di Servaas Storm
Versione lievemente abbreviata dalla redazione di un articolo pubblicato originariamente sul sito di INET. Questi temi sono al centro del libro di prossima uscita di Thomas Fazi (Eunews/Oneuro) e Guido Iodice (coautore di Keynes blog) intitolato “La battaglia contro l’Europa”.
In risposta alla mia analisi critica della moderazione salariale tedesca e della crisi dell’euro zona, Heiner Flassbeck e Costas Lapavitsas hanno chiarito la loro versione su ciò che grosso modo si intende per modello da manuale neoclassico di una unione monetaria. Il loro punto principale è che non ci sarebbero stati grandi squilibri delle partite correnti all’interno della zona euro, e di conseguenza nessuna crisi del debito sovrano nei paesi in deficit, se tutti gli Stati membri avessero mantenuto la crescita dei salari nominali pari alla crescita della produttività del lavoro più il 2 per cento (l’obiettivo inflazionistico dell’eurozona).
Il professor Wren-Lewis ha sostenuto lo stesso punto. Il delicato equilibrio delle partite correnti con l’estero è stato deliberatamente sconvolto dalla moderazione dei salari nominali praticata dalla Germania mercantilista, che ha portato la crescita del surplus commerciale tedesco ad essere il rovescio della medaglia della crescita del deficit commerciale nel Sud Europa. È piuttosto ironico, a mio parere, che una logica simile sia adottata anche da osservatori mainstream come Sinn o persino dallo stesso signor Schäuble, con questa differenza: Sinn e Schäuble sostengono che gli squilibri delle partite correnti sono stati causati dal fatto che i paesi in crisi non hanno seguito l’esempio di successo della Germania nel tagliare i costi unitari del lavoro. Mi spiego meglio: il problema per me non è quale delle due parti di questo dibattito – da un lato chi accusa la Germania di aver “affamato” i propri vicini tagliando di salari, dall’altro chi loda la Germania per essere super-competitiva sul fronte dei costi – sia nel giusto. Entrambe le parti sono in errore nel pensare che il semplice modello da libro di testo possa essere utilizzato in maniera credibile per sostenere che gli squilibri dell’eurozona sono stati causati da perdite (esogene) o da guadagni di competitività sui costi unitari del lavoro. È un mito, o, come forse avrebbe sostenuto Marx, un feticcio: un totem reificato che risiede nel modo di comprendere ciò che sta realmente accadendo. È giunto il momento di abbandonare questo mito per i seguenti cinque motivi.
Dove sono le grandi banche?
In primo luogo, il modello presentato da Flassbeck e Lapavitsas è distintamente riconducibile ad una visione pre-Hilferding, poiché nella loro ripresa, il capitalismo dell’eurozona è un capitalismo che deve ancora entrare nella fase di “monopolio della finanza.” Che ruolo hanno le grandi banche, i flussi finanziari lordi tra paesi e l’azione della BCE nell’analisi di Flassbeck e Lapavitsas? La risposta è: nessuno. Essi si concentrano esclusivamente sulle importazioni e sulle esportazioni di beni e servizi, ed il loro silenzio sulle banche, i flussi finanziari e i tassi di interesse riflette una visione in cui il “settore finanziario” della zona euro si adegua passivamente a tutto ciò che accade nell’economia reale. La loro visione emerge più chiaramente quando confrontano i paesi della zona euro (a ognuno dei quali manca una propria valuta nazionale) con un paese dotato di propria moneta, in modo da sostenere che in quest’ultimo caso, i surplus commerciali (o i deficit) possono essere solo temporanei, perché dopo un po’ un apprezzamento (deprezzamento) automatico del tasso di cambio “di equilibrio” porterebbe giù il surplus (deficit).
Nel mondo reale post-Hilferding, tuttavia, non vi è alcun simile automatismo da libro di testo, perché l’impatto dei flussi commerciali sul tasso di cambio è – generalmente – travolto dagli effetti dei flussi finanziari lordi transfrontalieri, che sono per lo più estranei al commercio. Questo vale anche per la zona euro: i miliardi di euro prestati dalle banche tedesche alle imprese (finanziarie) in Irlanda e in Spagna, e dalle banche francesi alle imprese (finanziarie) in Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna non erano legati al finanziamento del commercio. E sono proprio questi flussi finanziari lordi dal nucleo della zona euro verso la periferia, per lo più provenienti da potenti banche “troppo grandi per fallire”, che hanno svolto un ruolo centrale nel determinare gli squilibri e destabilizzare la zona euro, ruolo riconosciuto dal professor Bofinger e dalla cosiddetta “consensus narrative” sulla crisi dell’euro, ma ignorato da Flassbeck e Lapavitsas, la cui “diagnosi” della crisi dell’eurozona assomiglia così ad Amleto ma senza il principe di Danimarca.
