di Pierluigi Fagan
Nel 1949, il filosofo e psichiatra tedesco Karl Jaspers, pubblicava Origine e senso della storia, oggi riproposto dopo lunga assenza da Mimesis edizioni (2014, 28 euro). In esso vi era contenuto una osservazione divenuta poi patrimonio della riflessione dell’uomo sulla sua propria storia. La constatazione che tra l’800 ed il 200 a.e.v. si è registrata una sincronia di pensieri e di pensanti che fonda tutto quanto si è poi successivamente espresso nella formazione delle principali civiltà. Confucio, Laozi, Buddha ma anche la composizione delle Upaniṣad, Zarathustra, la composizione dell’Antico Testamento, i greci, filosofi, scienziati, storici, drammaturghi, politici ma anche mitografi come Esiodo ed Omero. Jaspers individuò questo periodo come una svolta, un tornante che s’inerpica intorno ad un asse, da cui l’uso del termine “assiale”.
Jaspers, in base alle visioni e conoscenze dell’epoca, supponeva non vi fosse stata interrelazione di fatti sottostanti, queste espressioni culturali erano più o meno sincroniche nel tempo ma non furono dovute ad un contagio umano negli spazi dell’Eurasia. Quest’ultima assunzione, oggi che con l’ultima globalizzazione vediamo all’opera la più recente e potente espressione di quel fenomeno ricorsivo che è la tendenza del genere umano ad interconnettersi formando una più o meno fitta, unica, rete fatta di reti, è discussa.
Un intero comparto dell’evoluzione dello sguardo storico si sta muovendo, da qualche decennio, ad assumere il mondo intero come oggetto di narrazione e riflessione, la world history. Questo tipo di storia che ha in oggetto il mondo predilige la lettura proprio delle relazioni, che si suppongono esser state vaste e profonde, sin dai tempi più antichi.
Uno dei suoi founding fathers è lo storico canadese, quasi centenario ma vivente, William H. McNeill che è quasi impubblicato in Italia. Di suo c’è solo un La peste nella storia (Res Gestae, 2012) dove McNeill analizza l’importanza che la circolazione di virus e batteri ebbe nella storia umana. Il libro originale di McNeill è del 1976 mentre il più noto Armi, acciaio e malattie del tanto celebrato J. Diamond, basato sulle stesse dinamiche, è del 1997 e quindi questo discende da quello[1]. L’assunzione dell’epidemia della peste nera della metà del XIV secolo in Europa come fattore scatenante della lunga transizione dal Medioevo alla Modernità è tesi da noi più volte riproposta. Le sue due opere più note, veri pilastri della world history, The Rise of the West. A History of Human Community (1963) e The Human Web (2003), scritto assieme al figlio (J. R. McNeill), in Italia attendono ancora un editore. Su di lui, c’è almeno una meritoria presentazione critica ad opera di F. Leonardi e L. Maggioni, edita da Rubettino (2015), per farsi un’idea generale su questo storico che ha aperto un intero, nuovo campo. Per gran parte di ciò che su lui diremo attingeremo a questo studio critico.
Sulla world history ritorneremo con un articolo specifico a sintesi di un piccolo studio che stiamo conducendo. Mossa dall’accompagno al movimento della globalizzazione, disciplina narrativa inizialmente ma ancor oggi per la gran parte statunitense, spazio d’indagine e riflessione sullo spazio-tempo mondiale che affianca le relazioni internazionali e la geopolitica oltre che la storia economica mondiale e la geo-storia à la Braudel, la world history ha in G. B. Vico e in J. G. Herder i suoi ideali precursori, in O. Spengler, A. J. Toynbee e P. Sorokin gli ideali continuatori, e proprio in W. H. McNeill, allievo (critico) di Toynbee, ed I. Wallerstein, allievo di F. Braudel, i veri e propri fondatori. Ma una qualche vocazione ancora più antica si può rintracciare nel greco Erodoto (V secolo a.e.v.), nel cinese Sima Qian (II-I secolo a.e.v.), nel magrebino Ibn Kaldhun (XIV secolo e.v.), il che risuona con la vocazione della materia ad allargare i confini temporali ed anche quelli spaziali.
