di Thomas Fazi
L’1 gennaio 2016 è entrata ufficialmente in vigore l’unione bancaria europea, un sistema di vigilanza e risoluzione bancaria a livello europeo. La creazione dell’unione bancaria rappresenta, in termini di regolamentazione, l’esito più significativo della crisi – «un cambio di regime più che un semplice rattoppo istituzionale», come scrive Christos Hadjiemmanuil della London School of Economics in un approfondito studio sull’argomento – e c’è ampio accordo sul fatto che «anche nella sua attuale forma incompleta [l’unione bancaria] è il più grande successo politico dell’Unione europea in termini strutturali da quando è iniziata la crisi finanziaria». Uno sguardo più ravvicinato, però, mostra che l’unione bancaria – quantomeno nella sua forma attuale – è solamente l’ultima fase del processo di aggiustamento asimmetrico a cui abbiamo assistito in questi anni in Europa. Una fase che potrebbe fissare l’ultimo chiodo sulla bara dell’euro.
Nelle sue intenzioni iniziali, l’unione bancaria doveva servire a «spezzare il circolo vizioso tra banche e gli Stati», mutualizzando i costi fiscali delle risoluzioni bancarie. Questo fu il risultato del tardivo riconoscimento da parte dei decisori politici europei della natura non-fiscale – ossia bancaria e monetaria – della “crisi dei debiti sovrani” nell’eurozona. Quando nel 2012 la crisi del debito ha investito due paesi, Spagna e Irlanda, che negli anni precedenti alla crisi avevano registrato tra i rapporti deficit/PIL e debito/PIL più bassi di tutta l’Unione, i governanti europei sono stati costretti a riconoscere che lasciare la gestione delle crisi bancarie in mano ai singoli Stati membri – non lasciando ai politici nazionali altra scelta se non quella di finanziare i salvataggi bancari con le risorse fiscali nazionali – aveva fatto lievitare il debito pubblico di taluni paesi (specialmente quelli della periferia dell’eurozona, che negli anni precedenti alla crisi erano stati oggetto di massici afflussi di capitale, che avevano contributo al gonfiarsi di enormi bolle speculative) a livelli insostenibili. Questo aveva determinato pericolosi squilibri che ora rischiavano di minacciare la stabilità dell’eurozona nel suo complesso.
Pertanto, nonostante le politiche europee “anti-crisi” siano rimaste saldamento improntate al dogma dell’austerità fiscale (per ragioni politiche più che economiche, come ho argomentato a fondo nel mio libro, The Battle for Europe), si riconosceva la necessità di un profondo mutamento nella politica europea in materia di risoluzioni bancarie, al fine di sollevare i singoli paesi dal peso fiscale delle operazioni di salvataggio delle banche, e di mettere fine alla frammentazione delle condizioni bancarie e monetarie lungo linee di confine nazionali. L’istituzione di un fondo di risoluzione pubblico comune – un cosiddetto “fiscal backstop” (‘blocco fiscale’) – per l’intera area euro era considerato essenziale a tale scopo. Il prerequisito per la mutualizzazione dei costi di salvataggio, però, era il trasferimento delle competenze in materia di supervisione e risoluzione bancaria dalle autorità nazionali alla BCE.
Sono state queste le condizioni che hanno portato i leader europei, il 29 giugno 2012, ad affermare esplicitamente la necessità di rompere «il circolo vizioso tra banche e Stati», aggiungendo che «una volta stabilito un meccanismo unico di supervisione facente capo alla BCE, il MES potrà, dopo regolare decisione, passare a ricapitalizzare direttamente le banche».
