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    Home » Non categorizzato » La teoria generale di Keynes compie ottant’anni

    La teoria generale di Keynes compie ottant’anni

    [di Robert Skidelsky] Dopo la crisi del 2008, le misure keynesiane hanno arginato la caduta dell’economia globale. Ma non appena è iniziata la ripresa, i governi si sono riconvertiti all’ortodossia pre-keynesiana, tagliando le spese per ridurre i deficit, rallentando la ripresa economica nel processo.

    Redazione</a> <a class="social twitter" href="https://twitter.com/eunewsit" target="_blank">eunewsit</a> di Redazione eunewsit
    26 Febbraio 2016
    in Non categorizzato

    di Robert Skidelsky

    Nel 1935, John Maynard Keynes scrisse a George Bernard Shaw: «Credo che scriverò un libro di teoria economica che rivoluzionerà in gran parte – non credo immediatamente, ma nel corso dei prossimi dieci anni – il modo in cui il mondo guarda ai problemi economici». E, in effetti, l’opera magna di Keynes, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata nel febbraio del 1936, ha trasformato la teoria e la politica economica. Ma la teoria keynesiana regge ancora dopo ottanta anni?

    Due sono le componenti dell’eredità keynesiana che sembrano essere consolidate. In primo luogo, Keynes ha inventato la macroeconomia, la teoria della produzione nel suo complesso. Ha chiamato la sua teoria “generale” per distinguerla dalla teoria pre-keynesiana, che assume un livello unico di reddito, la piena occupazione.

    Dimostrando come l’economia potrebbe rimanere bloccata in un equilibrio di “sottoccupazione”, Keynes ha sfidato l’idea centrale della teoria economica ortodossa del suo tempo: che i mercati, per tutti i beni, compreso il lavoro, vengono simultaneamente portati in equilibrio dai prezzi. E la sua sfida implicava una nuova dimensione per l’elaborazione delle politiche economiche: i governi possono avere bisogno di fare deficit per mantenere la piena occupazione.

    Le equazioni aggregate che sono alla base della Teoria generale di Keynes popolano ancora i libri di testo di economia e caratterizzano la politica macroeconomica. Anche coloro che insistono sul fatto che le economie di mercato tendono alla piena occupazione sono costretti a sostenere la loro posizione nel quadro di riferimento creato da Keynes. I banchieri centrali regolano i tassi di interesse per garantire un equilibrio tra la domanda e l’offerta complessiva, in quanto, grazie a Keynes, è noto che l’equilibrio potrebbe non realizzarsi automaticamente.

    La seconda maggiore eredità di Keynes è la nozione che i governi possono e dovrebbero evitare le depressioni. La diffusa accettazione di questo punto di vista può essere rinvenuta nella differenza tra la forte risposta della politica al crollo del 2008-2009 e la reazione passiva alla Grande Depressione del 1929-1932. Il premio Nobel Robert Lucas, un avversario di Keynes, ha così ammesso nel 2008: «Credo che chiunque in trincea sia keynesiano».

    Detto questo, la teoria dell’equilibrio di “sottoccupazione” di Keynes [nella sua formulazione autentica, NdR] non è più accettata dalla maggior parte degli economisti e dei politici. La crisi finanziaria globale del 2008 lo conferma. Il crollo ha screditato la versione più estrema di un sistema economico capace di raggiungere da solo l’equilibrio, ma non ha riportato in auge il prestigio dell’approccio keynesiano. A dire il vero, le misure keynesiane hanno arginato la caduta dell’economia globale. Ma hanno anche inchiodato i governi con grandi deficit, che in breve tempo sono stati visti come un ostacolo alla ripresa, il contrario di quanto che ci ha insegnato Keynes. Con una disoccupazione ancora alta, i governi si sono riconvertiti a una ortodossia pre-keynesiana, tagliando le spese per ridurre i deficit, rallentando la ripresa economica nel processo.

