di Carlo Clericetti
La tempesta che si sta abbattendo sulle banche italiane è la conseguenza della politica criminale dell’Unione europea a cui si sono sommati i gravissimi errori della politica italiana. Oggi “scopriamo” come se fosse una sorpresa che il sistema bancario ha accumulato una montagna di crediti in sofferenza e deteriorati e ci troviamo a far fronte al problema a mani nude, ossia con quasi tutti gli strumenti che si potrebbero usare per risolverlo che o non sono nella nostra disponibilità o ci sono preclusi dall’interpretazione delle regole europee che viene decisa dalla Commissione, in particolare quella sugli “aiuti di Stato”. Quegli aiuti di Stato che sono stati profusi a piene mani da tutti gli altri paesi, la Germania più di tutti, ma per cui adesso noi saremmo fuori tempo.
E il bello è che adesso ci tocca pure ascoltare i Soloni di casa nostra pontificare sul fatto che avremmo dovuto farlo allora, all’inizio della crisi, accettando il commissariamento della troika. Costoro trascurano un dettaglio: allora non ne avevamo bisogno, perché il nostro sistema bancario era stato quello meno colpito. Vediamo quale era, a fine 2008, il livello delle sofferenze bancarie e come si è evoluto.
Il grafico arriva a fine 2014 quando il totale era di 183 milioni; secondo gli ultimi dati ha raggiunto i 216 milioni, con un aumento rispetto al dicembre 2008 di oltre il 400%. In mezzo ci sono sei anni della più grave crisi della nostra storia moderna, peggiore persino di quella degli anni Trenta. Ma c’è, soprattutto, una gestione folle di questa crisi, che ne ha prolungato e moltiplicato gli effetti.
Nel momento in cui la speculazione internazionale attaccava i debiti pubblici, puntando a una rottura dell’euro, non si è risposto come si sarebbe potuto e dovuto, cioè facendo intervenire la banca centrale. Al contrario, mentre si ribadiva che la BCE non poteva per statuto andare in soccorso degli Stati, si dichiarava che ognuno doveva risolvere i suoi problemi da solo, rinunciando alla forza che avrebbe dato un’azione unitaria, e per di più si forzavano le manovre di bilancio nel senso dell’austerità, aggravando gli effetti della congiuntura avversa.
Ma avrebbe funzionato un intervento della BCE? Non ci possono essere dubbi in proposito, perché ha funzionato. Ormai tutti riconoscono che è stato il “whatever it takes” di Draghi a fermare la speculazione e far crollare gli spread. Se quella frase fosse stata detta subito, e non con un ritardo di anni, avrebbe evitato quello che è successo. Che è successo agli Stati dell’eurozona contro i quali si scommetteva sull’uscita dall’euro, ma non al Regno Unito, che non era certo in migliori condizioni, ma dove le banche sono state salvate dallo Stato e la banca centrale ha comprato il debito pubblico a piene mani. E tralasciamo gli USA, di cui abbiamo a suo tempo detto.
Mentre dunque la crisi infuriava la risposta europea era di preoccuparsi del deficit, stipulare un trattato per la riduzione del debito e il pareggio di bilancio (il fiscal compact) e pressare gli Stati sulle riforme del lavoro, cioè curare il dolore spargendo sale sulle ferite. E nel frattempo che cosa facevano i governi italiani? Seguivano pedissequamente queste politiche, vantandosi di essere tra i primi della classe perché tra i pochissimi a tenere il deficit sotto il limite del 3% e a mantenere, tranne che nel 2009, un saldo primario positivo. Bravissimi!
Ora, non diciamo nel 2011 quando l’attacco speculativo era più virulento, e nemmeno nel 2012 – ma certo Monti poteva andarci meno pesante invece di giocare ad essere “più tedesco dei tedeschi” – ma dopo il 27 luglio di quell’anno (cioè dopo che Draghi aveva pronunciato la fatidica frase), quando si è confermato ciò che molti dicevano, ossia che l’attacco non era dovuto all’alto debito, ma alla scommessa contro l’euro, ormai abbandonata, quello sarebbe stato il momento di bloccare la recessione, alimentando con investimenti pubblici la domanda interna agonizzante con o senza il consenso di Bruxelles, Berlino e sciagurata compagnia. Non avremmo avuto una decrescita protratta per ben tre anni, l’infinito crollo della produzione, le centinaia e centinaia di migliaia di fallimenti di imprese e di conseguenza nemmeno la crescita infinita delle sofferenze. Probabilmente anche il rapporto debito/PIL sarebbe migliorato invece di continuare a peggiorare, nonostante il maggior deficit, grazie alla crescita del denominatore.
Ma questo non è stato fatto, e persino la Legge di Stabilità “espansiva” di quest’anno mantiene comunque un deficit sotto il 3% e un saldo primario positivo del 2,2%. E neanche questo basta a Bruxelles, che continua a chiedere di più. Non solo. Grazie a queste politiche sciagurate ora le nostre banche hanno bisogno di un aiuto, la famosa bad bank in cui collocare i crediti in sofferenza: verboten, sarebbe aiuto di Stato.
Il problema è molto semplice: si tratta di vedere quanto si può ricavare da quei crediti in sofferenza. Se il realizzo sarà al 10% del loro valore, come può accadere se si sarà costretti a darle via in fretta e furia, nei bilanci delle banche si aprirà una voragine di 50-60 miliardi. Se invece sarà possibile venderle senza fretta lo sconto sarà certamente molto minore, si potrebbe arrivare anche al 50%: niente più buco o quasi. E non potremmo farlo perché sarebbe “aiuto di Stato”, cioè quello che tutti gli altri hanno fatto fino a ieri?
Il balletto di scaramucce e riavvicinamenti fra Renzi e la Commissione può andare bene per un teatrino, ma qui il problema è un altro: questa Europa, anche al netto della pessima politica italiana, ci sta facendo affondare sempre di più. Qui non è più questione di essere più o meno europeisti, ma, ormai, più o meno masochisti. O si riesce a fare come Mrs. Thatcher, che quando voleva qualcosa la otteneva. Oppure bisognerà prendere atto che l’uscita è un enorme rischio, ma la permanenza una disastrosa certezza. Davvero vogliamo morire per Bruxelles?
Pubblicato sulla Repubblica il 21 gennaio 2016.