La world history ha ancora uno statuto epistemico e metodologico in formazione. Connessa alla big history, storia del Tutto dal Big Bang ad oggi (D. G. Christian) e differente dagli studi di storia comparata per l’intento più olistico e decisamente critico ad ogni, forse inevitabile, “centrismo” ovvero presupposto influente di un metro di giudizio che poi si rivela quasi sempre euro-occidentale, la world history è metodologicamente orientata a dare molta considerazione alle relazioni. Corre il sospetto possa esser mossa dalla volontà di dare tradizione alla rete degli scambi che chiamiamo globalizzazione, ma di contro non si può non convenire che, in ottica complessa, le “relazioni tra” ovvero le inter-relazioni, fanno ontologia al pari degli oggetti, delle varietà, delle cose, dei costituenti elementari. E del resto, l’idea del “doux commerce” à la Montesquieu ha una parte ideologica nell’interpretazione, ma come fatto è innegabile e sin dal Paleolitico più profondo dato che in archeologia si sono trovate diverse cose a distanze tali dal loro luogo natale e naturale da presupporre reti di scambio, tra l’altro incredibilmente estese.
Relazioni umane, commerciali, culturali, biologiche, tra aree, tra civiltà, a breve, media e lunga distanza, molto o poco intermediate, tessono una rete dell’umanità a maglie larghe che poi tendono a restringersi sempre più nel tempo. Ne consegue una ontologia regionale (cioè propria del contesto dello studio storico) fatta di civiltà (Spengler, Toynbee) o sistemi (Wallerstein e la scuola del F. Braudel Center di New York a cui si può ricondurre A. Gunder Frank e Samir Amin che leggono soprattutto i sistemi economici ed a cui si può connettere anche G. Arrighi) o reti (W. H. McNeill) e relazioni complesse (cooperative-competitive) tra queste entità.
Nella visione reti e relazioni di McNeill, il prima dell’età assiale è fatto da piccole città dedite per lo più al commercio e costituenti esse stesse una rete di scambi, da campagna in cui si sviluppò l’agricoltura che ha in origine stanzializzato l’uomo (potrebbe anche esser il contrario come da noi sostenuto in altri articoli ma lasciamo la questione da parte) e da agenti nomadi. Questi ultimi, hanno avuto diversi ruoli ma due in particolare: 1) hanno trasmesso idee, virus, merci, modi tessendo tra loro la rete delle reti che proprio nell’età assiale giungerà a manifestarsi nella notata sincronia creativa[2]; 2) hanno costantemente insidiato le campagne e le città (rapendo, rapinando e distruggendo), spingendo le due stanziali, più di quanto già non fossero, ad unirsi in reti locali (proto-Stati, poi imperi) da cui nascono in maniera formale e non più vaga, proprio le civiltà che daranno poi voce alla propria auto-comprensione (pensiero che pensa se stesso nella originale formulazione aristotelica poi ripresa da Jaspers ma prima da Hegel a culmine del sistema dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche) nelle più alte manifestazioni culturali del periodo assiale. Campagna-città vs. nomadi è il pattern che i primi chiameranno civiltà vs. barbarie, il nomade è il barbaro tanto in Occidente, quanto in oriente, poiché la storia l’hanno scritta gli stanziali. Il dopo l’età assiale continua questa dialettica con fasi alterne in cui i barbari segnano due momenti di gloria (“gloria” relativamente ad un loro supposto punto di vista): la distruzione della civiltà greco-romana e l’invasione di tutto l’Occidente, da cui, ricordiamolo, nasceranno lo spirito franco-germanico, quello anglo-sassone, quello scandinavo-vichingo ma anche quello meno noto iberico-goto e l’orda mongolica (ma poi anche turco-altaica ed in Asia, quella mancese) che premerà su i confini occidentali ma anche sull’islam e viepiù sulla civiltà cinese, sovrapponendosi come strato costitutivo di quest’ultima.