Durante le fasi di costruzione dell’unione bancaria, però, qualcosa è cambiato: «la centralizzazione della supervisione è stata condotta in modo rapido e deciso, ma nel frattempo la sua premessa (cioè la creazione di un “fiscal backstop” per la risoluzione delle banche) è stata praticamente abbandonata», scrive Christos Hadjiemmanuil. Nel giro di un anno, la Germania ed i suoi alleati hanno ottenuto:
- l’esclusione di qualsiasi sistema condiviso di tutela dei depositi;
- il mantenimento di un effettivo potere di veto nazionale sull’uso delle risorse fiscali comuni;
- la probabile esclusione dei cosiddetti “legacy assets” – vale a dire dei debiti accumulati prima della creazione dell’unione bancaria – da qualsiasi sistema di ricapitalizzazione, sulla base del fatto che ciò equivarrebbe ad una mutualizzazione ex post dei fallimenti passati in materia di supervisione nazionale (la questione comunque rimane aperta);
- cosa più importante, una gerarchia molto rigida sulla ripartizione degli oneri, mirata ad assicurare che (a) l’uso di fondi pubblici per le risoluzioni bancarie sia evitato in tutte le circostanze tranne le più urgenti (e sia comunque il più circoscritto possibile), tramite l’applicazione di un rigido sistema di bail-in; e (b) che la principale responsabilità fiscale per le risoluzioni bancarie rimanga a livello nazionale, dato che le risorse fiscali comuni devono essere considerate uno strumento di ultima istanza.
«Queste scelte politiche hanno determinato un approccio europeo alla risoluzione bancaria che si basa sostanzialmente su due architravi: il bail-in dei soggetti privati e l’esclusione, se non in circostanze estreme, di qualsivoglia assistenza pubblica», nota Hadjiemmanuil. In breve, quando una banca si trova in difficoltà, è sui soggetti privati – cioè sugli azionisti e sugli obbligazionisti subordinati, e, a seconda delle circostanze, anche sugli obbligazionisti senior e sui correntisti sopra i 100.000 euro – che vengono scaricate le perdite e gli eventuali costi di ricapitalizzazione.
Solo a quel punto, se i contributi da parte privata non dovessero essere sufficienti – e comunque a condizioni molto rigide – può subentrare il Fondo di risoluzione unico (SRF) del meccanismo di risoluzione unico (SRM). A prescindere dai problemi che derivano dal meccanismo di ripartizione degli oneri previsto dall’unione bancaria – che esamineremo più avanti – l’SRF presenta numerosi problemi di suo. Il fondo sarà finanziato dai contributi del settore bancario e verrà costituito gradualmente nell’arco di otto anni a partire dall’1 gennaio 2016. Il suo importo totale dovrebbe raggiungere almeno l’1% dell’importo dei depositi protetti di tutti gli enti creditizi coperti dall’unione bancaria, per un importo stimato di circa 55 miliardi di euro. Se non in circostanze eccezionali, il contributo del fondo sarà limitato al 5% delle passività totali della banca. Ciò significa che, in caso di grave crisi bancaria, l’apporto dell’SRF si rivelerebbe quasi senz’altro insufficiente (specialmente durante il periodo di “costruzione” del Fondo).
Se, esauriti i succitati strumenti di risoluzione, una banca continua ad essere sottocapitalizzata, i paesi possono richiedere l’intervento del Meccanismo europeo di stabilità (MES), detto anche fondo salva-Stati, attraverso il nuovo strumento di ricapitalizzazione diretta delle banche (direct recapitalisation instrument, DRI). Il modo nel quale lo strumento è stato realizzato, però, solleva molti dubbi sulla sua funzionalità pratica. Come nota Hadjiemmanuil, le regole del DRI «sollevano importanti barriere all’utilizzo di questo strumento anche nelle situazioni in cui la ricapitalizzazione tramite fondi pubblici sarebbe giustificata».
Uno degli aspetti più problematici dello strumento è la precedenza, rispetto alla ricapitalizzazione diretta delle banche, data alla ricapitalizzazione indiretta delle stesse tramite il MES, per mezzo di un prestito al governo nazionale di riferimento. A meno che questa forma di assistenza non comporti un drastico deterioramento delle prospettive fiscali del paese in questione, essa è da considerarsi preferibile rispetto all’utilizzo del DRI. In tutti gli altri casi, deve essere lo stesso governo nazionale a fornire il necessario sostegno finanziario alle proprie banche in difficoltà, raccogliendo le risorse necessarie dai mercati finanziari o, nel peggiore dei casi, chiedendo aiuto al MES.
