di Mervyn King, ex governatore della Banca d’Inghilterra
Che rapporto c’è tra le monete e le nazioni? L’edificio principale del Fondo monetario internazionale, a Washington, ha una forma più o meno ellittica. Se percorrete il corridoio dell’ultimo piano, su un lato vedrete i simboli di ciascun paese membro. Sull’altro lato trovate degli scaffali che esibiscono le banconote usate da quei paesi. C’è un legame biunivoco, sorprendente, quasi mistico tra le nazioni e le loro monete. Le monete e le nazioni vanno mano nella mano.
L’Unione monetaria europea (UME) è il più ambizioso progetto che sia mai stato intrapreso nella storia monetaria. Non si è dimostrato un matrimonio facile. L’impresa deve navigare nello stretto spazio tra la Scilla degli ideali politici e il Cariddi dell’aritmetica economica. Quanto a lungo possa durare questo matrimonio lo sanno solo quelli che vi sono coinvolti. Chi è estraneo non è in grado di valutare molto facilmente lo stato della relazione.
Il problema fondamentale di un’unione monetaria tra paesi diversi è sorprendentemente semplice. Partendo dalle differenze nei tassi d’inflazione prevista – differenze che risultano da una lunga storia di effettive differenze nei tassi di inflazione – un singolo tasso d’interesse porta inesorabilmente a delle divergenze di competitività.
Alcuni paesi sono entrati nell’unione monetaria con un tasso di inflazione dei salari e dei prezzi più alto rispetto ad altri paesi. Il tasso d’interesse reale (cioè il tasso d’interesse nominale uguale per tutti meno il tasso d’inflazione prevista, diverso per ciascuno) era perciò più basso in questi paesi rispetto a quelli con un’inflazione più bassa. Questo tasso d’interesse reale più basso ha stimolato la domanda e spinto ulteriormente verso l’alto l’inflazione dei salari e dei prezzi.
Invece di convergere, tramite tassi d’interesse reale diversi, verso lo stesso livello d’inflazione, le divergenze di alcuni paesi sono state esacerbate dal tasso d’interesse nominale unico. La conseguente perdita di competitività dei paesi del sud dell’unione rispetto alla Germania è stata ampia, nonostante una certa rivalutazione del marco al momento dell’aggancio con l’euro. Questa situazione ha portato a deficit commerciali “da piena occupazione” (cioè ad una situazione in cui le importazioni superano le esportazioni in un momento in cui un certo paese è in condizioni di piena occupazione della forza lavoro) nei paesi che stavano perdendo competitività, e ha incrementato i surplus commerciali nei paesi che stavano guadagnando competitività. Questi surplus e questi deficit sono il nocciolo del problema che stiamo vedendo oggi. I deficit commerciali devono essere finanziati tramite indebitamento estero, mentre i surplus commerciali vengono investiti all’estero.
I paesi come la Germania sono diventati grossi creditori, con un surplus commerciale che nel 2015 si è avvicinato all’8 per cento del PIL, mentre i paesi della periferia meridionale sono diventati grossi debitori.
Il crollo della Grecia
La situazione greca esemplifica perfettamente il problema dell’indebitamento estero in un’unione monetaria. Il PIL in Grecia è crollato più di quanto crollò il PIL statunitense durante la Grande Depressione degli anni ‘30. Nonostante un’enorme contrazione fiscale abbia portato il deficit pubblico dal 12 per cento del 2010 a meno del 3 per cento nel 2014, il rapporto tra debito pubblico e PIL ha continuato a salire, e ora ha quasi raggiunto il 200 per cento del PIL.
Tutto questo debito è denominato in una moneta il cui valore è probabilmente destinato a salire rispetto ai redditi greci. Quando il debito è stato ristrutturato nel 2012, i creditori del settore privato sono stati salvati. Il grosso del debito greco, oggi, è in mano a istituzioni pubbliche come la Banca centrale europea, gli altri paesi dell’area euro e il Fondo monetario internazionale. L’austerità fiscale si è dimostrata autolesiva perché il tasso di cambio non aveva modo di scendere per favorire il commercio. Nella crisi del debito degli anni ‘80, i paesi dell’America Latina ripresero a crescere solo quando riuscirono a scrollarsi di dosso l’enorme peso del debito estero.
È evidente, e lo è da molto tempo, che l’unico modo che ha la Grecia per andare avanti è fare default su (o vedersi condonata) una grossa parte del suo debito, nonché di svalutare la sua moneta in modo che le esportazioni e la sostituzione di prodotti importati con prodotti greci possa compensare gli effetti depressivi della contrazione fiscale imposta fino a questo momento.