I nomadi (ed i semi-nomadi che ne sono sotto-sistema) provengono dal profondo passato e sono il nostro stesso “come eravamo” più antico, un “come eravamo” che avendo agito per lungo tempo nel registro pre-storico, ha determinato molta selezione caratteriale, i cui risultati confliggono oggi con altri caratteri, propri invece della formazione stanziale e macro-gruppale, che è poi la condizione estesa dell’umanità contemporanea. Il civile incorpora la sua anima barbara, da cui molti conflitti psico-antropologici, così come nel cervello a tre-strati di MacLean. Nella cosiddetta “ipotesi indoeuropea”, ipotesi a lungo rimossa e rifiutata, ancor oggi incerta e sebbene io non segua da tempo l’aggiornamento degli studi specifici e quindi non in grado di dettagliarne gli aggiornamenti, ormai accettata anche se ancora con statuto incerto, questa centralità dei nomadi euroasiatici che avrebbero essi stessi tessuto l’ecumene da cui la rete delle reti dell’umanità di McNeill, dice che anche prima del prima dell’età assiale, i nomadi furono modellatori di storia[3]. Fu probabilmente questa dinamica del movimento, ancora più antica degli indoeuropei, a determinare quel risultato, accolto con sollievo e sorpresa, con cui gli studi genetici di Cavalli Sforza hanno dimostrato, a livello di biologia molecolare, che le razze non esistono[4] e la nostra varianza genetica è davvero minima, appena un po’ più significativa tra africani e tutti gli altri popoli dell’Eurasia, della Americhe e dell’Oceania. Accoppiandosi nel lungo tempo, tutti con tutti, la varianza genica si è annullata. Ma se le razze non esistono ma esistono le differenze tra i popoli (le differenze socio-culturali non quelle della genetica dell’aspetto che sono semplici e limitati adattamenti all’ambiente locale come gli occhi a mandorla, i capelli biondi e la pelle olivastra), molte di queste differenze sono state determinate da una complessa dialettica tra speciazione geografica ed interrelazione a medio-lungo raggio, nonché dalla continua frizione tra stanziali e nomadi. I primi crescenti (stanziali) ed infine vincenti hanno lentamente occupato tutti i territori determinando, anche solo per massa critica, il soffocamento dei secondi (nomadi).
Ma i secondi, precipitando ricorsivamente sui primi, non solo ne hanno stimolato il discontinuo cambiamento ma ne hanno, poi, in molti casi, assunto anche la leadership diventandone spesso l’élite di potere. Anche solo la continua frizione, poi, è stata motore di quella corsa a gli armamenti che retroagendo sulla tecnica ha portato benefici secondari anche non strettamente di tipo bellico. È dagli iberico-goti che discende l’aristocrazia spagnola e portoghese che lancerà la modernità con le imprese di Colombo, Magellano, Vasco de Gama, Bartolomeo Diaz, nomadi del mare; è dai franchi che discende quella francese poi formatrice del primo Stato-nazione; è dai germani danubiani che discende l’impero austro-ungarico prima e dai balto-svevi la Prussia poi; è sempre dai germani e dai baltici che discesero le leghe commerciali che poi fecero grande Amsterdam capitale del secondo capitalismo (secondo al primo italiano e precedente il terzo, inglese) nonché altra fonte di nomadismo marino che giungerà sino al Giappone; ed è puro spirito barbaro quello che informa la tradizione anglo-sassone poi assurta ai fasti dell’impero inglese prima ed a quello “informale” statunitense poi. Ma nomadi erano anche le tribù a cui un commerciante, quel Muhammad che molto apprese seguendo lo zio in Siria, diede “la religione che fa il popolo” mutuando forse l’idea da quell’altro popolo senza terra che s’era definito proprio e solo per la condivisione della religione, dell’essere uno (popolo) perché si è figli dell’Uno (dio), gli ebrei. E nomadi centro-asiatici erano d’origine anche i turchi poi convertiti all’islam che fecero l’impero ottomano così come nomadi erano state le élite indoeuropee che avevano sottomesso i dravidici in India, ponendo quel sistema delle caste di cui loro erano il vertice e gli altri, gli intoccabili. Infine, nomadi furono anche gli unni siberiani e le dinastie mongole e mancesi che dominarono il celeste impero per più di tre secoli e mezzo.
