Roma – Non una riunione per dare soluzioni immediate all’integrazione europea, ma un’occasione di riflessione storica. È questa l’impressione che ha dato l’incontro tra i ministri degli Esteri dei sei paesi fondatori dell’Ue (Italia, Francia, Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo), riuniti ieri a Roma per discutere del futuro dell’Unione europea. Almeno a giudicare dal documento finale sottoscritto. Un pamphlet con richiami ai periodi bui in cui la guerra funestava il Continente, alle sfide di oggi e alla crisi del progetto europeo che ha garantito 70 anni di pace e qualcuno in meno di prosperità.
Visti i temi sul tappeto della discussione pubblica – dalla Brexit al ministro delle Finanze europeo, passando per il bilancio con risorse proprie dell’Ue e le primarie per i candidati alla presidenza della Commissione – in molti si attendevano dal meeting a sei proposte più concrete di un generico impegno a “creare un’unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa”. Invece, l’unico elemento senza contorni di vaghezza è il richiamo alla gestione comune dell’immigrazione, con l’invito ad attuare tutti gli impegni assunti dagli Stati membri e gestire insieme le frontiere esterne per salvare l’accordo di Schengen sulla libera circolazione.
In realtà, la discussione tra i sei ministri deve essere stata densa e gli elementi per alimentarla non mancavano. Lo ha suggerito l’Italiano Paolo Gentiloni, che in qualità di anfitrione si è fatto portavoce di tutto il gruppo per dire che si è “discusso di quali soluzioni possano esserci” per approfondire l’integrazione europea, “anche alla luce del referendum britannico” sulla permanenza nell’Ue. Dunque, i temi caldi del futuro assetto istituzionale europeo sono stati affrontati, e se ne continuerà a parlare anche negli incontri successivi – il prossimo si terrà in Belgio – ma si è trattato “solo di scambi di vedute”, ha tenuto a precisare il titolare della Farnesina.
Il punto è che i sei Paesi fondatori sanno di essere osservati con diffidenza dagli altri Stati membri, i quali temono che in questo formato ristretto si prendano decisioni importanti escludendo tutti gli altri dal tavolo. È l’impressione che l’ambasciatore polacco in Italia, Tomasz Orlowski, ha dichiarato di avere in una intervista a Eunews. Ed è proprio quello che i sei vogliono evitare. Ha provato a dirlo in tutti i modi Gentiloni, sottolineando come la dichiarazione sottoscritta ieri “serva da base per aprire al contributo e al coinvolgimento di altri Paesi”. E prima ancora era stata l’ambasciatrice tedesca, Susanne Wasum-Reiner, sempre in una intervista a Eunews, a porre come condizione dell’incontro l’esigenza di non far sentire esclusi gli altri.
Eppure, se si va verso un rafforzamento dei legami mentre ad alcuni – non solo il Regno unito – stanno stretti già i vincoli attuali, è naturale pensare che alla fine qualcuno sarà escluso. O quanto meno che si continuerà ad avere “diversi livelli di integrazione”, per dirla con Gentiloni. Già, perché l’espressione ‘Europa a due velocità’, da queste parti, non è gradita. Anche se ognuno sa benissimo che è l’unica soluzione per accontentare chi vuole più Europa e non scontentare chi ritiene di averne a sufficienza.
L’incontro di ieri “non è il primo passo per un’Europa a due velocità”, è stato costretto a precisare Gentiloni a nome del gruppo. Anche se poi, non potendo rimangiarsi quanto scritto con il collega britannico Philip Hammond, ha aggiunto che su questo ognuno dei sei fondatori “ha il suo punto di vista e quello italiano è che c’è già una differenziazione tra chi è nell’Euro e chi no, chi sta nell’Area Schengen e chi è fuori, chi ha gli ‘opt-out’ e chi no”. Dunque, secondo il ministro “si tratta di organizzare questi diversi livelli di integrazione”. È “una discussione aperta per l’Unione europea”, ma i Paesi fondatori non possono affrontarla tra loro se non in “una discussione molto libera che non deve arrivare a decisioni”. O olmeno non deve dare l’impressione di volerlo fare.