E la concorrenza oligopolistica?
In secondo luogo, Flassbeck e Lapavitsas si avvalgono di una nozione piuttosto debole di concorrenza tra imprese, che, secondo loro, è incentrata sulla riduzione dei costi unitari del lavoro mediante guadagni di produttività. Essi scrivono che «le condizioni dell’offerta sono praticamente date per tutte le [imprese] poiché le forze di mercato tendono a pareggiare i prezzi dei beni intermedi e il costo del capitale» e quindi le imprese più innovative (quelle che riescono a tagliare i costi unitari del lavoro) tendono a fare più profitti e a crescere, mentre quelle meno innovative perdono quote di mercato e, infine, muoiono.
Questo è notevole. Per far funzionare il loro ragionamento, essi presumono che la concorrenza (globale) garantisca una perequazione dei prezzi tra paesi, qualcosa che persino la maggior parte degli economisti neoclassici mette in dubbio su base empirica e che teoricamente richiederebbe di assumere mercati perfettamente concorrenziali. Da notare che Wren-Lewis ricade esattamente nella stessa ipotesi. Questo implica che secondo Flassbeck, Lapavitsas e Wren-Lewis, le imprese non hanno il potere di determinazione dei prezzi, condividono le stesse tecnologie di produzione e producono più o meno beni simili. Tutto questo non è realistico: nel mondo reale, imprese oligopolistiche che fissano i prezzi operando in massicce catene globali di produzione sono impegnate nella differenziazione del prodotto, nella creazione di marchi e producono beni che sono molto diversi in termini di complessità, qualità e tecnologia incorporata.
Ciò che Flassbeck e Lapavitsas non riescono a vedere sono le condizioni materiali della zona euro: le imprese tedesche, che producono prevalentemente beni high-tech, ad alto valore aggiunto, su fasce alte di prezzo e ad alta complessità non sono in concorrenza diretta con le imprese spagnole, portoghesi, greche o persino con la maggior parte delle imprese italiane, che sono specializzate in beni a più bassa tecnologia, più basso valore aggiunto, con bassi prezzi e minore complessità. Le imprese tedesche fissano i loro prezzi e dominano le loro nicchie di mercato, mentre le imprese greche e portoghesi competono invece sui costi con i produttori a basso costo dell’Asia (ma non solo sui costi del lavoro) e finiscono con l’essere buttate fuori dai loro mercati dai loro concorrenti cinesi. Il risultato è che la concorrenza nei mercati oligopolistici del mondo reale non può essere ridotta ad una semplice concorrenza sui costi – così come i libri di testo vorrebbero farci credere. E se proprio si vuole insistere nel mettere a fuoco i costi unitari del lavoro, allora non c’è ragione per cui non si dovrebbe guardare anche ai costi unitari del capitale (o ai margini di profitto); le imprese oligopolistiche potrebbero pure competere sui margini di profitto.
L’evidenza empirica
In terzo luogo, Flassbeck e Lapavitsas non offrono alcuna evidenza empirica a sostegno delle loro affermazioni. Vorrei evidenziare quattro “fatti” empirici che vanno contro la loro argomentazione principale. In primo luogo, l’elasticità dell’export/import ai fattori di costo tende ad essere molto più piccola (in termini di dimensioni assolute) della corrispondente elasticità di prezzo, a causa del fatto che (a) i costi salariali rappresentano solo circa il 22% dei costi totali di produzione; e (b) le imprese quando fissano i prezzi scaricano su questi ultimi più o meno solo la metà dei costi salariali più alti. Ciò significa che ad una elevata elasticità di prezzo all’export di -1,2 corrisponde una molto più piccola elasticità al costo unitario del lavoro di (circa) -0,13. Quindi, per spingere verso l’alto le esportazioni (reali) di uno scarso 2% i salari nominali dovrebbero diminuire di ben il 15% (supponendo che la produttività rimanga invariata). È come dire che la coda scodinzola il cane.
