di Enrico Grazzini e Thomas Fazi
Di fronte all’attacco speculativo verso le banche italiane occorre che si formi un polo bancario pubblico in grado di portare l’Italia fuori dalla crisi. Cassa Depositi e Prestiti dovrebbe intervenire per nazionalizzare MPS e cominciare finalmente a finanziare l’economia reale e l’occupazione.
È ormai chiaro agli operatori di mercato e ai commentatori economici più avvertiti ed esperti che la caduta del valore di borsa delle banche italiane non è avvenuta per caso e neppure per un puro evento speculativo. Si tratta invece di un vero e proprio attacco – anche politico – al sistema bancario italiano deciso a Berlino e a Bruxelles. Politica e finanza sono strettamente collegate, e, come dimostrano in maniera evidente anche gli ultimi scandali di Volkswagen e Deutsche Bank, la guerra economica non prevede esclusione di colpi, fuori e dentro l’Europa, anche (e forse soprattutto) tra i partner della zona euro.
Attualmente nel mirino ci sono soprattutto le banche italiane, cioè il risparmio degli italiani. Vale a dire 1.700 miliardi di euro, una somma pari a poco più del 100 per cento del PIL nazionale, custoditi dai nostri istituti di credito. È noto però che le banche italiane hanno 360 miliardi di crediti – poco meno di un quinto dei prestiti totali – non recuperabili o comunque a rischio, e questo rappresenta il loro grande punto debole e un varco amplissimo per il capitale estero.
Dopo che gran parte del sistema industriale italiano è migrata o sta migrando all’estero – vedi Fiat, Pirelli, Alitalia, Parmalat, Indesit, Italcementi, Ansaldo Breda, Telecom Italia in mano ai francesi, Ilva in vendita al miglior offerente, ecc. – ora è il sistema bancario nazionale sotto attacco. In palio ci sono circa 1.700 miliardi di depositi dei risparmiatori italiani. Un bottino enorme per fondi speculativi, banche d’affari internazionali, giganteschi fondi pensione, fondi sovrani cinesi e arabi e finanziarie di ogni tipo.
Se le banche non risolveranno il problema dei crediti deteriorati saranno costrette ad attuare cospicui aumenti di capitale. Ma in Italia il capitale scarseggia: manca il capitale privato e non ci sono giganteschi fondi pensioni come all’estero, dove hanno privatizzato tutto il sistema pensionistico. Le fondazioni bancarie – che sono gli unici azionisti semi-pubblici e non speculativi che finora sono riusciti a fronteggiare la concorrenza estera – si sono già svenate per gli aumenti di capitale che hanno dovuto sostenere per affrontare la crisi dai subprime in poi: non possono quindi intervenire più di tanto.
Potrebbero allora essere gli operatori stranieri – che possiedono già più di metà della borsa italiana – a conquistare a basso prezzo le banche italiane svalutate, e quindi il risparmio degli italiani. MPS è la prima banca a rischio, perché non ha più un socio stabile di controllo. Uno dei maggiori azionisti – entrato dopo la scandalosa crisi dei derivati di MPS – era fino a qualche giorno fa il brasiliano André Esteves, il capo della più grande finanziaria sudamericana, BTG Pactual. Ma Esteves, però, si è ritirato dopo che è finito nelle carceri del suo paese per lo scandalo Petrobras. MPS è quindi pronta per altri raider.
MPS è la terza banca in Italia dopo Unicredit e Intesa, ha molte sofferenze (25 miliardi circa) ma è già ristrutturata e con un futuro abbastanza promettente come banca nazionale e territoriale. E ha già lo Stato come suo azionista (4 per cento del capitale). Lo Stato, via Cassa Depositi e Prestiti, potrebbe prendere il controllo della banca investendo solo circa 300 milioni (più o meno il 15 per cento del suo valore di borsa) per metterla al riparo da altri raid finanziari, e magari integrarla con un altro polo bancario, come il Bancoposta o UBI. Sarebbe un buon affare investire in MPS, come ha riconosciuto anche il premier Matteo Renzi. Perché quindi lo Stato non dovrebbe investire? La Cassa Depositi e Prestiti, a differenza dello Stato, non ha vincoli stringenti di debito e potrebbe affrontare abbastanza facilmente l’operazione finanziaria.