I rapporti tra stanziali (agricoli ed urbani) e nomadi (pastori, ex cacciatori) non furono sempre e solo di conflitto. Spesso i nomadi furono anche commercianti e quindi in dialogo con gli stanziali, dialogo che favorì l’impollinazione culturale, la diffusione, l’irradiazione. Venditori e compratori, la sera seduti davanti al fuoco, si sono scambiati chissà quante narrazioni, sogni, misteri, interpretazioni[5]. Altre volte, proprio verso la fine del nomadismo per pura mancanza di spazio, gli urbani in genere più ricchi ed ormai a capo di sistemi più grandi come gli Stati o gli imperi assunsero i nomadi come soldati o come polizia interna per controllare gli agricoli che sono gli unici, veri comunitari con tendenza al pacifismo e a costruzioni mentali più materiali o spiritual-naturali, tanto quanto gli altri tendono alla gerarchia bellica ed alle costruzioni più meta-fisiche. Non è un caso che il Male sia l’agricoltore cioè Caino e la vittima (il Bene secondo una partizione che gli ebrei formalizzarono probabilmente nel soggiorno babilonese, influenzati dai sacerdoti zoroastriani) sia il pastore, cioè Abele, dato che la narrazione origina da popolo di pastori, quindi nomadi (o semi-nomadi). È poi bizzarro constatare che il nocciolo del monoteismo che oggi conta più del 50% di adepti nel mondo fosse dal punto di vista nomade quando i suoi credenti sono tutti stanziali. Anche l’altro corno monoteistico, l’islam, sura V. Al Ma’ida del Corano, ne riprenda e ribadisce i temi[6]. Sin dalla elevazione di un dio su gli altri, movimento che forse iniziò all’interno della cosmo-teologia indoeuropea con la superiorità del dio celeste (che poi incontrerà e sottometterà la dea terricola, spedendola sottoterra), i monoteismi riflettono quel dominio maschile, guerriero, metafisico che è parte della più tipica tripartizione culturale dei nomadi. E non è quindi ancora un caso che ebrei e musulmani originino entrambi anche da forti tradizioni commerciali, l’altra faccia del reticolo nomade, come l’élite anglosassone del “libero scambio” che oggi domina l’Occidente. L’intera impresa monoteistica, propria dell’età assiale, va a cementare addensamento ed Uno sopra un precedente di dispersione e di Molteplice riflesso nei vari politeismi, la formazione delle civiltà condensa precedenti reti a maglie larghe. Questa transizione verso comunità più grandi del raggio immediato provocherà l’esplosione delle riflessioni etiche (Confucio), esistenzial-escatologiche (India), sulle norme sociali ed il destino (Avesta, Antico Testamento), sul posto dell’uomo nel vasto mondo anche di tipo scientifico e politico (greci), più o meno tutti con il ricorso ad una qualche garanzia trascendentale (il Cielo, uno o più dei, le Idee, il motore immobile). La ricca esplosione assiale, registra la rottura dei precedenti ordini larghi ed all’interno dei nuovi ordini stretti, s’interroga sul nuovo posto dell’uomo nel mondo.
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La progressione delle fasi nella abitazione umana del pianeta segna tratti sempre più brevi delle sue diverse configurazioni in ragione della sempre maggiore densità abitativa che nell’ultimo secolo ha compiuto un balzo geometrico (quattro volte di più) ed in ragione anche delle aumentate interrelazioni. L’intensificazione delle interrelazioni è stata naturale dato l’aumento degli umani e dei loro sistemi sociali e politici ma si è poi ulteriormente potenziata col fatto che prima solo nell’Occidente, poi nel mondo intero, si è adottato un modo economico fortemente dipendente da gli scambi. In più ed in conseguenza di tutti i fattori, il salto tecnologico che ha moltiplicato potenza e velocità delle possibilità di contatto e degli scambi stessi. È naturale, allora, sia la rottura di tutti gli ordini precedenti (da cui il crollo dell’ordine internazionale dell’89, la nuova guerra fredda USA vs. Russia-Cina, il riassetto mediorientale, la crisi ontologica europea), sia quel senso di accelerazione della storia a cui stiamo assistendo, interdetti e preoccupati.