In quest’ultimo caso, allo Stato membro facente richiesta non verranno ovviamente risparmiate le temute condizionalità della troika, «incluso, dove necessario, quelle collegate alle politiche economiche generali del paese membro coinvolto». In altre parole, i paesi che saranno costretti a chiedere aiuto al MES per ricapitalizzare le loro banche saranno probabilmente costretti a implementare le stesse misure di austerità e di aggiustamento strutturale – tagli al welfare, riduzione dei salari, ecc. – imposte in questi anni agli Stati che hanno ricevuto assistenza finanziaria dal fondo.
Curiosamente, anche nell’eventualità (rara) che a una banca sia concesso di attingere al DRI, prima che possa ricevere un’iniezione diretta di liquidità dal fondo comune, il governo che ne fa richiesta dovrà fornire la somma necessaria a portare il rapporto di capitalizzazione della banca alla soglia legale del 4,5%, oppure, se la banca già raggiunge la soglia legale, dovrà versare un importo equivalente al 10-20% del capitale totale erogato dal MES. Come nota Hadjiemmanuil, ciò significa che secondo le norme vigenti la principale responsabilità fiscale per gli interventi di assistenza pubblica a favore delle banche in difficoltà continua a gravare sui governi nazionali:
Anche qualora un governo si trovi nella poco invidiabile posizione di dover finanziare la ricapitalizzazione di una o più banche di rilevanza sistematica, e sia troppo debole fiscalmente per farlo senza un sostegno esterno, la ricapitalizzazione verrà, di regola, addebitata al governo, col MES relegato ad un ruolo di assistenza indiretta, sotto forma di prestatore. Per quanto riguarda il DRI, date le norme estremamente stringenti a cui è subordinato il proprio utilizzo (non ultimo l’unanimità del consiglio direttivo del MES), esso probabilmente non verrà utilizzato se non in circostanze assolutamente eccezionali. E anche in quel caso, sarà il governo dello Stato membro coinvolto a doversi fare carico di una larga parte dell’onere finanziario – e questo a dispetto del fatto di non essere più responsabile della supervisione delle proprie banche!
Più in generale, perfino l’FMI ha espresso dubbi sul meccanismo previsto, notando che «le risorse per la risoluzione centralizzata potrebbero non bastare per gestire le crisi di grosse banche». La somma totale che il MES potrà sborsare per la ricapitalizzazione di una qualsiasi banca è stata fissata a “soli” 60 miliardi di euro (per quanto si dica che il limite è flessibile). Si tratta più o meno della stessa somma che dovrebbe essere raccolta privatamente tramite il SRM. Per quanto sembri una somma ingente, e per certi versi ovviamente lo è, si tratta di una goccia nell’oceano rispetto ai bilanci delle maggiori banche europee. L’eurozona ospita un settore bancario molto ampio, con attivi che ammontano a oltre tre volte il PIL annuale dell’unione monetaria, concentrati perlopiù nelle mani di un certo numero di megabanche, la cui ricapitalizzazione richiederebbe risorse immense. Per dare un’idea, il bilancio medio delle 15 e 30 maggiori banche dell’Unione europea (pari a 800 e 1.300 miliardi di euro rispettivamente) è 13 e 21 volte superiore al limite posto alla ricapitalizzazione. Queste banche non sono solo troppo grandi per fallire; sono anche troppo grandi per essere salvate.
Il fallimento di una qualsiasi di esse – anche assumendo che questo non scateni una più ampia crisi sistemica – richiederebbe la mobilitazione di immense risorse finanziarie. Ciò è dimostrato anche dalla recente crisi, con alcune grandi banche che hanno necessitato di interventi pubblici per oltre 100 miliardi di euro.