    Tre sono i motivi principali di questa regressione. In primo luogo, la credenza che in una economia capitalistica i prezzi riequilibrino il mercato del lavoro non è mai stata del tutto messa in discussione. Ed è così che la maggior parte degli economisti ha ritenuto il persistere della disoccupazione come una circostanza straordinaria che si verifica solo quando le cose vanno terribilmente male, e che certamente non rappresenta il normale stato delle economie di mercato. Il rifiuto della nozione di Keynes di incertezza radicale è al centro di questo ritorno al pensiero pre-keynesiano.

    In secondo luogo, le politiche keynesiane di “gestione della domanda” del dopoguerra, che hanno il merito di aver prodotto il lungo boom post-1945, hanno creato problemi inflazionistici alla fine degli anni sessanta. Messi all’erta su un peggioramento del trade-off tra inflazione e disoccupazione, i politici keynesiani hanno cercato di sostenere il boom attraverso la politica dei redditi – calmierando i costi salariali attraverso la conclusione di accordi con i sindacati su base nazionale.

    La politica dei redditi è stata testata in molti paesi dagli anni sessanta fino alla fine degli anni settanta. Nella migliore delle ipotesi, ci sono stati successi temporanei, ma queste politiche hanno comunque fallito. Milton Friedman ha fornito una motivazione che ha tirato una frecciata di crescente disillusione sul controllo dei salari e dei prezzi, e che ha affermato la visione pre-keynesiana dell funzionamento delle economie di mercato.

    L’inflazione, sostenne Milton Friedman, era il risultato dei tentativi operati dai governi keynesiani di forzare la disoccupazione al di sotto del tasso “naturale”. La chiave per riconquistare la stabilità dei prezzi era quella di non perseguire l’obiettivo della piena occupazione, sterilizzare i sindacati e deregolamentare il sistema finanziario.

    E così la vecchia ortodossia è rinata. L’obiettivo del pieno impiego è stato sostituito dall’obiettivo inflazionistico, mentre si è lasciato che la disoccupazione trovasse il suo tasso “naturale”, qualunque esso fosse. Ed è stato con questo equipaggiamento difettoso che i politici hanno navigato a tutto vapore verso gli iceberg del 2008.

    L’ultima ragione per cui il keynesismo è caduto in disgrazia si deve a una torsione ideologica a destra, che ha avuto inizio con il primo ministro britannico Margaret Thatcher e il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Questo spostamento è dovuto meno al rifiuto della politica keynesiana che all’ostilità verso l’espansione dello Stato che è emersa dopo la seconda guerra mondiale. La politica fiscale keynesiana è stata messa sotto un fuoco incrociato, con molti a destra che la condannavano come manifestazione di un “eccessivo” intervento del governo nell’economia.

    Due riflessioni finali suggeriscono un nuovo, anche se più modesto, ruolo per l’economia keynesiana. Uno shock ancora più grande per l’ortodossia pre-2008 rispetto allo stesso crollo fu la rivelazione del potere corrotto del sistema finanziario e la misura in cui i governi successivi al crollo hanno consentito che le loro politiche fossero scritte dai banchieri. Il controllo dei mercati finanziari nell’interesse della piena occupazione e della giustizia sociale si iscrive esattamente nella tradizione keynesiana.

    In secondo luogo, per le nuove generazioni di studenti, la rilevanza di Keynes potrebbe risiedere meno nei suoi rimedi specifici per la disoccupazione che nella sua critica della professione di economista per ciò che riguarda l’uso di modelli sulla base di ipotesi irreali.

    Gli studenti di economia desiderosi di fuggire da un mondo di scheletri di agenti ottimizzanti verso uno fatto di esseri umani a tutto tondo, presenti nelle loro storie, culture e istituzioni, troveranno una naturale affinità con l’economia keynesiana. È per questo che mi aspetto che Keynes sia una presenza viva da oggi fino ai prossimi vent’anni, in occasione del centenario della Teoria generale, e ben oltre.

    Pubblicato su Project Syndicate il 23 febbraio 2016. Traduzione di Keynes blog rivista da Thomas Fazi.  

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