di Luigi Pandolfi
L’epilogo della trattativa tra Atene ed i cosiddetti “creditori”, al di là degli errori e delle responsabilità di ciascuna parte, ha messo in luce quanto sia velleitario pensare di imprimere una direzione diversa alla politica economica europea a governance invariata. Nello specifico, siamo di fronte ad una “soluzione” per il debito ellenico che ricalca “quasi” perfettamente quella che dagli anni ottanta è stata alla base dei più noti piani di aggiustamento strutturale (PAS) dell’FMI e della Banca Mondiale: nuovi prestiti in cambio di misure di austerità, privatizzazioni, deregulation. In breve, nient’altro che una partita di giro per consentire alla Grecia di rimanere, artificialmente, in condizione di solvibilità.
Perché “quasi”? Perché nel caso dei piani dell’FMI, generalmente, è stata contemplata anche una ristrutturazione del debito pregresso, ciò che per la Grecia è, allo stato, solo un’ipotesi, un auspicio. Eppure, parliamo di programmi già condannati dalla storia, fallimentari, che nei paesi del terzo mondo hanno aperto la strada ad un ulteriore impoverimento delle popolazioni ed a forme più o meno invasive di controllo politico sugli Stati. Nella loro “sperimentazione” in Grecia, parimenti, hanno prodotto in questi anni un crollo del 25% della ricchezza nazionale ed una disoccupazione vicina al 26%, senza contare lo sfacelo delle strutture fondamentali del welfare. «L’austerità va praticata nelle fasi di espansione, non in quelle di crisi», ammoniva Keynes qualche decennio fa. E la storia, finora, non ha mai smentito questa regola elementare. Evidentemente, non è il buonsenso, né la consapevolezza del dato storico, a guidare gli attuali governanti europei. Piuttosto, cinici calcoli mercantili ed interessi finanziari, in un conteso dominato sempre più dai rapporti di forza tra gli Stati.
Nella tragedia, tuttavia, l’intera vicenda greca ha avuto senz’altro un merito: quello di stimolare, anche a sinistra, un dibattito non convenzionale sulla natura dell’Europa, sulla qualità del processo di integrazione, sulla stessa sostenibilità economica e sociale della moneta unica. Ha imposto, nella discussione pubblica, il tema dell’incompatibilità tra l’assetto attuale della formazione europea ed uno sviluppo equilibrato, democratico, socialmente orientato, delle attività economiche che si svolgono al suo interno. Di fatto, ha reso più urgente una riflessione sulle alternative da proporre allo “stato di cose presenti”. Ma, intanto, cos’è oggi l’Europa, al di là della sua dimensione geografica (anch’essa da stabilire)?
L’Europa-mercato
Per quanti atti e trattati siano stati sottoscritti dal 1950 ad oggi, e nonostante le immancabili dichiarazioni di intenti in essi contenute per uno sviluppo democratico e “politico” del processo di integrazione, l’Europa si presenta ancora, sostanzialmente, come un’area di libero scambio, un “mercato unico” (detto anche “mercato interno”), all’interno del quale, ad litteram, persone, merci, servizi e denaro possono circolare «con la stessa facilità con cui si muovono all’interno di un singolo paese». A tale realtà è stata fatta corrispondere un’area monetaria con un’unica moneta, l’euro, che attualmente coinvolge diciannove paesi su ventotto, presidiata da un insieme di regole cogenti in materia di finanza pubblica, valide per tutti i paesi che ne fanno parte, alla cui base c’è la logica del deleveraging process, che, villanamente, vuol dire “austerità”.
Mercato “unico” e moneta “unica”: binomio evidentemente “imperfetto”, un congegno pericolosissimo in assenza di unità politica e fiscale. Se è vero, d’altronde, che gli Stati, almeno quelli occidentali e maggiormente sviluppati, fatte le dovute differenze, hanno perso il monopolio assoluto sull’emissione di moneta, stante l’ipertrofica dimensione dell’attività finanziaria del settore bancario e di altri attori che si muovono nei mercati ufficiali ed in quello “ombra”, altrettanto vero è che non esiste moneta al mondo, all’infuori dell’euro, che non sia legata, anche simbolicamente, ad una entità statuale, se non altro come lascito della “modernità politica”. Nel caso dell’euro, ovviamente, il problema non è di ordine simbolico, non riguarda il nostro immaginario identificante, ma attiene strettamente alla sfera dell’oeconomicus, come avremo modo di vedere più avanti.