In secondo luogo, vi è una chiara evidenza che in paesi come la Spagna il deficit commerciale è aumentato a causa di una più veloce crescita delle importazioni, mentre la crescita delle esportazioni è rimasta costante. Se è così, la domanda è: perché un (più alto) costo relativo unitario del lavoro dovrebbe avere un impatto unilaterale sulle importazioni e non sulle esportazioni?
In terzo luogo, se si vuole individuare l’impatto dei costi unitari del lavoro sul commercio, si dovrebbero isolare gli altri fattori che influenzano il commercio ed in particolar modo l’impatto del reddito e della crescita della domanda. Ma così facendo si dimostra che la crescita del reddito mondiale già spiega completamente la crescita delle esportazioni, mentre la crescita del reddito nazionale spiega completamente la crescita delle importazioni per la maggior parte delle economie in questione. In altre parole, l’effetto di reddito risulta predominante rispetto a qualunque impatto di competitività di costo, soprattutto nel lungo periodo.
Infine, come in ogni buona narrazione, ecco per ultimo il risultato più importante: i costi unitari del lavoro nei paesi in crisi hanno iniziato ad aumentare solo a seguito di un precedente peggioramento nei conti commerciali. Ciò indica che l’aumento dei costi unitari del lavoro è la conseguenza, non la causa, dei crescenti squilibri. È difficile giungere ad una conclusione diversa. L’evidenza empirica ci parla di volumi e smentisce il mito del costo unitario del lavoro.
Qual è il ruolo dei redditi e della domanda aggregata?
In quarto luogo, l’aspetto saliente dell’analisi degli squilibri dell’eurozona di Flassbeck e Lapavitsas è che essa non prevede alcun ruolo per (o riferimento a) la “domanda aggregata” o per il “reddito”. Il loro è un esempio di ingiustificato riduzionismo in cui le esportazioni, diciamo, della Germania (che costituiscono le importazioni, diciamo, della Spagna) dipendono esclusivamente dai costi relativi unitari del lavoro della Germania nei confronti della Spagna.
Questo non può essere vero. Chiaramente, le esportazioni della Germania verso la Spagna dipendono anche dalla domanda aggregata spagnola, se non altro perché una parte considerevole delle importazioni spagnole è costituita da beni strumentali (macchine e attrezzature) e prodotti intermedi (materiali high-tech e componenti) e, pertanto, è per sua natura complementare. Flassbeck e Lapavitsas, ma anche Wren-Lewis, si concentrano tutti sui costi relativi unitari del lavoro, ma così facendo ignorano una parte importante della dinamica (se non tutta). La loro tesi è che se i costi unitari del lavoro nella zona euro sono costanti, la bilancia commerciale non cambierà. Ma questo si verifica solo in condizioni molto particolari, cioè quando la crescita delle esportazioni indotta dalla crescita del reddito mondiale è uguale alla crescita delle importazioni di quel paese indotta dalla crescita del reddito nazionale. Non c’è nessuna ragione per cui queste circostanze particolari si dovrebbero verificare e quindi, in condizioni normali e realistiche, ci si deve aspettare che i saldi commerciali migliorino o peggiorino a seconda che la crescita delle esportazioni indotta dalla crescita del reddito mondiale superi la crescita delle importazioni indotta dalla crescita della domanda interna o meno.
Non sarà utile avere salari più alti ed una più alta inflazione in Germania
Infine, Flassbeck e Lapavitsas, proprio come Wren-Lewis, parlano della necessità di un aumento dei salari tedeschi, nella convinzione errata che ciò abbasserà la competitività di costo della Germania, ridurrà il suo surplus commerciale e quindi riequilibrerà l’eurozona nel complesso. Tuttavia, le esportazioni e le importazioni tedesche non sono molto sensibili alle variazioni del costo del lavoro, e quindi ci sarà solo una quantità limitata di sostituzione dai prodotti tedeschi verso i beni esteri. Ripeto, per amor di chiarezza, che sono fortemente a favore di una maggiore crescita dei salari nominali in Germania. Sarà sicuramente di aiuto per la Germania. Ma non aiuterà la crisi dei paesi della zona euro.
