PARLAMENTI. Uno dei paradossi di questa singolare trattativa tra l’Unione europea e il Regno Unito è che per approvare l’accordo finale si è scelta la strada dell’intesa intergovernativa. Dal punto di vista del diritto internazionale è una strada praticabile. Dal punto di vista politico la scelta è stata fatta anche, e forse soprattutto, per tagliare fuori i Parlamenti nazionali da questo negoziato. “Ci sarebbe volto chissà quanto tempo”, dicono i più diplomatici, ed è certamente una cosa vera, ma è altrettanto vero che ci sarebbe stato il rischio che qualche Parlamento, o qualche referendum, avrebbe bocciato l’accordo, facendo così saltare tutto. Però, proprio dentro questo accordo “interpretativo” c’è un rafforzamento del ruolo dei Parlamenti nazionali nella legislazione dell’Unione. Il primo passo sembra dunque piuttosto incoerente: si vuole rafforzare il ruolo dei Parlamenti e si inizia escludendoli dalla decisione. Potrebbe non essere la migliore partenza
SE VINCE IL NO ALL’UNIONE? Altro aspetto sul quale ragionare è di cosa avverrà se i cittadini britannici bocceranno il referendum sulla permanenza nell’Ue. E’ una possibilità forte, non peregrina. Su quel che potrà accadere in Gran Bretagna è un discorso; probabilmente si andrà a nuove elezioni. Ma l’Unione in che posizione si troverebbe? Di più non potrà concedere, il negoziato, una volta chiuso, non potrà essere riaperto, pena ufficializzare l’Europa “a la carte” che tutti dicono di non volere. Dunque la Gran Bretagna uscirà, secondo regole che ancora non sono state stabilite, e che non saranno semplici da definire. Però il tema più grave è che si stabilirà che l’Unione europea non è un posto per tutti, non è quel progetto di successo capace di tenere insieme su un progetto comune identità diverse. Anche piegandosi ad un accordo inedito uscirebbe sconfitta e umiliata. Forse è stato sbagliato aprire un negoziato in questi termini “bilaterali”, forse l’Unione avrebbe dovuto dire “le regole son queste, le avete accettate e non potete pretendere di cambiarle a vostro piacere”. Almeno non sarebbe stata umiliata da un “no” arrivato dopo essere scesa a concessioni.
SARA’ MEGLIO AVERE DUE VELOCITA’? Qualcuno, autorevolmente, dice che in fondo, tutto sommato, se il negoziato andrà a buon fine e il Regno Unito resterà nell’Unione “si sarà fatta chiarezza”, si definiranno due cerchi non concentrici che marceranno in parte insieme e in parte da soli, ma chi deciderà di essere in quello della moneta unica potrà andare avanti per la sua strada senza più intromissioni o rallentamenti da parte di chi non ci vuole stare. A Roma si dice “consoliamoci con l’aglietto”, troviamo uno spunto per dire che comunque va bene, invece di riconoscere che nel progetto c’è, evidentemente, qualcosa di sbagliato e che non si riesce ad allargarlo e neanche a tenere dentro completamente chi già aveva scelto di esserci.
IL REFERENDUM E’ ZOPPO? Il referendum britannico si terrà prima che il Parlamento europeo abbia discusso ed approvato le modifiche ai regolamenti Ue che l’accordo tra i Capi di Stato e di governo prevedono per la parte dell’assistenza sociale ai cittadini Ue che si trasferiscono, senza avere un lavoro, in Gran Bretagna. Dunque i cittadini britannici voteranno, sul punto che sembra interessarli di più, su qualcosa che ancora non esiste, e che potrebbe anche non arrivare mai, benché i maggiori gruppi politici si siano, genericamente, espressi a favore, ma senza senza scendere in dettagli. Una scommessa insomma, cosa che ai britannici, per tradizione, piace fare.
A CHI GIOVA? Al termine di questa breve ma intensa trattativa resta sospesa una domanda: su cosa realmente si è negoziato? La sensazione è che lo si sia fatto sulle paure “della gente” e sugli interessi della finanza londinese. La prima questione è quella che è esplosa negli ultimi anni, con i partiti populisti che riescono ad imporre la loro agenda a quelli che governano (quando ad esserlo non sono loro, ma si tratta di casi rari). In Gran Bretagna l’Ukip ha certo avuto un certo successo di voti, ha attratto alcuni esponenti politici di secondo piano dei conservatori (che comunque non sono riusciti a farsi eleggere) ma il suo più grande successo è stato quello di imporre nell’agenda del premier un tema che tocca la pancia dei cittadini, ma non le loro tasche. Anzi, secondo ogni ricerca di qualunque università, fino ad ora l’apporto netto al Pil britannico da parte degli immigrati è stato positivo, cioè: il Regno Unito guadagna soldi grazie agli immigrati. Ma è difficile spiegarlo a persone che sono convinte di aver speso milioni di sterline per aiutare ad esempio le banche italiane. Cosa che, notoriamente, non è mai accaduta. Dunque l’Ukip guida e i conservatori lo seguono, in una insensata corsa che fa male, prima di tutto, alla Gran Bretagna. E infatti, va detto, la parte dell’accordo sull’assistenza sociale è davvero minima in termini di risparmi per la Corona, praticamente insignificante, se non addirittura dannosa.
La City invece sta tentando, proprio in queste ore, di tentare il colpaccio di avere voce in capitolo nelle scelte dell’euro (non va dimenticato, inoltre, che la Zona euro è il primo partner commerciale del Regno). E’ quel che preoccupa in particolare francesi e belgi, e sembra essere la vera partita strategica in gioco, giudata da finanzieri e imprenditori che vogliono in primis restare nell’Unione, perché ne comprendono i vantaggi, ma che cercano di sfruttare l’occasione per averne qualcuno in più.