L’inevitabilità della ristrutturazione del debito greco implica che i contribuenti tedeschi e degli altri paesi dovranno assorbire una parte consistente delle perdite. È stato non poco deprimente vedere i paesi dell’eurozona mercanteggiare quanto denaro prestare alla Grecia per permettere alla Grecia di ripagare una parte del suo debito precedente. Un tale flusso circolare di pagamenti non fa praticamente nessuna differenza per l’economia greca. È particolarmente triste vedere che la Germania ha dimenticato la propria storia.
La Germania ha dimenticato la propria storia
Dopo la fine della prima guerra mondiale, il Trattato di Versailles impose pesanti riparazioni ai paesi sconfitti – in primis alla Germania, ma anche all’Austria, all’Ungheria, alla Bulgaria ed alla Turchia.
Una parte dei pagamenti richiesti fu effettuato in natura (per esempio tramite carichi di carbone o di bestiame), ma nel caso della Germania gran parte dei pagamenti doveva essere effettuata in oro o in moneta straniera.
La Commissione per la riparazione impose inizialmente alla Germania una riparazione pari a 132 miliardi di marchi d’oro. Irritati dalla reticenza della Germania nell’effettuare tali pagamenti, Francia e Belgio occuparono la regione della Ruhr nel gennaio 1923, con lo scopo di forzare i pagamenti. Ciò portò infine ad un accordo tra gli Alleati – il cosiddetto piano Dawes del 1924 – che ristrutturò e ridusse il peso delle riparazioni. Ma anche i pagamenti che seguirono furono effettuati tramite ulteriore indebitamento verso l’estero – una situazione insostenibile. Le riparazioni furono in larga parte cancellate alla conferenza di Losanna del 1932. Alla fine la Germania pagò, in totale, meno di 21 miliardi di marchi, gran parte dei quali furono finanziati tramite debito estero, sul quale, successivamente, la Germania fece default.
Una delle dichiarazioni più convincenti sulla disperata situazione della Germania fu fatta dall’allora governatore della sua banca centrale, Hjalmar Schacht. Nel 1934, scrivendo nella più rispettabile e americana delle pubblicazioni, cioè su Foreign Affairs, Schacht spiegò che «un paese debitore può pagare il suo debito solo nel momento in cui acquisisce un surplus sulla bilancia commerciale, e… l’attacco contro le esportazioni tedesche tramite dazi, boicottaggi, ecc. conduce solo al risultato opposto». Schacht, che non era solito mettere in dubbio le proprie opinioni, in questo aveva indubbiamente ragione.
Se i paesi della periferia dell’eurozona intraprendono il loro lungo e lento viaggio per tornare al pieno impiego, il loro deficit verso l’estero ricomincerà ad aumentare. Già non è chiaro come questi paesi saranno in grado di ripagare i debiti esistenti, figuriamoci quelli futuri. Gli afflussi di capitale privato hanno aiutato l’eurozona a sopravvivere dopo il 2012, ma non potranno continuare per sempre.
Gran parte dell’eurozona si è convinta del fatto che i paesi creditori continueranno ad essere rimborsati all’infinito. Quando un paese debitore ha difficoltà a effettuare i pagamenti, la tattica è quella di “prolungare i termini e fingere”: si spingono in là i tempi di maturazione e si valutano i debiti al loro valore nominale. Questa è la tipica tattica delle banche che non vogliono affrontare perdite sui loro crediti in sofferenza, ma si è insinuata anche nei rapporti di debito tra paesi. Parafrasando Coleridge (nella Ballata del vecchio marinaio), «Debitori, debitori ovunque, e nessuna traccia di perdite».
Il germe della divisione in Europa?
La cancellazione del debito è la soluzione più naturale in un’unione politica. Ma con storie e tradizioni politiche molto diverse, è altamente improbabile che si arrivi ad un’unione politica rapidamente e con il sostegno dell’opinione pubblica. Detto senza peli sulla lingua, l’unione monetaria ha creato un conflitto tra un’élite centralista da una parte e le forze democratiche a livello nazionale dall’altra. Ciò è estremamente pericoloso. Nel 2015 i presidenti di Commissione europea, Consiglio europeo, Eurogruppo, Banca centrale europea e Parlamento Europeo (l’esistenza di cinque presidenti diversi è la testimonianza del livello di burocrazia delle élite) hanno pubblicato un resoconto in favore di un’unione fiscale nella quale «le decisioni dovranno essere prese in maniera sempre più collettiva», in cui si sosteneva implicitamente l’idea di un unico ministero delle finanze per l’intera eurozona. Questo tentativo strisciante di trasferire ulteriore sovranità verso un centro non eletto è profondamente sbagliato ed è ovviamente destinato a scontrarsi con la resistenza dell’opinione pubblica.
