Le connotazioni da anni Settanta che molti vedono nella vicenda di Panebianco contestato dagli studenti a Bologna sono solo apparenti e molto lontane dai cori di “scemo, scemo” con cui ai tempi degli indiani metropolitani si zittiva e si screditava l’antagonista. Innanzitutto è curioso che ci si scandalizzi tanto per la chiassosa interruzione di una lezione universitaria in un’epoca in cui lo sbraitare e il parlare sopra l’altro è la regola dei dibattiti televisivi e comportamento abituale di molti politici. Se in Parlamento ci si insulta e ci si scambia gesti osceni, irrompere con uno striscione in un’aula universitaria è quasi un gesto cavalleresco. Stupisce poi sentir chiamare violenza l’interruzione di una lezione. Il mio professore di filosofia ci raccomandava di interromperlo ogni volta che lo avessimo voluto e chi lo faceva con buoni argomenti guadagnava addirittura punti. Perché invece di fuggire come se fosse minacciato di morte Panebianco non ha ingaggiato una discussione con i suoi contestatori? Perché non li è andati a stanare nelle contraddizioni delle loro teorie? Dove sono finite la persuasione e la retorica nel mestiere del professore? Panebianco è un famoso editorialista e ha la possibilità di far conoscere il suo pensiero con i potenti strumenti della stampa oltre che con le sue lezioni universitarie. Gli studenti che lo hanno contestato non possono certo misurarsi ad armi pari con lui nell’espressione delle loro idee. È quindi comprensibile che abbiano scelto il pur discutibile strumento del chiasso per farsi sentire. Ma in tutta questa storia è soprattutto l’università che subisce il maggior danno rinunciando alla sua più autentica natura. Le trasformazioni della modernità hanno ormai fatto dello studio universitario una specie di prolungamento della scuola superiore. L’università non è più l’accademia di un tempo, luogo di dibattito, di riflessione e non solo di insegnamento. È diventata una scuola di specializzazione, unicamente dedicata allo studio della materia specifica, dove la conoscenza si misura con parametri certo più rigorosi d’un tempo ma limitati a determinate competenze. Ve n’erano altre nello studio accademico che nessun parametro poteva rivelare se non il risultato finale della coesione e della vitalità di una società. Due competenze che noi abbiamo sicuramente perduto. La trasformazione dell’università nelle sue moderne forme utilitaristiche è una necessità in un’epoca che rincorre l’efficienza e il risultato, in una società dove tutto è subordinato al profitto e al ritorno economico. È innegabile che l’università per soddisfare questi bisogni non possa essere aperta a tutti e questa svolta efficientista ha anche portato benefici. Ma con la perdita dell’accademia aperta a tutti dove anche lavoratori o pensionati potevano iscriversi ai corsi e contribuire a quel forse improduttivo ma certamente nutriente ambiente culturale, la nostra società ha perso una delle fonti della sua creatività senza ricrearla altrove. Quello che oggi gli angloamericani chiamano “to think out of the box” e che perseguono con appositi e patetici corsi di pensiero originale per ovviare all’appiattimento mentale suscitato dal conformismo di pensiero, noi lo producevamo spontaneamente nel brulicare disordinato delle nostre università, pasticcione, sprecone ma vivaci laboratori di idee. Il successo dei ricercatori italiani nel mondo pare sia dovuto anche a questo, alla loro formazione non ortodossa, a un sapere non pedissequamente concentrato sulla materia specifica ma aperto alla divagazione, all’universalità, che è appunto il carattere proprio dell’università. Per questo è sbagliato criminalizzare un movimento di idee dentro un’università, anche se a protestare non sono solo gli studenti. L’irruzione di Bologna è un sintomo del bisogno di dibattito e di riflessione che certi temi suscitano nella nostra società, a prescindere dalle posizioni di ognuno. Ascoltare la protesta, accettare la discussione, è anche un’occasione in più che ci si offre di convincere e di arrivare alla fine a scelte condivise. A proposito, io condivido appieno le teorie di Panebianco e sostengo la necessità di un accorto coinvolgimento italiano nel conflitto libico, per tutelare i nostri interessi immediati ma anche per impedire che altre potenze ci obblighino al loro gioco e scatenino alle nostre porte situazioni di crisi che ci investirebbero senza che noi possiamo più controllarle.
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