Una storia di surplus e di debiti
Come in tutti i mercati, c’è chi compra e chi vende, chi fa profitti e chi si indebita per comprare. Per gli Stati, c’è uno strumento che consente di registrare i flussi monetari derivanti dalle transazioni fra i propri residenti e i residenti all’estero: la bilancia dei pagamenti. Essa, tuttavia, non è soltanto un freddo registro degli scambi che avvengono tra un paese e il resto del mondo, ma anche il termometro dello stato di salute dell’economia di quel paese. Se un paese importa beni e servizi in quantità maggiore di quanti ne esporta, alla lunga tenderà ad accumulare debiti con l’estero. Viceversa, un paese che esporta più di quanto importa tenderà ad investire i suoi surplus all’estero (anche in attività speculative) e ad accumulare crediti. Bene, cosa è accaduto in questi anni nel “mercato unico” europeo? Non certo ciò che enfaticamente veniva indicato come obiettivo nei trattati, ovvero lo «sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche»[1] in ambito comunitario.
Al contrario, lo scenario che abbiamo davanti è quello di un “mercato unico” profondamente squilibrato, diviso tra potenze “creditrici” e periferie indebitate (debitocrazia). La stessa crisi finanziaria scoppiata a cavallo tra il 2007 ed il 2008 porta le stigmate di questi profondi squilibri, per via dell’intreccio tra surplus commerciali da un lato e attività speculative e creditizie dall’altro. L’introduzione della moneta “unica”, da questo punto di vista, ha avuto un peso non secondario. Per un paese come la Germania, l’euro ha rappresentato una moneta relativamente più debole rispetto alla precedente divisa nazionale, per altri (la maggior parte) esattamente il contrario. E gli effetti sugli scambi commerciali si sono visti tutti. Dal 2002 ad oggi i surplus commerciali tedeschi hanno sfondato la soglia dei 1000 miliardi di euro[2], di cui tanta parte è finita in attività speculative e nell’apertura di linee di credito nei paesi periferici, diventati, a loro volta, mercato di sbocco delle merci ad alto valore aggiunto made in Deutschland.
I paesi della periferia, dunque, hanno “consumato” in questi anni ricevendo in prestito i loro stessi soldi. Di converso, la Germania, ed altri paesi nordici, hanno praticato al proprio interno una rigida politica deflazionistica e di riduzione salariale, volta a frenare le importazioni dai paesi periferici, secondo uno schema definito “neo-mercantilista”. Due dati su tutti. Il primo. Il saldo delle partite correnti della Germania è stato negativo per oltre un decennio, dal 1991 al 2002, anno dell’immissione in circolazione dell’euro. Poi è iniziata la risalita, fino ai picchi di questi ultimi anni. Il secondo. Dal 1995 al 2013 i salari tedeschi sono cresciuti, in termini nominali, di 21 punti percentuali in meno rispetto alla media della zona euro[3]. Ciò non significa, ovviamente, che nella periferia, in termini reali, si sia avuto nello stesso periodo un aumento apprezzabile dei redditi da lavoro, piuttosto un’erosione del loro potere d’acquisto per via dell’inflazione. Se guardiamo al caso italiano, infatti, ci accorgiamo che, in termini reali, la quota dei redditi da lavoro sul PIL è scesa dal 67% degli anni settanta all’attuale 53%[4]. In compenso, però, è aumentato il livello di indebitamento delle famiglie: il credito facile va a colmare il gap tra offerta di beni (e servizi) e redditi da lavoro.
Tutto torna: surplus commerciali e credito da un lato, debiti e bassi salari dall’altro. Per stare alla teoria dei “mercati efficienti”, peraltro cara all’establishment europeo, un eccesso di domanda di un bene farebbe crescere il prezzo del bene stesso e, nel caso di paesi in surplus con propria moneta, un apprezzamento di quest’ultima rispetto alle monete concorrenti, con riequilibro del mercato a vantaggio dei paesi in deficit. Purtroppo questo assioma, valido in teoria, non può trovare conferma nell’eurozona, dove c’è un’unica moneta e, dunque, si opera in regime di cambi fissi. Qui, l’unico modo per stare sul mercato è agire dal lato della domanda interna e dei salari, uniche leve a disposizione delle economie nazionali per vincere la sfida della “competitività”.
