Roma – Aderiremo all’euro “perché siamo obbligati”, ma “non vogliamo entrare in un meccanismo che dopo aver attraversato un decennio di difficoltà economiche chiede ancora rigore e austerità”. Tomasz Orłowski, ambasciatore della Repubblica di Polonia in Italia, spiega che il nuovo corso di Varsavia, con il governo di Beata Szydło accusato di autoritarismo ed euroscetticismo, non ha l’obbiettivo di una rottura con l’Ue ma punta a guadagnare un maggiore peso specifico. Non accetta imposizioni da Bruxelles e pretende più considerazione e la fine dei “doppi standard” denunciati anche dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. Nell’articolata intervista a Eunews, il diplomatico parla delle leggi polacche antidemocratiche per l’Ue, di gestione dell’immigrazione, di difesa di Schengen e frontiere comuni, senza tirarsi indietro sui rapporti con Mosca.
Ambasciatore, dall’ingresso della Polonia nell’Unione europea, nel 2004, il Pil del Paese è raddoppiato e sono triplicate le esportazioni. La vostra economia ne ha beneficiato molto. Eppure l’Ue, oggi, sembra stare stretta al nuovo governo.
L’ingresso nell’Unione europea ci ha permesso di ritrovare un collegamento all’identità politica e culturale che storicamente ci appartiene, e ci ha consentito di vivere una crescita economica importante. Abbiamo realizzato una trasformazione economica e sociale grazie alla quale siamo stati più forti anche di fronte alla crisi. Siamo stati tra i pochi Paesi a continuare a crescere anche durante la recessione. Adesso abbiamo al governo un partito conservatore che si definisce ‘eurorealista’, non ‘euroscettico’. Considera centrale la partecipazione all’Unione europea, ma ritiene che il peso specifico della Polonia non sia tenuto adeguatamente in considerazione.
Parla di identità politica e culturale europea, però l’Ue ha fatto per la prima volta ricorso alla tutela dello Stato di diritto – procedura che può portare alla sospensione del voto in Consiglio europeo – ritenendo che le vostre nuove leggi sul controllo dei media e sulla composizione della Corte costituzionale minino i principi della democrazia.
Riteniamo che la decisione di una richiesta di chiarimenti – precisiamo che siamo lontani dalla richiesta di sospensione del voto in Consiglio – sia stata presa in modo troppo facile. Nonostante questo, il fatto che il nostro presidente del Consiglio, Beata Szydło, si sia recata a Strasburgo per rispondere a tutte le domande degli europarlamentari è la prova che non vuole nascondersi. I nostri amici membri dell’Ue hanno diritto di esprimere critiche, anche se noi pensiamo non sia pienamente dovuto fornire spiegazioni su quelle decisioni. All’estero, l’intervento del governo è stato percepito come una volontà di modificare la composizione della Corte costituzionale, ma l’esecutivo ritiene di aver rimesso ordine sull’organismo più importante dell’assetto istituzionale, perché il partito al governo uscente, Piattaforma civica, aveva nominato 5 giudici poco prima della scadenza della legislatura. Una procedura normalmente inaccettabile. È stato un errore politico e lo ha riconosciuto anche un capogruppo della stessa Piattaforma civica.
A preoccupare è anche il controllo sui media. Il governo si è attribuito il potere di scegliere i vertici delle televisioni nazionali.
Sì, è così. Ma conosco altri Paesi che, pur facendo riferimento alla cultura democratica europea, fanno la stessa cosa. Non voglio ora puntare il dito su qualcuno in particolare, ma segnalo un problema più ampio: nell’Europa centrale c’è la sensazione che nell’Ue di oggi si usino doppi standard, si adottino due pesi e due misure.
Sta dando ragione al nostro presidente del Consiglio?
Sì, appunto. Diciamo praticamente la stessa cosa. Riteniamo ci sia un problema nella gestione dell’Europa a 28, dove pensiamo che le nostre idee non vengano tenute nella giusta considerazione.
L’asse con l’Ungheria, che si è opposta a ogni ipotesi di sanzioni contro il vostro Paese, vi fa recuperare un po’ di peso. Però sta rallentando il percorso di integrazione europea, ad esempio sulla gestione comune dei flussi migratori. Perché è un tema che incontra molte resistenze nel blocco dei Paesi dell’Est europeo?
L’espressione ‘blocco dell’Est’ non ci piace. Esisteva un blocco dell’Est quando c’era l’Unione sovietica, di cui siamo stati vittime. Con l’Ungheria c’è un legame storico e, insieme con Repubblica Ceca e Slovacchia – anche loro si sono pronunciati contro eventuali sanzioni alla Polonia – abbiamo formato il Gruppo di Visegrád perché non vogliamo due categorie di membership dell’Ue. Ad esempio, quando si fa un incontro dei Paesi fondatori della Comunità economica europea per discutere sul futuro dell’Ue, ci chiediamo perché questi Stati membri hanno il diritto di fare un dibattito escludendo gli altri.
Vogliono una maggiore integrazione, mentre altri reputano troppo stringenti gli attuali vincoli, come la gran Bretagna che parla di Brexit. Anche il governo polacco non sembra interessato a maggiori cessioni di sovranità.