Anche alla luce di tutto ciò, si potrebbe comunque ipotizzare che il meccanismo di bail-in rappresenti un passo avanti rispetto ai meccanismi di salvataggio degli anni recenti, poiché limita il carico per gli Stati e con esso la “socializzazione” delle perdite bancarie. La cosa fondamentale da capire è che il bail-in è senz’altro uno strumento utile da avere a disposizione, e in molti casi potrebbe indubbiamente essere preferibile ad un salvataggio pubblico. Tuttavia, questo deve essere deciso caso per caso. I problemi sorgono quando gli Stati membri vengono costretti a ricorrere al bail-in come metodo primario di risoluzione bancaria, indipendentemente dalle potenziali conseguenze che ciò potrebbe avere, dalla natura dei problemi delle banche, dal più ampio contesto macroeconomico, eccetera. Eppure questo è precisamente ciò che l’unione bancaria prescrive.
Questo è particolarmente vero alla luce della profonda asimmetria che esiste tra sistemi bancari nell’UE, che sono a loro volta il riflesso di più ampi squilibri sociali e macroeconomici tra il centro e la periferia. Dai recenti stress test della BCE è emerso che le banche con le maggiori carenze di capitale sono situate proprio nei paesi della periferia: Italia, Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro. I problemi di solvibilità, dunque, sembrano investire soprattutto banche situate nei paesi dell’eurozona maggiormente afflitti dalla crisi economica. Non si tratta di un esito sorprendente: diversi studi hanno evidenziato che c’è un chiaro collegamento pro-ciclico tra la performance macroeconomica e la dinamica dei coefficienti di adeguatezza patrimoniale delle banche. Ciò è evidente dall’enorme e crescente volume dei crediti in sofferenza in tali paesi, che sono una conseguenza diretta delle politiche di austerità perseguite in questi anni e, ovviamente, la ragione principale per la quale le banche periferiche non reggono gli stress test della BCE.
Questo ci porta alla situazione paradossale in cui si trova oggi l’Italia. Le banche italiane se la sono cavata relativamente bene durante la crisi finanziaria, e perciò non hanno abbisognato di aiuti pubblici al tempo (a differenza delle banche di molti altri paesi). Da allora, come conseguenza del crollo socioeconomico senza precedenti dovuto alla crisi, a sua volta conseguenza dell’austerità imposta dall’UE, i bilanci delle banche italiane si sono progressivamente deteriorati, e oggi – dopo sette anni di crescita costante dei crediti in sofferenza – le banche italiane si trovano di fronte ad una crisi sistemica senza precedenti.
La gravità della situazione spiega perché alla fine la Commissione europea – dopo un negoziato di un anno e in barba alle regole dell’unione bancaria – abbia autorizzato il governo italiano a procedere alla creazione di una bad bank su cui scaricare i crediti deteriorati delle banche. Purtroppo si tratta di un accordo molto al ribasso, che non risolve nessuno dei problemi di fondo del sistema bancario italiano; di fatto, alle banche sottocapitalizzate del nostro paese (così come a quelle degli altri paesi della periferia) non rimarrà che ricorrere all’intervento di capitali esteri o, appunto, al bail-in (se non addirittura alla liquidazione). Alla luce dell’irrisolto scontro intercapitalistico tra capitali del centro e capitali della periferia (si veda il lavoro di Emiliano Brancaccio a riguardo), possiamo dunque ipotizzare che l’unione bancaria determinerà un’escalation del processo di “centralizzazione” dei capitali bancari in Europa, ossia ad una resa dei conti definitiva tra i capitali più fragili dislocati soprattutto nel Sud Europa ed i capitali più forti situati prevalentemente in Germania. Questo perché l’unione bancaria, così come è costruita, non riduce ma enfatizza le asimmetrie tra i sistemi bancari dell’eurozona.
Le nuove regole sul bail-in rendono i paesi più deboli anche maggiormente suscettibili a crisi di panico e corse agli sportelli. E c’è motivo di credere che questo processo sia già in corso: se osserviamo i bilanci TARGET2 – un’ottima misura dei flussi di capitale all’interno dell’eurozona – è evidente che i paesi periferici stanno assistendo ad una massiccia fuga di capitali verso i paesi del centro. Non è azzardato pensare che ciò sia dovuto al fatto che i depositanti nei paesi della periferia stanno portando i loro soldi all’estero per il timore di imminenti bail-in, confische, fallimenti bancari, ecc. A quasi otto anni di distanza dallo scoppio della crisi finanziaria, l’incubo europeo continua.