangono le regole. Il problema, tuttavia, è che nessuna delle due parti può mai vincere, ed i compromessi che di volta in volta vengono raggiunti – come in ultima analisi è probabile che lo siano in questi due casi – non si adattano ad entrambi le parti, portando a posizioni più estreme ad ogni successivo round del combattimento.
Pubblicato sul sito di Stratfor il 16 febbraio 2016. Traduzione di Voci dall’Estero rivista da Thomas Fazi.