di Pierluigi Fagan
Uscito di recente, Il mondo nel 2016 in 200 mappe per i tipi della LEG edizioni di Gorizia, a cura di Frank Tétart, offre una buona panoramica sui costituenti geopolitici del mondo attuale ed a venire. Il volume è una guida che mira allo sguardo panoramico, sintetico e non particolarmente approfondito, sebbene abbastanza ampio e completo. Forse si sorvola con un po’ troppa leggerezza sull’intera questione medio-orientale ma poiché Wikipedia.fra c’informa che il compilatore insegna, tra l’altro, negli Emirati Arabi Uniti, si capisce l’auto-censura. Cinque le sezioni: attori geopolitici, guerre – conflitti e tensioni, problemi ambientali, globalizzazione, aspetti sovrastrutturali. È una buona introduzione alla complessità della rete di variabili che tessono l’ordito geopolitico del pianeta, niente di che, ma un buon entry level per approcciare la questione.
L’attenzione per la geopolitica, anche in Italia, sta moderatamente crescendo. Buone le vendite per Internazionale (che è una rivista di fatti internazionali e non di geopolitica), cresce anche Limes, che varia le sua offerte di accesso online per far lavorare meglio l’archivio. Accanto, pubblicazioni più specifiche di buon livello come Eurasia e Geopolitica, rivista dell’IsAG, mentre rimane fisso l’appuntamento con l’Atlante Treccani in collaborazione con l’ISPI, la cui edizione 2015 (pubblicazione nata nel 2012) si presenta poderosa ed utile. Tradizionale ormai, l’appuntamento annuale con l’agile Il mondo in cifre, versione italiana del Pocket World in Figures dell’Economist. Cresce il numero di articoli ed analisi online, ed a seguito al fenomeno ISIS-Siraq si è presentata se non la materia almeno parte dei suoi argomenti, anche in prima serata TV (soprattutto La7). Ancora un po’ in ritardo l’offerta editoriale, che pubblica per lo più il mainstream statunitense (Kissinger, Nye, Kupchan, Joffe, Zakaria) o non americana (Attali, Khanna) mentre, per fortuna, si è placata la foga pubblicistica del neocon Kagan.
Di italiano c’è ben poco oltre al generale C. Jean. Si ampliano invece gli sguardi settoriali; geopolitica de: l’acqua, le energie, le linee logistiche, il cibo, la sicurezza informatica, lo spazio, il Medio Oriente, la Cina, l’Africa, il Mediterraneo, oltre naturalmente alla doverosa attenzione per i conflitti, quello ucraino (poca) quello siro-iracheno/ISIS (molta). Qualcosa si muove anche a livello di conoscenza della teoria con i contributi di P. Chiantera Stutte (Il pensiero geopolitico, Carocci, 2014) e quelli di G. Lizza. Adelphi ha addirittura trovato il coraggio di sparar fuori per ben 60 euro le 527 pagine di Stato, grande spazio, nomos di Carl Schmitt.
In Italia la materia non ha comunque tradizione visto che non siamo mai stati una vera potenza coloniale, non abbiamo vere multinazionali, siamo in sostanza una felice colonia americana, spesso eterodiretta dai britannici, e la nostra convinzione di vivere nel miglior posto del pianeta non ci ha reso molto curiosi dell’altrove. Le nostre due principali tradizioni di pensiero, quella classicista-idealista e quella marxista, sono entrambe fondamentalmente eurocentriche e fanno fatica a processare sistemi, per noi atipici, come quello asiatico o islamico o africano. La globalizzazione l’abbiamo per lo più subita. L’Altro del mondo si presenta con i cenci del migrante posizionato tra il fastidioso e l’inquietante. Basta andare all’estero per trovare connazionali che si lamentano per la cottura dello spaghetto e pretendono di farsi capire declinando un italiano sillabato ad alta voce con utilizzo del tempo infinito come passe-partout linguistico universale, per capire che il nostro eros verso il mondo è assai basso. Il piccolo bacino che alimenta l’expertise italiano è fatto spesso di generali che hanno avuto qualche formazione o ruolo nella NATO.