Una maggiore crescita dei salari tedeschi e una maggiore domanda tedesca non costituiscono di per sé una strategia di recupero per la zona euro, come dimostrano gli effetti di ricaduta (diretti e indiretti) del valore aggiunto della crescita tedesca sul valore aggiunto di altri paesi europei, che si verificano attraverso gli effetti moltiplicativi intersettoriali diretti e indiretti che operano nelle catene di produzione globali. In particolare, se la crescita della Germania si risolve in più elevati produzione e valore aggiunto negli Stati Uniti, e se le imprese negli Stati Uniti acquisiscono prodotti intermedi e componenti dalla Corea del Sud, e se a sua volta le imprese della Corea del Sud utilizzano input prodotti in Italia o Spagna, l’impatto indiretto della crescita tedesca sul valore aggiunto in Italia o Spagna è compreso negli effetti totali di ricaduta sul valore aggiunto.
[Da una stima delle ricadute potenziali della crescita tedesca sul valore aggiunto degli altri paesi, però, si evince che] il grosso delle ricadute del commercio e del valore aggiunto della crescita tedesca si verifica al di fuori ella zona euro. Tanto per chiarire: la ricaduta combinata derivante dalla crescita tedesca sul valore aggiunto nella Repubblica Ceca, della Slovacchia e della Slovenia (con una popolazione complessiva di 17,9 persone) è maggiore in termini assoluti della corrispondente ricaduta combinata sul valore aggiunto in Grecia, Portogallo e la Spagna (con una popolazione complessiva di 68,4 milioni di persone). La crescita tedesca aumenta in modo significativo la crescita del PIL nei Paesi Bassi, in Belgio e in Austria, così come in Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia, ma non vi è quasi alcuna ricaduta di crescita evidente in Grecia, Italia, Portogallo e Spagna. La reflazione della Germania attraverso un aumento dei salari tedeschi, della sua domanda interna e della sua crescita non sarebbe nemmeno lontanamente sufficiente per giungere ad una inversione di tendenza nel Sud Europa. Si tratta di un pio desiderio, che ignora le asimmetrie fondamentali nella produzione, nella tecnologia e nella specializzazione che insieme costituiscono le condizioni materiali del sistema dell’eurozona.
I veri problemi (ripetiamoli)
Tutto questo parlare di competitività del costo del lavoro distoglie l’attenzione dal vero problema della zona euro: la moneta comune e l’unificazione monetaria hanno portato ad un processo centrifugo di divergenza strutturale in termini di strutture di produzione, occupazione e commercio. Questo processo centrifugo è stato alimentato e rafforzato non semplicemente dall’aumento dei flussi di capitale transfrontalieri a seguito dell’introduzione dell’euro, ma anche dalla stessa moneta unica, nonché dalla politica centralizzata con tassi di interesse uniformi della BCE, che fino al 2008 era forse appropriata per la Germania stagnante e con bassa inflazione, ma era innegabilmente fuori obiettivo rispetto ai livelli di inflazione in Europa meridionale. Il credito a buon mercato nel sud ha creato bolle speculative insostenibili e facilitato un accumulo di debito che alimentava una crescita più elevata, con minore disoccupazione e salari più alti, ma (totalmente in linea con i tassi di rendimento) tutti concentrati nei settori non dinamici e spesso non esposti delle loro economie. La moderazione salariale della Germania importava molto, non per il suo presunto impatto sulla competitività da costo, ma per il suo impatto negativo sulla crescita tedesca (per la parte dovuta ai salari) e sull’inflazione, che a loro volta hanno indotto innanzitutto la BCE ad abbassare il tasso di interesse.
La conseguente crisi della zona euro è una profonda crisi di insufficiente domanda aggregata nel breve periodo e di ingestibile divergenza strutturale tra i principali Stati membri nel lungo periodo. Quindi, le vere domande sono: come realizzare una convergenza strutturale tra i paesi membri di una moneta unica (finora priva di qualsiasi meccanismo significativo di politica fiscale sovranazionale), in termini di strutture produttive, livelli di produttività e, in definitiva, di redditi e di condizioni di vita a lungo termine? Qual è il tasso di interesse appropriato per il “centro” e per la “periferia”? E come si può far sì che le banche, il settore finanziario ed i flussi di capitale contribuiscano ad un processo di convergenza (invece che di divergenza)? Non ci sono risposte semplici ed è facile cedere al puro “pessimismo della ragione”. Ma se gli economisti progressisti non manifesteranno un “ottimismo della volontà” e non inizieranno seriamente ad affrontare i problemi reali, piuttosto che rimasticare miti sulla competitività da costo unitario del lavoro, il futuro della zona euro si prospetta decisamente preoccupante.
Traduzione di Keynes blog, rivista da Thomas Fazi.
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