Ma l’esaltazione per la scoperta ed il ruolo delle interrelazioni non deve far perdere di vista i sistemi che partecipano alla creazione e diffusione delle nuova rete dell’umanità. Questi sistemi cercano le interrelazioni o ne sono soggetti ma non importano solo ordine (idee, merci, materie), più spesso anche disordine (idee, virus, interessi divergenti, novità destabilizzanti) e quindi a volte si aprono del tutto fiduciosi per poi ritrarsi nell’auto difesa. Proprio gli ultimi sessanta anni vedono moltiplicarsi per quattro gli Stati del mondo, Europa e Medio oriente si fratturano lì dove si era giunti ad una qualche unità di ordine superiore (Jugoslavia, nuovi indipendentismi, Siria-Iraq), il “popolo” concetto dai contorni vaghi, spaventato dal disordine globale sta reclamando nuove autonomie di nuovo in Europa ma forse presto anche in Africa e nelle tormentate e liquide terre euroasiatiche (Caucaso, centro-Asia). Dei due principali contraenti il progetto di intensificazione intenzionale della globalizzazione, Stati Uniti e Cina, i primi sembrano voler rimbalzare ed alzare i muri di una nuova coesione occidentale, un nuovo West vs. the rest, tra l’altro proprio contro i secondi che invece, con il doppio filo della vie della Seta (terrestre e marittima), vorrebbero tessere una nuova trama euroasiatica fitta e sempre più intensa.
La Penelope statunitense, di notte, cerca di sfilacciare la trama tessuta della Penelope cinese di giorno. Le civiltà, avvertite del pericolo di dissolvimento in un ecumene indifferenziato e riconsiderate dai sottostanti popoli spaventati dal nuovo disordine globale, rispolverano le identità. L’islam prende posture di chiusura similmente a quanto fece già nel XII secolo dopo la gloriosa stagione abbaside, l’India storicamente tollerante riscopre la sua identità religiosa esclusiva, i cinesi rispolverano Confucio, i russi la conflittuale identità spiritual-ortodossa, i sudamericani si emancipano dall’occidentalismo e gli africani, in potente crescita demografica, non tarderanno a sedersi al tavolo delle rivendicazioni identitarie dovendo recuperare veri e propri secoli di ritardo nel processo di auto identificazione. Gli europei, non hanno potuto più di tanto lamentarsi della globalizzazione poiché, in quanto colonia statunitense, sono stati arruolati nella costruzione attiva del processo (più che altro le loro élite) ma di fronte ai nuovi nomadi delle migrazioni rischiano di rimbalzare anche loro nel rifugio identitario con l’aggravante di non saper più neanche bene dove ritrovarla l’identità, visto che alla tiritera giudaico-greco-cristiana andrebbe aggiunta la franco-anglo-americana-tecno-scientifica in un costrutto che più che un’identità sembra un politeismo dei valori organizzato da un dadaista. In breve, la nota dialettica cooperazione-competizione, mossa a sua volta dagli ordinatori economici e militari, sembra sul punto di invertire i suoi fattori rallentando la corsa all’unificazione economico-cosmopolitica e riprendendo il radicamento nel guardingo nomos della terra.
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Teniamo questo discorso aperto, ci torneremo su nella ricerca che stiamo facendo su questo nuovo modo di fare storia che è la world history. Diciamo solo che per quanto gli storici indaghino società, sviluppo delle reti commerciali, civiltà e Stati, incluso il ruolo essenziale che l’ordine militare ha avuto nello scrivere i volumi dell’enciclopedia storica (ad esempio nella formazione europea) e ben attenti a leggere l’imprescindibile contesto geo-ambientale, pur essendo validamente coadiuvati per il presente dagli studiosi di relazioni internazionali e geopolitica, per quanto gli economisti siano oggi più che ben informati sulle molteplici dimensioni dell’ordine economico planetario ed alcuni storici (ad esempio Pomeranz) abbiano chiarito la relatività del dominio occidentale nella storia economica dei secoli passati, sebbene sociologi e storici della cultura sappiano delle molteplici sfaccettature del cristianesimo, dell’islam, dell’induismo e del confucianesimo e gli antropologi siano ben avvertiti della molteplicità e quindi relatività culturale, mancano ancora due cose per sviluppare ulteriormente il discorso sul sistema-mondo. Una è una conoscenza propria delle culture, che non possono essere ridotte alla religione, né all’economia. Il discorso sulle culture umane, intese nel senso certo materiale e sociale ma anche in quel più sfuggente senso che è la mentalità, le immagini di mondo esplicite ed implicite, la tradizione del pensiero non sempre autoevidente nell’indagine dei testi o dell’arte, dei modi del pensiero collettivo, è un discorso ancora non approfondito neanche qui da noi, da occidentali per occidentali[7].