Un’anomalia chiamata BCE
In questo quadro, va da sé, rientra anche la questione relativa al ruolo ed alla missione della BCE. Anomalia tra le anomalie del sistema-Europa, l’istituto di Francoforte è l’unica banca centrale al mondo “totalmente” indipendente dal potere politico. In verità, stando all’attuale livello di integrazione europea, con la creazione di una moneta unica in assenza di uno Stato di riferimento, non poteva che essere così. A quale potere politico dovrebbe fare riferimento, d’altro canto, tale istituzione? A quello dei singoli Stati? Assolutamente impossibile, com’è facile convenire. Come ha insegnato la vicenda greca, tuttavia, la BCE è “capace” di fare politica, minacciando perfino la tenuta di governi democraticamente eletti. Non solo. Come si legge nello statuto, l’obiettivo «principale» della BCE e del SEBC[5] è «il mantenimento della stabilità dei prezzi» e del valore dell’euro. Secondariamente, e solo secondariamente, possono rientrare nelle sue attività interventi volti a «sostenere le politiche economiche generali della Comunità»[6]. Da ciò si evince che la sua missione non è, né potrebbe essere, quella di finanziare direttamente gli Stati, garantendo la sostenibilità dei loro “debiti sovrani”, né quella di coordinarsi con il potere politico per l’attivazione di politiche monetarie dirette a favorire lo sviluppo dell’economia e la crescita dell’occupazione[7].
Tralasciando ogni altra considerazione sull’attività svolta in questi anni da Eurotower nella “gestione” della crisi bancaria scoppiata a cavallo tra il 2007 e il 2008, valgano due esempi per comprendere quanto irrazionale sia il sistema nel quale opera la BCE e la sua stessa funzione. Il primo. La crisi dei debiti pubblici, seguita a quella del settore bancario, ha dimostrato che gli Stati dell’eurozona sono del tutto in balia della speculazione finanziaria, che fissa il prezzo del loro finanziamento sul mercato e può, in teoria, determinarne il fallimento. E questo perché Eurotower non è la banca centrale dei singoli paesi, che, come la Fed o Bank of England (BoE), può, seppure indirettamente[8], agire da prestatore di ultima istanza e gli Stati non hanno più la facoltà di monetizzare i propri disavanzi stampando nuova moneta. Due strumenti che, per fare un esempio, consentono al Giappone di tenere il proprio debito al 230% del PIL senza che nessuno si sogni minimamente di adombrare il rischio di un default. Poi, nell’Europa squilibrata di oggi, c’è anche chi può permettersi di finanziarsi con tassi prossimi allo zero o, addirittura, negativi, come nel caso della Germania[9]. Ma ciò, evidentemente, è parte integrante del problema, non il caso che smentisce la regola. Anche perché i paesi periferici, come l’Italia, per rendere più appetibili i loro titoli di Stato, sono costretti a competere giocando sul fattore “interessi” (rendimenti più elevati a fronte di un maggiore rischio), sottraendo altre risorse al welfare ed alle politiche per l’occupazione.
Il secondo. Il sostanziale fallimento del programma di quantitative easing (QE), lanciato da Draghi lo scorso mese di marzo, ha dimostrato che anche qualora la BCE decidesse di andare oltre i suoi compiti «principali», solo un’attività dal lato dell’offerta di moneta sarebbe un’arma spuntata (altro che bazooka!) a fini reflattivi ed anti-ciclici in assenza di politiche fiscali espansive, come, efficacemente, ha dimostrato il caso americano. Ma un coordinamento tra politiche monetarie e politiche fiscali richiede un rapporto “strumentale” tra governi e banche centrali, quello che non c’è e non può esserci oggi in Europa[10]. Intanto, nella sola eurozona il numero dei disoccupati ha superato la soglia dei 18 milioni (25 milioni nell’intera Unione europea), mentre negli USA ritorna ai livelli pre-crisi.
Gli Stati Uniti d’Europa: ipotesi realistica?