La Polonia ha firmato il progetto di adesione all’Euro. Non diciamo che non vogliamo adottare la moneta unica. Entreremo nell’Euro perché siamo obbligati. Ma la Zona Euro vive una crisi profonda, e la Polonia non vuole entrare in un meccanismo che dopo aver attraversato un decennio di difficoltà economiche chiede ancora rigore e austerità. La moneta nazionale, durante la crisi, ci ha consentito di continuare a crescere grazie alla maggiore flessibilità della politica monetaria. È una ragione per dire che, finché la situazione nell’Eurozona non è chiara, noi preferiamo aspettare. Sono tanti gli statisti europei che in privato ci danno ragione. Noi ci prepariamo a entrare. Facciamo già parte dell’Unione economica e monetaria con il Fiscal compact e con la negoziazione sull’Unione bancaria, ma la decisione su quando entrare nell’Euro è rinviata se la moneta unica ha fondamenta che scricchiolano ancora.
Tornando alla politica migratoria. Non mi ha detto perché tante resistenze alla gestione comune.
Siamo popoli che non hanno una tradizione di accoglienza perché eravamo in condizione di oppressione o di povertà. Non attraevamo flussi migratori come invece i Paesi occidentali, quasi tutti potenze coloniali. Questa è una prima ragione. Poi, però, ci confrontiamo con una emergenza che viene dall’Est. Negli ultimi due anni abbiamo accolto un milione di cittadini ucraini, che non erano rifugiati ma migranti economici. Gestiamo un fenomeno che altri non pensano esistere. Ma gli ucraini sono nostri vicini, siamo più simili.
Sta dicendo che non volete la relocation dei siriani per motivi culturali?
Sì, in primo luogo per le differenze culturali. Poi c’è anche la questione della capacità economica del Paese. Sulle relocation, sosteniamo non debbano avvenire su base automatica ma volontaria. Fare qualcosa che Bruxelles ci impone, in Polonia, ha un effetto tragico. Non viene accettato. In ogni caso, ci siamo impegnati ad accogliere 7 mila profughi e questa decisione non è cambiata con il nuovo governo.
L’Italia lamenta la lentezza dei partner europei sulla redistribuzione dei richiedenti asilo. Siete disposti ad accelerare?
Dall’Italia è previsto l’arrivo di 100 profughi per quest’anno, ma la prima richiesta dal vostro Paese ci è arrivata la settimana scorsa, per un eritreo. Nei mesi passati non abbiamo avuto alcuna richiesta e dunque non abbiamo accolto nessuno. Poi, lei sa bene che i profughi non accettano di venire da noi, vogliono andare in Germania. Un’altra questione riguarda la prudenza, molto più alta dopo gli attentati di Parigi. Anche se il vostro presidente del Consiglio sottolinea che i terroristi del Bataclan sono nati e cresciuti in Europa, per la popolazione non basta. Dobbiamo rassicurare i cittadini che la migrazione non sia fonte di nuovi rischi. Sfortunatamente, i fatti di Capodanno a Colonia ha dimostrato che questi rischi ci sono. Per dare sicurezza dobbiamo trovare la capacità di gestire la frontiera comune. È questa la garanzia per mantenere lo spazio di Schengen.
È un obbiettivo che si realizza sospendendo il trattato sulla libera circolazione, come diversi Paesi vogliono?
No. Al contrario. Noi abbiamo mandato 90 poliziotti di frontiera in Grecia e siamo d’accordo alla creazione di una Guardia di frontiera europea. Non condividiamo che possa intervenire anche senza il consenso del Paese interessato, ma se si rafforza la frontiera comune si può mantenere Schengen all’interno. Poi, per gestire i flussi migratori, dobbiamo pensare a una politica europea solidale verso i Paesi da cui le persone sono indotte a scappare, non solo per le guerre ma anche per la povertà estrema. Noi europei abbiamo non solo un dovere morale ma anche un interesse politico ad aiutare questi Paesi.
Gli Stati dell’Ue che appartenevano al blocco sovietico sentono ancora una ferita aperta per quel periodo. Non trova però che l’Unione europea sia costretta a ricercare buoni rapporti con il suo vicino più grande?
Quando si sente un ministro della Difesa russo dire “i nostri missili sono tornati a puntare verso Varsavia”, non si può essere rassicurati. Non ci sono solo ferite passate ma anche aggressioni verbali che proseguono. Allora mi chiedo per quale motivo si dice che avere basi della Nato in Polonia non è possibile perché farebbe paura alla Russia. Chiedo scusa, ma chi deve avere paura di chi? Questo ci fa pensare che nelle alleanze tra Nato e Unione europea ci siano Paesi che hanno diritto a qualcosa e altri no. Detto questo sulle ferite passate e le minacce attuali, la Polonia è il primo Paese a volere buoni rapporti con la Russia, riguarda la nostra sopravvivenza. Voi potete parlare dei rischi di perdere un mercato, noi parliamo dei rischi di perdere molto più che un mercato. Questo non credo sia ben presente agli europei occidentali.
Di revoca delle sanzioni, quindi, non ne volete sentir parlare?
La Russia ha deciso una politica di violazione del diritto internazionale con l’annessione della Crimea. Le sanzioni decise dall’Unione europea, dagli Stati uniti e da altri Paesi occidentali dopo questa violazione rappresentano l’affermazione della difesa del diritto internazionale. Questa è la condizione di un rapporto pacifico e di un partenariato con la Russia che ci interessa. La settimana scorsa c’è stato un incontro a Mosca tra i vice ministri degli esteri e sono ottimista, perché c’è la volontà di aumentare le occasioni di dialogo e di allargare il campo delle nostre discussioni. C’è la voglia di trovare un linguaggio di cooperazione, ma senza dimenticare che non possiamo accettare la violazione del diritto internazionale.