L’altra è l’improbabile eppur necessaria capacità di maneggiare tutte queste linee di conoscenza intrecciate tra loro, fuori dagli steccati disciplinari contro i quali, qui spesso argomentiamo. Come minimo, una vera world history non potrà inizialmente che essere opera collettiva a più menti e più voci, non solo di diversi studiosi ma anche, e soprattutto, di diversi studiosi di diverse aree del mondo. Solo fari incrociati da più punti di vista ci chiariranno al meglio cos’è bordo della cosa e cosa è sua ombra, ombre dovute ai nostri punti ciechi e dalle nostre pre-comprensioni anche inconsce che ci condizionano solo per il fatto di esser nati e vissuti solo da “qualche parte” dell’immenso oggetto che abbiamo in esame, il mondo. Mondo che ha parti ma non può essere trattato “in parte”.
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Saltiamo senza conseguenza logica e con le cautele del caso alle previsioni, o meglio alle prescrizioni o forse solo ai desiderata sugli sviluppi della nostra vita nella grande casa comune. Vediamo prima quelle dei McNeill padre e figlio, come le hanno espresse nel finale della comune opera de La rete umana del 2003. McNeill figlio vede una filosofia della storia del mondo e soprattutto dell’uomo che lo rende vivo (sarebbe vivo anche senza l’uomo, anzi forse di più data la nostra tendenza a ridurre biodiversità, ma senza l’uomo non sarebbe pensato e raccontato) come una «evoluzione da un identità semplice alla diversità, verso una identità complessa». Più interessante ed argomentata quella del padre, almeno secondo le fonti a noi note. McNeill padre vede profilarsi catastrofi grandi e piccole ma con una insospettata resilienza e capacità di ripresa dell’umanità. Ma poi si butta sul giudizio prescrittivo: «… penso che abbiamo bisogno di comunità primarie, basate sulla conoscenza faccia a faccia, per avere una convivenza a lungo termine». Comunità simili a quelle degli antenati in cui vigevano significati, valori ed obiettivi condivisi. Il problema è come far convivere questo ritorno al piccolo sistema non tagliando le complesse interrelazioni che lo legano e sempre più lo legheranno alle vocazione sempre più cosmopolitiche globali spinte dalle nostre necessità di ricchezza e potere che creano l’ordine necessario alla nostra vita, individuale e collettiva, nel complesso scenario-mondo. Come non perturbare troppo queste reti macro e come non farsi perturbare troppo da loro nel necessario micro che dobbiamo ricostruire. Una simbiosi degli ordini a vari livelli assai difficile e problematica ancorché necessaria. Un ordine dinamico delle intenzionalità umane coordinate su piccola e larga scala.
Ce n’è abbastanza, ci sembra, per cooptare McNeill nella vasta e variopinta comunità del pensiero complesso. Questo appello alla dimensione faccia a faccia ben lo conosciamo, è il principio primo del funzionamento di quell’ordine politico che a sua volta si fa ordinare da quella che chiamiamo democrazia diretta. Non so come McNeill argomenti nel suo finale di libro ma da tempo anche chi scrive si è convinto che queste comunità aperte, queste “monadi con porte e finestre” sono l’unità base essenziale per scomporre il macro in micro e farlo funzionare sia nel micro che nel macro, di farlo cioè funzionare come “complesso”. Siamo convinti ne fosse convinto anche Leibniz, il divulgatore del bizzarro concetto di monade, che proprio il concetto di monade sia necessario come unità in cui si riflette il tutto ma a differenza di Leibniz che doveva salvaguardare il ruolo di dio, ed era anche in opposizione al pantesimo democratico di Spinoza, pensiamo che siano fatte di parti e che debbano avere porte e finestre per avere interrelazioni con le altre monadi e per sprigionare intenzione, perché solo il concerto auto-organizzato delle libere volontà reciprocamente limitate ma consapevoli può organizzare il complesso umano che ahinoi è molto più complesso di quello naturale avendo a che fare con enti consapevoli ed intenzionali.