Negli ultimi tempi, sono stati in molti a gridare allo scandalo a proposito dei surplus tedeschi, ricordando che la regola vigente vieterebbe saldi annui superiori al 6% del PIL. Non sono mancate “raccomandazioni” da parte di importanti organismi ed istituzioni internazionali, tutti preoccupati per gli effetti che tale situazione potrebbe avere sulla tenuta dell’Unione. Allo stato attuale, però, quali strumenti ha l’Europa per imporre alla Germania politiche reflattive, atte a favorire l’importazione di beni e servizi dai paesi della periferia? Più precisamente, come si potrebbe obbligare (o persuadere) la Germania ad investire di più in infrastrutture pubbliche, ad aumentare i salari dei lavoratori e la stessa spesa pubblica, per aiutare i paesi in deficit? Forse con la minaccia di una “procedura di infrazione”, che, tutt’al più, e solo alla fine di un lungo iter, si concluderebbe con una sanzione pecuniaria o una “penalità di mora”? Suvvia. Piuttosto ci muoviamo nel campo della pura discrezionalità, dei desiderata. Senza considerare che nell’Europa-mercato, il comportamento tedesco è non solo “razionale” ma perfino virtuoso.
Vincere significa essere più bravi degli altri, o no? Viene in mente il “banchiere anarchico” di Pessoa, che rivolto al suo giovane interlocutore, sbottò :«Perché mi censura mentre compio il mio dovere di liberarmi [arricchendosi, NdR], fino a dove posso compierlo? Perché non censura piuttosto loro per non aver compiuto il proprio?». Di fronte a questi squilibri conclamati, “universalmente” riconosciuti, c’è chi pensa che la soluzione sia un ulteriore passo in avanti nel processo di integrazione, verso l’“Europa politica”. Ma cosa si intende per unità politica dell’Europa? Evidentemente, l’allusione è ad uno Stato federale europeo, più o meno sul modello degli Stati Uniti d’America (altrimenti che cosa?). Ipotesi suggestiva, non c’è dubbio. Ragionandoci sopra, però, l’idea presenta non pochi limiti. Intanto, quali sarebbero i confini di questo Stato? In teoria, un futuro Stato federale europeo non potrebbe che ricomprendere l’intero spazio politico e geografico dell’Unione a 28.
Dentro questo spazio, tuttavia, ci sono paesi che adottano l’euro e paesi che mantengono la loro moneta, perché in attesa di fare il loro ingresso nell’eurozona o per scelta strategica (Regno Unito, Svezia, Danimarca). Accanto ad essi ci sono i paesi “candidati” (Albania, ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, Montenegro, Serbia e Turchia) e quelli “candidati potenziali” (Kosovo, Bosnia Erzegovina). Immaginare ciò che potrebbe essere della geografia politica europea tra qualche secolo è impresa impossibile. Pensare che oggi tutte queste realtà siano disposte a “fondersi” in un unico Stato, ancorché federale, è un’idea folle. Oggi più di ieri. Né si può pensare ad una costruzione “per tappe” di un nuovo Stato sovrano, basandosi sui paesi che oggi adottano l’euro ed escludendo quelli che, pur facendo parte dell’Unione europea, non ce l’hanno nemmeno nei loro obiettivi di lungo termine.
A meno che non si ritenga possibile la creazione di uno Stato in cui convivano più monete. Ma a quel punto il problema sarebbe rovesciato: unità politica in assenza di unità monetaria! La questione, come si può convenire, è sempre la stessa: la moneta è uno strumento, ma non uno strumento per fondare nuovi Stati. D’altro canto, se fino a qualche anno fa l’argomento poteva anche appassionare una parte dell’opinione pubblica europea, oggi incontrerebbe resistenze fortissime un po’ ovunque. Il tema oggi non è, infatti, quello di un ulteriore passo verso l’unità politica e fiscale dell’Europa, ma quello di salvare l’Europa da una possibile, definitiva, disintegrazione; da un’inesorabile regressione verso forme imprevedibili di conflittualità tra gli Stati. Tra le due ipotesi, l’unica strada percorribile è quella che porta ad una radicale riforma della sua governance, che comprenda anche il superamento della moneta “unica”.
Il nodo dell’euro ed una plausibile alternativa
A partire dal caso greco, tale questione è stata per lo più affrontata nei termini di una “scelta discrezionale” da parte dei singoli Stati o come “un’offerta” della Germania ai paesi più colpiti dalla crisi. A dire il vero proprio l’ipotesi del Grexit ha fuorviato il discorso sull’argomento, impegnando politici, intellettuali, opinionisti, giornalisti, in una discussione sterile sugli effetti che una fuoriuscita (unilaterale) dall’euro avrebbe potuto avere sulla Grecia o su altri paesi che avessero inteso seguire la stessa strada. Non c’è dubbio che, nelle condizioni date, il prezzo che la Grecia avrebbe pagato per una fuoriuscita unilaterale dall’euro, un po’ rocambolesca peraltro, sarebbe stato più salato di quello che, presumibilmente, sarà chiamata a pagare per l’accordo sottoscritto con i “creditori”. Ma il discorso vale anche per l’Italia, altro vaso di coccio di questa Europa sbilenca, che, dai fondamentali dell’economia all’enorme debito pubblico accumulato, certamente non avrebbe molto da guadagnare da una “fuga di notte”, solitaria, dalla moneta unica.