Molti però in Italia sono contrari all’intervento dello Stato nelle banche: e non sono solo i liberisti più sfrenati che – dalla Thatcher e da Reagan in poi – vedono lo Stato ed il welfare come una bestia da soffocare, ma anche parte dell’opinione pubblica e degli economisti di sinistra. Tuttavia l’intervento dello Stato è auspicabile e necessario, certamente non per salvare le banche in perdita ma per cambiare il sistema bancario e, in certi casi, il management fallimentare e corrotto. Non si tratta di socializzare le perdite e di privatizzare i profitti, ma di creare un polo di proprietà pubblica per finanziare l’economia reale. Un polo pubblico anche in Italia, come ci sono già in Germania e Francia. Le potentissime casse di risparmio tedesche sono istituti di diritto pubblico, dominano il mercato nazionale e sono partecipate e ultra-garantite dagli Stati regionali (Land).
Purtroppo la sinistra italiana è spesso più liberista dei liberisti. Ma occorre prendere atto di un semplice fatto: in ogni crisi bancaria lo Stato è sempre dovuto intervenire direttamente o indirettamente. I cittadini e i contribuenti pagano sempre per le crisi bancarie, purtroppo. Nella crisi dei subprime senza il pronto intervento della Fed il sistema bancario statunitense sarebbe subito fallito; e senza l’espansione monetaria della BCE le banche e gli Stati dell’eurozona sarebbero già in default. Il governo americano e quello britannico hanno speso centinaia di miliardi per nazionalizzare le banche sull’orlo del fallimento. Non ci si può illudere: lo Stato è e deve per forza essere attivo nelle crisi bancarie. Il problema è se interviene solo per socializzare le perdite o se invece costruisce un polo pubblico per finanziare l’economia reale e la ripresa dell’occupazione.
In Germania lo Stato ha salvato qualche anno fa le principali banche nazionali mettendo sul piatto 260 miliardi di euro, oltre che le garanzie pubbliche per altre migliaia di miliardi. La Spagna si è salvata dalla crisi bancaria grazie a una bad bank pubblica con garanzie per decine di miliardi. Ma, a differenza di quella italiana, la bad bank spagnola è stata benedetta dalla Commissione europea (l’ex premier Rajoy è un democristiano come Merkel, mentre Matteo Renzi appartiene al partito socialista europeo). Per quanto riguarda l’Italia, dopo estenuanti trattative, il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan e la commissaria danese alla concorrenza Margrethe Vestager hanno finalmente stabilito una garanzia pubblica leggerissima – cioè quasi inutile – per i potenziali buchi bancari italiani.
C’è da chiedersi, tra l’altro, se viviamo ancora in democrazia se è l’ex vice premier della Danimarca – uno Stato che non partecipa neppure all’euro, e che ha deciso di spogliare dei loro beni i rifugiati che entrano nel paese – a decidere per il nostro sistema bancario. E c’è da chiedersi perché l’Unione europea e Berlino – che hanno provocato direttamente e colpevolmente la crisi bancaria italiana con le loro politiche di folle austerità, facendo fallire decine e centinaia di migliaia di aziende e mettendo in ginocchio migliaia di famiglie – ci impediscono ora di intervenire per difendere il risparmio degli italiani. Non è questo un attacco diretto al nostro risparmio e alla Costituzione che tutela esplicitamente il risparmio nazionale?
L’unica possibilità che un governo coraggioso e responsabile dovrebbe intraprendere è che lo Stato diventi azionista stabile, via CDP, di un polo pubblico bancario. Tra l’altro sarebbe una scelta del tutto conforme ai trattati europei: quando lo Stato diventa azionista di una banca al pari di tutti gli azionisti non c’è “aiuto di Stato”. È questa la scelta che mostrerà da che parte sta veramente il governo Renzi. Ma come finanziare le iniziative dello Stato e della Cassa Depositi e Prestiti, dal momento che abbiamo il fardello di un enorme debito pubblico e che non disponiamo più di sovranità monetaria? È quello che vedremo nella prossima puntata di questo articolo.