La rete naturale delle monadi aperte[8], delle comunità del faccia a faccia, è il sistema che in terminologia politica si chiama federazione, che come studiava un altro pensatore delle relazioni tra sistemi umani, Lewis Mumford, nell’antica Grecia si chiamavano anfizonie. Probabilmente le anfizonie, reti di tribù e prima di clan, esistevano sin dal Paleolitico profondo ma la mancanza del concetto di interrelazione nella nostra metafisica influente le ha rese invisibili allo sguardo delle nostre indagini che tendevano a trovare tradizioni alle gerarchie ed alla composizione clan-tribù-regno-Stato-impero-governo del mondo, in pieno delirio semplificatorio, analogico, teleologico.
Siamo già troppo lunghi per approfondire questo ultimo discorso che è molto complesso, inedito, per quanto fondamentale per aprirci ad un nuovo modo di stare al mondo, ora che il mondo lo abbiamo cambiato radicalmente sebbene i più ne siano poco consapevoli davvero e continuino a ragionarlo non solo col pensiero di qualche secolo fa ma addirittura con invisibili presupposti della mentalità di qualche migliaio di anni fa. Con la modernità, non finisce solo un’era corta quattro secoli ma anche l’era di più lunga durata che si inaugurò con quell’assiale esplosione riflessiva. Ricordiamo solo che l’età assiale non fu scevra di guerre devastanti, di sofferenze ed ingiustizie diffuse ma che proprio ed in reazione a questo “momento di massimo disordine creativo” uscì quella impressionante catena di pensatori e di ispirati che condizionò poi la storia delle civiltà dei secoli e millenni successivi. Alla fine del secondo millennio e.v., le onde cavalline che hanno corso a lungo per arrivare a lambire tutto lo spazio umano del pianeta hanno incontrato il loro obiettivo. Ora, c’è da aspettarsi il loro rimbalzo, il ritorno dell’eco che dice che il mondo è un ente finito e la nostra vita ha limite in questo ed in quello che ci pone l’Altro. Speriamo con il Vico, nei corsi ma anche nei ricorsi storici. Speriamo senza certezze, di essere alla vigilia di una nuova primavera del pensiero che s’interroghi su come stare al mondo, in quel mondo che è diventato qualcosa di profondamente nuovo e diverso da ciò che è stato nel passato. Magari rinunciando a quella antica garanzia del trascendentale o a quella moderna sulle presunte ed inesistenti leggi “scientifiche” della natura umana. Mettendoci semplicemente e con responsabilità faccia a faccia a decidere assieme del comune destino.
Pubblicato sul blog dell’autore il 26 gennaio 2016.
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Note
[1] La famosa “scoperta” di Diamond che quindi fu solo una brillante divulgazione di una tesi precedente, appunto di McNeill, era che i pochissimi spagnoli che aggredirono e sottomisero i popoli amerindi ben più corposi non vi riuscirono per chissà quale aiuto della provvidenza o genialità euro-nativa ma per il semplice fatto che sterminarono quelle genti attraverso il contagio di virus e batteri per i quali gli amerindi non avevano difese immunitarie. A sua volta, l’immunizzazione spagnola, proveniva dalla lunga trasmissione di virus e risposte immunitarie, dovuta alle interrelazioni nel più vasto e vario ecumene euroasiatico.
[2] Se via siano stati o no, contatti tra aree che abbiano in un certo senso “trasmesso” input tra la Cina e la Grecia, attraverso cosa o chi ed in che misura è questione altamente speculativa. Avendo frequentato diversi campi d’indagine (linguistica, archeologia, paleo e non antropologia) ho notato questo: la maggioranza degli studiosi che si sono concentrati anche in studi comparativi ma che più che altro hanno fatto indagini sulle origini sono per la stragrande parte convinti vi siano stati sistematici contatti tra aree umane del pianeta sin dal tempo più profondo. Altri studiosi non hanno fatto indagini o analisi specifiche di modo da sostenere il contrario, più semplicemente assumono come dato a priori che la civiltà che studiano (in genere quella occidentale ma per certi versi lo hanno fatto anche i cinesi; l’etnocentrismo è la cosa più condivisa al mondo secondo Levy Strauss) è causa sui. Da noi, la questione è particolarmente visibile a proposito dei greci. L’auto-celebrazione dello spirito occidentale celebra i greci col termine “miracolo” proprio perché è altrimenti difficile spiegarne l’incredibile esplosione culturale. Basta però andarle a cercare e le interrelazioni influenti con egiziani, fenici, anatolici e mondo asiatico compaiono abbondanti e decisamente fondanti.