Nel cercare di perseguire pace e tranquillità, le élite europee, gli Stati Uniti e le organizzazioni internazionali come l’FMI, hanno portato avanti la soluzione dei “salvataggi” e proposto l’unione fiscale come soluzione alla crisi, gettando così il seme di ulteriori divisioni in Europa, e creando le basi per un sostegno popolare a quei partiti e candidati politici che prima erano considerati estremisti.
Ciò porterà non solo a una crisi economica, ma anche a una crisi politica. Nel 2012, quando le preoccupazioni per i debiti sovrani di molti paesi della periferia erano alle stelle, si sarebbe potuto dividere l’eurozona in due parti, con alcuni paesi membri raggruppati temporaneamente in una sezione monetaria a sé, con l’aspettativa che dopo un certo periodo – magari 10 o 15 anni – di reale convergenza, questi paesi sarebbero potuti rientrare nell’unione monetaria.
Adesso potrebbe essere troppo tardi anche per una tale soluzione. Le divergenze sottostanti tra i vari paesi, ma anche i costi politici della sconfitta, sono diventati troppo grandi. Questo è un peccato sia per i paesi coinvolti – perché a volte una promozione prematura può essere una disgrazia e un’espulsione può essere l’opportunità per un nuovo inizio – ma anche per il mondo intero, perché oggi l’eurozona sta pesando sulla domanda e sulla crescita globali.
La Germania ha di fronte a sé una scelta terribile. Deve offrire un sostegno ai fratelli minori dell’eurozona, facendolo pagare ai propri contribuenti, oppure deve chiedere la fine del progetto dell’unione monetaria? Il tentativo di trovare una soluzione di mezzo tra queste due strategie non sta funzionando. Un giorno gli elettori tedeschi potrebbero ribellarsi contro le perdite che gli vengono imposte a causa della necessità di sostenere gli altri paesi, e senza dubbio la via più semplice per dividere l’eurozona sarebbe quella di un’uscita della Germania.
Ma la causa più probabile di una rottura dell’eurozona è che gli elettori dei paesi del sud si stanchino definitivamente di questa devastante e disperata disoccupazione di massa e dell’emigrazione dei giovani di maggiore talento. La controargomentazione – che cioè l’uscita di un paese dall’eurozona potrebbe portare il caos, la caduta degli standard di vita ed una continua incertezza sulla sopravvivenza dell’unione monetaria – è reale.
Ma se l’alternativa è una devastante austerità, il proseguimento della disoccupazione di massa e un debito che pesa all’infinito, allora l’uscita dall’eurozona potrebbe essere davvero l’unica strada per rimettersi sulla carreggiata della crescita economica e della piena occupazione. I benefici a lungo termine potrebbero in altre parole superare i costi a breve termine. Chi è fuori da tutto questo non può prendere la decisione per gli altri, ma può incoraggiare la Germania ed il resto dell’eurozona ad affrontarla.
Se i paesi membri dell’eurozona decidono di continuare a stare legati assieme, il peso del debito estero potrebbe diventare troppo grande per consentire la stabilità politica. Come scrisse John Maynard Keynes nel 1922: «È assurdo supporre che esista un qualsiasi mezzo tramite il quale una nazione moderna può esigere da un’altra un tributo costante per molti anni di seguito».
Sarebbe quindi desiderabile creare un meccanismo tramite il quale i debiti sovrani verso l’estero si possano ristrutturare entro un quadro di sostegno e di neutralità da parte dell’FMI, evitando in questo modo, almeno in parte, l’animosità e le umiliazioni che hanno accompagnato gli accordi del 2015 sul debito tra la Grecia ed il resto dell’eurozona.
È fin troppo probabile che un meccanismo di ristrutturazione del debito sovrano si renderà necessario nel prossimo futuro. Senza un tale meccanismo, occorrerà un convegno internazionale ad hoc sul debito per regolare il problema del debito pubblico verso l’estero che si è accumulato.
Ad ogni modo, il condono del debito, per quanto sia inevitabile, non è una risposta sufficiente a tutti i problemi. Nel breve termine, potrebbe avere perfino l’effetto perverso di rallentare la crescita. I debitori hanno già visto allungare i termini per la restituzione del debito, il che ha ridotto la pressione sulle loro finanze pubbliche. Ci sarebbe poca differenza, per loro, se si decidesse ora di condonare esplicitamente una parte del debito. I creditori, al contrario, continuano probabilmente a nutrire l’illusione che saranno ripagati in pieno, e qualora la realtà gli si palesasse davanti, potrebbero reagire riducendo le proprie spese.
La sfida che sta alla base di tutto questo è la creazione di un nuovo equilibrio nel quale non si debba più creare debito e credito nella misura in cui è stato fatto finora.
Pubblicato sul Telegraph il 28 febbraio. Traduzione di Voci dall’Estero, rivista da Thomas Fazi.