di Thomas Fazi
Estendere il principio del bail-in – introdotto per le banche con l’unione bancaria, con conseguenze che si stanno già rivelando devastanti, in particolar modo per l’Italia – anche agli Stati: sarebbe a dire che in caso di crisi, prima di consentire qualunque salvataggio, pagano i creditori, ovvero chi detiene i titoli di Stato del paese in difficoltà. È questa l’ultima trovata dei gruppi dirigenti tedeschi per stringere ulteriormente la camicia di forza dell’euro. E – si direbbe – per mettere l’Italia con le spalle al muro. In sostanza, nel caso in cui uno Stato membro si trovasse in difficoltà e si vedesse costretto a richiedere assistenza finanziaria al Meccanismo europeo di stabilità (MES), dovranno valere le stesse norme già in vigore per le banche: prima di poter ricevere il sostegno del fondo salva-Stati, il paese in questione dovrà sospendere immediatamente il versamento degli interessi e del rimborso dei titoli pubblici, e i tempi di scadenza dei titoli dovranno essere automaticamente prolungati.
Come ha rivelato nei giorni scorsi Federico Fubini sul Corriere della Sera, la proposta è contenuta in un “rapporto speciale” di 53 pagine del Consiglio degli esperti economici tedeschi, che ha ricevuto di recente anche l’appoggio di Wolfgang Schäuble. Si legge nel rapporto dei saggi: «È necessaria un’applicazione coerente delle regole di insolvenza per gli Stati, in modo da ridurre i livelli di debito e rendere credibile la clausola che esclude i salvataggi», prevista nel Trattato di Maastricht. L’obiettivo dichiarato dei tedeschi è quello di esporre i governi alla piena disciplina del mercato, dato che quella del fiscal compact non sta dando i frutti sperati.
Come nel caso del bail-in previsto dall’unione bancaria, quella di “far pagare le banche”, a prima vista, potrebbe sembrare una mossa ragionevole, persino “di sinistra”. Stiamo vedendo in questi giorni, però, quali siano le reali conseguenze dell’entrata in vigore del bail-in sul sistema bancario italiano (uno dei più fragili dell’eurozona, a causa dell’enorme volume di crediti in sofferenza): fuga di capitali verso il centro, attacchi speculativi, titoli bancari e borsistici in caduta libera, ecc. Una vera e propria catastrofe bancaria che rischia di trascinare giù con sé l’intero paese (da cui gli appelli sempre più disperati di Visco e di altri pezzi grossi affinché il governo chieda la revisione della norma sul bail-in).
La proposta dei saggi tedeschi non farebbe che esacerbare questa situazione esplosiva. Se venisse approvata, infatti, le banche sarebbero costrette a “prezzare” i titoli di debito da esse detenute in base al rischio di default dei diversi Stati (in base alla regolazione bancaria esistente, tutti i titoli di Stato sono considerati ugualmente sicuri). Ora, considerando che (a) che i sistemi bancari nazionali sono strettamente irrelati con i titoli del debito pubblico nazionale, visto che è prassi ovunque che le banche private facciano incetta di titoli di Stato, e (b) che per alcuni Stati (come l’Italia) il rischio di default è più alto che per altri, è evidente che questa misura penalizzerebbe soprattutto i paesi maggiormente colpiti dalla crisi (esattamente come per le norme previste dall’unione bancaria). I bilanci delle banche nazionali, infatti, subirebbero perdite enormi; nel caso delle banche italiane, già pesantemente sottocapitalizzate, l’impatto sarebbe semplicemente devastante.
Come spiega Fubini, poi, sul tavolo c’è addirittura l’ipotesi che gli investimenti fatti in titoli di Stato inizino a erodere il capitale delle banche non appena la loro esposizione in debito pubblico del loro paese supera il 25% del patrimonio. In sostanza, visti gli oltre 400 miliardi di titoli del Tesoro di Roma detenuti dalle banche italiane, queste dovrebbero accantonare denaro contro eventuali perdite per circa il 70% del loro portafoglio di titoli di Stato. In alternativa, dovrebbero vendere buoni italiani e magari comprarne di più solidi, per esempio quelli tedeschi. Come nota l’economista tedesco Peter Bofinger, l’unico esponente degli esperti tedeschi ad aver votato contro il piano, tutto questo significa sottrarre alle banche dell’Europa del sud il pilastro sul quale si fonda qualunque istituto al mondo: dei titoli sicuri in bilancio, che non possono fallire. «Può essere dinamite per l’area euro», dice Bofinger.
«Un effetto immediato sarebbe innescare una stretta al credito non appena un paese va in difficoltà, avvitando la crisi. Un secondo effetto sarebbe accelerare la fuga dei fondi bancari dai titoli italiani a quelli di Berlino, più sicuri, facilitando il finanziamento di Berlino e complicando quello di Roma. Questo ingranaggio è un acceleratore di crisi e a qualcuno sembrerà anche uno strumento di potere», scrive Fubini. È la stessa opinione espressa di recente anche da Carlo Bastasin, editorialista del Sole 24 Ore, secondo cui il meccanismo rischia di minare la stabilità finanziaria dell’eurozona, unicamente a vantaggio (almeno nel breve) della Germania:
I titoli pubblici hanno un ruolo unico e fondamentale per il sistema finanziario dell’eurozona. Pertanto, una volta che i titoli sovrani nei paesi dell’eurozona sono diventati più rischiosi, l’intero sistema finanziario potrebbe diventare più fragile, e questo potrebbe influenzare negativamente la crescita e la stabilità finanziaria. Da ultimo, anziché imporre una sana disciplina ad alcuni paesi membri, il nuovo regime potrebbe ampliare i differenziali di rendimento dei titoli di Stato e rendere impossibile la convergenza dei debiti, aumentando la probabilità di rottura dell’eurozona.
Paradossalmente, la misura avrebbe anche pesanti ricaduta sulla sostenibilità del debito pubblico dei paesi maggiormente “a rischio”: i tassi di interesse sul debito – che stanno in relazione inversa con il prezzo dei titoli – tornerebbero infatti a salire, cancellando gli stessi vantaggi del quantitative easing. Di fatto, vorrebbe dire tornare alla situazione pre-2012 e al principio secondo cui solo applicando al debito pubblico una ferrea logica di mercato – ossia di domanda e offerta, in cui sono unicamente i mercati, supposti per natura efficienti e onniscienti, a determinare i tassi di interesse dei titoli pubblici e la “solvibilità” degli Stati sulla base di parametri oggettivi e neutrali – sia possibile garantire una gestione “responsabile” delle finanze pubbliche (un fatto palesemente smentito dalla crisi, che ha invece mostrato quanto i mercati ignorino i fondamentali economici, costringendo infatti Draghi ad intervenire per stabilizzare i tassi col suo celebre «whatever it takes»).
E pensare che tutto questo sarebbe stato concepito, secondo le parole di Andreas Dombret, vicepresidente della Bundesbank, per «spezzare il circolo vizioso tra Stati e banche». In realtà, qualora la pazzesca proposta della Germania dovesse passare, assisteremmo ad un fenomeno diametralmente opposto a quello enunciato da Dombret.