Diverso è il discorso sulla riforma complessiva del sistema monetario europeo. Per la quale le forze della sinistra, democratiche e anti-liberiste, dovrebbero battersi con convinzione. Quale riforma, nondimeno? Se il punto di partenza del ragionamento è il come superare gli attuali squilibri commerciali e consentire agli Stati di coniugare politiche monetarie a politiche fiscali in chiave redistributiva ed anti-ciclica sul piano interno da un lato e salvare il progetto di integrazione europea dall’altro, l’unica soluzione, peraltro già proposta recentemente da più parti[11], è quella di passare da un regime di “moneta unica” a tasso di cambio fisso ad una “moneta comune” (da utilizzare per gli scambi di beni e servizi nell’ambito del sistema), intesa come unità di conto che funga da collante delle divise nazionali in regime di cambio flessibile, sebbene limitato in una banda di oscillazione predefinita. L’alternativa al cambio flessibile potrebbe essere un tasso di cambio fisso tra le monete nazionali aderenti al sistema, che, tuttavia, verrebbe periodicamente sottoposto a revisione sulla base dei cambiamenti economici intervenuti (inflazione, produttività) nei singoli paesi. A tale sistema, sul modello proposto da John Maynard Keynes a Bretton Woods nel 1944, dovrebbe corrispondere una “stanza di compensazione” per prevenire e correggere gli eventuali squilibri delle partite correnti dei paesi aderenti alla nuova area valutaria, proprio in ossequio al principio dello «sviluppo equilibrato delle attività economiche in ambito comunitario» di cui si parla nei trattati. Ciò, anche al fine di non ripetere l’esperienza degli anni ‘70 e ‘80, quando, all’interno dello SME, il marco tedesco costituiva la moneta di riferimento ed il peso dell’aggiustamento gravava esclusivamente sui paesi in deficit.
Niente di nuovo, per carità. Piuttosto si tratterebbe di un sistema che valorizzerebbe il meglio delle esperienze, sia teoriche che pratiche, del passato e del presente, in tema di convergenza economica e stabilità monetaria su vasta scala, consentendo agli Stati membri di recuperare le proprie prerogative costituzionali in materia economica e fiscale. Non si dimentichi, a tal proposito, che il fiscal compact è stato concepito espressamente come strumento per «salvaguardare la stabilità dell’eurozona», cioè dell’euro, e che le disposizioni in esso contenute «si applicano alle Parti contraenti la cui moneta è l’euro»[12]. È un rapporto “funzionale”, insomma, quello tra nuovo patto di stabilità (austerità) e moneta “unica”, costruito a danno della “legalità” costituzionale nei paesi che l’hanno sottoscritto. In Italia, per stare al tema, si è verificato un corto circuito tra vincoli di bilancio esterni e impostazione “programmatica” della Carta, vieppiù aggravato dalla costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio.
Una buona integrazione è possibile
Si dirà: ma anche per questi problemi la soluzione è l’unità politica dell’Europa! In fondo, si tratta di un assioma semplice, perfino banale: se il limite di questa Europa risiede nell’aver fatto la moneta unica prima dell’unità politica, realizzando quest’ultima si rimedierebbe ex post all’errore commesso. Una prima risposta, a tal proposito, ho tentato di darla qualche riga più indietro. Mi limito ad aggiungere che nelle condizioni date (profonde differenze economiche e sociali, enormi debiti pregressi, instabilità politica, crescenti spinte centrifughe, discredito delle istituzioni europee, ecc.), un’opera di riorganizzazione dell’Europa in senso federalista richiederebbe una forza politica paragonabile a quella di una rivoluzione. Con risultati, in ogni caso, tutti da verificare, come la storia ci insegna. Nel frattempo facciamo i conti con lo svuotamento della democrazia e l’esautoramento delle costituzioni a livello nazionale, con le restrizioni imposte dalle vigenti regole di finanza pubblica e il sacrificio dei nostri diritti sull’altare della competitività al ribasso. Perciò, pur ragionando in termini meramente futuribili, a giocare contro i nostri interessi sarebbe, comunque, il tempo («Nel lungo periodo saremo tutti morti», ammoniva sagacemente Keynes un po’ di anni fa).