[3] La questione sull’ipotesi indoeuropea è un giallo col finale ancora aperto. Da una parte l’approfondita constatazione effettuata negli studi di linguistica, che tutte le lingue europee (salvo alcune enclave minori) mostrano una possibile, pregressa, radice comune. Dall’altra questa stessa radice spiegherebbe il perché si trovino caratteri espressivi simili comparando l’ambito europeo con quello del sanscrito-indiano. Fattori di struttura culturale e delle credenze e qualche più incerto indizio archeologico sosterrebbero l’idea che vi siano stati popoli, probabilmente originari del centro euroasiatico, che ad un certo punto e per ragioni sconosciute sciamarono violentemente e in direzione Europa e in direzione India, via Afghanistan-Pakistan, ma forse anche in Tibet ed anche in Cina.
[4] Sollievo perché dopo la sbornia del XIX e XX secolo, l’aver vaporizzato il concetto di razza ha dato l’impressione si fosse eliminata del tutto la base di possibili “cattivi pensieri”. Ma se l’implicito è la convinzione che i caratteri socio-culturali abbiano una base genetica, non esistendo apprezzabile differenza genetica, concludiamo che non esistono differenze socio-culturali? No, non esistono basi genetiche dei caratteri socio-culturali ma le differenze rimangono. Si forma così un buco terminologico, poiché se, come spesso accade, l’Altro da noi non ci piace immediatamente ed anzi ci mette un po’ in allarme, non possiamo dirci razzisti (poiché effettivamente le “razze” non esistono) ma potremmo dirci “altro-fobici” o altro termine da inventare. Su “come vivere assieme non avendo nulla in comune” si veda l’ introduzione di Raniero Regni alla riedizione dell’opera di Jaspers per Mimesis che s’interroga anche sul nostro stesso titolo.
[5] Vi sarebbe poi da indagare il ruolo delle donne. Negli studi di Cavalli Sforza, se ben ricordo, emergeva come fosse stata proprio l’esogamia diffusa il primo motore della redistribuzione della varianza genica. Ma donne che sposano stranieri (o date in spose date i costumi antichi sebbene non antichissimi, pare) o rapite, sono state anche ed a loro volta agenti impollinatori, trasferendo la cultura d’origine dentro i nuovi contesti e nelle zone liminali, insegnando ai figli quelle lingue madri che si sono poi fuse con le lingue padri generando varietà culturale.
[6] Gli ebrei poi avevano negli agricoltori antico-palestinesi i nemici con cui contendere la terra ma i musulmani, vivendo e provenendo inizialmente dal deserto, negli agricoltori siro-mesopotamici ebbero solo vicini da conquistare.
[7] Per fare un esempio di ciò che s’intende, prenderei F. Jullien. Jullien è un filosofo francese ma anche un sinologo che ha condotto un lungo lavoro di trasduzione dei presupposti logico-metafisici alla base del mondo cinese e di quello occidentale. Non è solo studio di culture comparate, è studio dei presupposti logico-linguistici-gnoseologico-normativi ovvero analisi comparata delle due sale macchine da cui originano le due famiglie storiche dell’essere e del pensare occidentale o cinese. Per fare un esempio: F. Jullien, Strategie del senso in Cina ed in Grecia, Meltemi, 2004. È da queste sale macchine che origina l’immagine di mondo a cui noi spesso ci riferiamo e vi si riferì anche Jaspers con un apposito libro (1919).
[8] Le monadi per il Leibniz non avevano “né porte, né finestre” erano cioè strutturalmente impedite ad avere reciproche relazioni. Riuscivano a coordinarsi sincronicamente in una armonia prestabilita da Dio, perché ognuna di esse rifletteva al suo interno l’intero mondo. Sulla genesi del concetto di monade: pagine 107 e 108 della Monadologia di Leibniz, Bompiani, 2001.