Bruxelles – Quando si evoca la fine di Schengen il primo pensiero è rivolto ai potenziali inconvenienti per i viaggiatori che si muovono da un Paese all’altro dell’Unione Europea. Ma i danni potrebbero andare ben oltre e le conseguenze potrebbero essere ben più gravi soprattutto per l’economia. Secondo uno studio condotto da Prognos Ag per conto del think tank Bertelsmann Stiftung nel periodo tra il 2016 e il 2025 il ripristino delle frontiere potrebbe causare un aumento del prezzo delle importazioni del 3%. Questo causerebbe perdite per il Pil pari a 235 miliardi di euro per la Germania, 244 miliardi per la Francia e 148,5 miliardi per l’Italia. Per l’Europa nel suo complesso il ‘danno’ sarebbe di addirittura 1.430 miliardi. E le conseguenze si risentirebbero anche fuori dal continente: per Stati Uniti e Cina le perdite cumulative sarebbero pari a 280 miliardi. “Se le barriere interne all’Europa risalissero, ciò provocherebbe ancora più pressione sulla crescita, che è già debole”, e “in definitiva, sarebbero le persone a pagare”, ha dichiarato Aart De Geus, presidente del Consiglio esecutivo della Bertelsmann Stiftung.
Lo studio delinea anche una prospettiva ottimistica, nella quale il prezzo dei beni importati dagli altri Paesi europei aumenterebbe del solo 1%. Anche in quel caso le perdite sarebbero sostanziali: tra il 2016 e il 2025, per la Germania sarebbero più di 77miliardi di euro; per la Francia 80,5, per l’Italia 49. In 10 anni il Pil dell’Europa diminuirebbe di 470 miliardi complessivamente e per gli Stati Uniti e la Cina i riflessi della caduta di Schengen si concretizzerebbero in perdite pari a, rispettivamente, 91 e 95 miliardi.
Per capire il perché di tutte queste perdite bisogna pensare ad esempio ai maggiori tempi necessari per controllare i passaporti, lungo le frontiere nazionali, ai quali corrispondono maggiori costi del lavoro per le compagnie. Le ricadute sarebbe anche per le spedizioni rapide che non potrebbero più essere garantite. Il risultato sono costi più alti e quindi prezzi più alti. Ma questo è solo l’inizio. L’aumento dei prezzi a sua volta provocherebbe una caduta della domanda, le compagnie diventerebbero meno competitive a livello internazionale e sarebbero portate a ridurre le loro esportazioni. Una minore domanda di beni sarebbe seguita da un calo degli investimenti, e quando le opportunità di vendita diminuiscono, le compagnie si adattano tagliando la produzione. La conclusione sarebbe una minore crescita economica. E in un mondo sempre più interdipendente, questi effetti porterebbero ad una minore crescita economica anche per i Paesi non europei.