Mentre una risposta alla crisi dell’attuale modello di costruzione europea, agli squilibri ed ai danni sociali da esso indotti, non potrebbe che essere concepita come “soluzione a breve termine”, pena il condannarci a decenni di politiche di austerità e di disoccupazione di massa. Beninteso: il superamento dell’attuale assetto euro-monetario non è la soluzione in sé ai problemi dell’Europa e dei suoi cittadini, ma la condizione necessaria per poter cambiare i rapporti di forza tra capitale e lavoro, tra democrazia e potere finanziario; per restituire alla politica la sua fondamentale prerogativa di opporsi al corso delle cose, ovvero di assecondarlo, a seconda dei rapporti egemonici che possono venire a stabilirsi in un dato momento. Riconoscere il carattere velleitario di una soluzione “statale” alla crisi dell’Europa e l’insostenibilità della moneta “unica”, non significa, tuttavia, disconoscere il valore di una “buona integrazione” tra popoli e tra Stati europei, di un nuovo “patto per l’Europa” basato sulla condivisione di regole e strumenti atti a favorire una maggiore equità sociale, equilibrio negli scambi commerciali, la sostenibilità ambientale delle attività economiche che si svolgono nello spazio comunitario. La solitudine, l’impotenza, di Atene di fronte ai suoi “creditori”, ha confermato, tuttavia, se mai ce ne fosse stato bisogno, che un cambiamento di questa Europa potrà esserci soltanto se cambierà l’attuale quadro politico e di governo, e se forte, continuativa, sarà la mobilitazione dal basso dei cittadini, dei movimenti, delle forze alternative, nel breve periodo. Una grande sfida anche per la sinistra, che in questi anni, pur di marcare la propria distanza, sul piano ideologico, dalla destra nazionalista, ha finito per confondersi con i difensori dello status quo.
Pubblicato anche su Alternative per il socialismo.
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Note
[1] Trattato dell’unione europea (TUE), Titolo 1, art. B.
[2] Nello stesso periodo Grecia, Spagna e Portogallo, insieme, hanno fatto registrare più o meno la stessa cifra, ma per i loro deficit (statistiche Eurostat).
[3] Sistema europeo delle banche centrali.
[4] Fonte CGIL, Fondamenti macroeconomici della (futura) contrattazione, marzo 2015.
[5] Sistema europeo delle banche centrali.
[6] Protocollo sullo statuto del Sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea, art. 2.
[7] Sull’argomento si veda anche: Riccardo Petrella, “Abolire l’indipendenza politica della BCE”, banningpoverty.org, marzo 2015.
[8] Gli Stati Uniti, l’Inghilterra e il Giappone accettano dalle banche, quale “collaterale” per la concessione di liquidità, soltanto titoli di Stato. Ciò, a differenza dell’eurozona, fa sì che la domanda di titoli di Stato si mantenga sempre a livelli tali da mantenere bassi i tassi di interesse, scongiurando fenomeni speculatavi.
[9] A fronte dello stato di salute dei paesi periferici, i bund tedeschi sono considerati “beni rifugio”.
[10] Articolo 130 TFUE: «nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo».
[11] Sull’argomento si veda anche: Alessandro Bramucci, “Gli squilibri europei e la lezione di Keynes”, Sbilanciamoci.info, ottobre 2012; “Keynes, il Bancor e l’Euro: una risposta/proposta a Sergio Cesaratto”, “Keynes blog, settembre 2013; Luigi Pandolfi, “Per un superamento controllato dell’euro”, Economia e Politica, settembre 2013; J. Sapir, “Dall’euro alla moneta comune? È una buona idea”, Keynes blog, settembre 2013; Alfonso Gianni, “Tra perseverare nell’euro e uscirne, c’è una terza strada da percorrere”, MicroMega Online, settembre 2013, e Alternative per il socialismo n. 28; Andra Papetti-Franco Bruni, Bringing Money Back to the Real Economy: Room for a TARGET3, ISPI, luglio 2013; Enrico Grazzini, “Euro, come recuperare la sovranità monetaria”, Sbilanciamoci.info, marzo 2014; Martin Höpner, “Europa neu begründen: Weder Austerität noch Abwertung?, http://www.mpifg.de, 2015.
[12] Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, art.1.