Pur se tendiamo ad ignorare il mondo, però, il mondo tende sempre più a farsi notare. La prima settimana dell’anno ha segnato: 1) scoppio ed escalation di tensione tra Arabia Saudita ed Iran; 2) annuncio di possedere armi atomiche all’idrogeno da parte della Corea del Nord; 3) crolli a ripetizione delle borse cinesi e poi asiatiche con treni d’onda arrivati sin da noi; 4) migranti afro-arabi, ubriachi ed arrapati, che hanno perturbato i civili festeggiamenti di fine d’anno nel centro Europa. Un improvviso sconfinamento turco in Iraq, la permanente tensione Russia-Turchia, l’espansione dell’ISIS in Libia, la possibile fine dello chavismo in Venezuela e l’affermazione di Aung San Suu Kyi in Birmania, se aggiungiamo gli ultimi giorni dell’anno passato. La quantità di “fenomeni dal mondo” che
arrivano sulle nostre scrivanie e device informativi è sempre più rilevante, la nostra capacità di processarla sempre meno adeguata.
Il primo problema (sauditi vs. iraniani) ha visto trionfare la semplificazione dialettica sunniti vs. sciiti, di cui per altro sono qui per lo più sconosciute le ragioni di reciproca divisione e che comunque è una questione che veste il problema ma certo non lo spiega. Il secondo problema (la bomba H coreana) ci ha fatto venire in mente Razzi e Salvini da una parte, il finale del Dottor Stranamore (per i più colti) dall’altra. Il terzo problema è stato razionalizzato dal mainstream col fatto che la Cina traditrice non fa più la locomotiva del mondo, i cinesi maneggiano giochi più grandi di loro e non sono affidabili come gli americani (vedi Lehman Bros.), la loro economia cresce – ahinoi – non più al 7% ma al 6,7% e quindi sta crollando, mentre la nostra che cresce allo 0,7% è in piena e vigorosa ripresa anche grazie al Jobs Act (Act? Qualcuno è convinto che invece che a Montecitorio siamo a Westminster). Quanto ai giovani arabi arrapati, beh è chiaro, è colpa dell’islam. Che fatti analoghi siano successi anche con la prima ondata delle migrazioni di massa di albanesi (solo in minoranza islamici) e rumeni non conferma la diagnosi, ma poiché tendiamo a vivere solo nell’iper-presente, chi se ne ricorda più? Piangiamo quando muoiono in mare, noi stessi siamo almeno ampiamente corresponsabili delle guerre che li muovono verso di noi, poi però non li vogliamo o meglio li vorremmo anche, ma solo quando si presentano come mano d’opera a basso costo e non quando palpeggiano le tette delle nostre ragazze. L’andamento schizofrenico “t’accolgo, no, ti caccio” del nostro atteggiamento di fronte ad un problema, quello dell’immigrazione, che tenderà certo ad aumentare e non certo a diminuire, dice che non siamo preparati, non sappiamo cosa fare, improvvisiamo. La stessa applicazione di categorie di opinione (buonisti vs. intransigenti) a fatti concreti che ci riguardano e ci domandano contro-fatti, fa capire che non siamo centrati sul reale.
Non va meglio, nel dibattito online. È tornata d’attualità la denuncia del rosso-brunismo che sostiene che la categoria impero-mondo sia superiore a quella capitale-lavoro, ed in base a ciò si dovrebbero unire tutti gli anti-imperialisti al di là della loro precedente classificazione destra-sinistra, magari iscrivendosi ai molti fan club di Putin. Per altro, si confonde la questione destra-sinistra originata all’interno delle prime assemblee pre- e post-14 luglio della Rivoluzione francese, e quindi legata a diverse concezioni della democrazia, con il socialismo-marxismo ed il fascismo. La questione, Dio ce ne scampi, è infrequentabile perché porta a doversi comprendere su termini assai scivolosi, polisemici ed anche antichi, dall’incerta origine e dalla ancor più incerta attualità, secondo alcuni. Ma possiamo agevolmente scavallare l’ostacolo proponendo la sostituzione dell’operatore logico “o-o” con quello “e-e”. Non si tratta di disputare sul fatto se esista il conflitto impero-mondo “o” quello capitale-lavoro, ma sul fatto che poiché i due sono legati dalla “e”, si pone il problema di quale subordini l’altro in una scala di tipi logici.
Torna allora alla mente un fatto di questa estate, lungo la travagliata crisi greca. Un giorno, Tsipras, in conferenza stampa, dichiarava di aver saggiato l’eventuale disponibilità di Russia e Cina a far da protettori sulle piazze finanziarie globali ad una nuova moneta con la quale la Grecia avrebbe potuto secessionare (o magari solo minacciare di farlo) dal sistema euro, il famoso “piano B”. Ora, non è detto che Tsipras abbia detto la verità, anche se mettere in mezzo in una dichiarazione pubblica Russia e Cina per pararsi dalle critiche dell’ala sinistra ultra-critica di SYRIZA mi sembra poco realistico. Forse lo ha effettivamente fatto, ma chissà quanto convinto o quanto proprio in ragione delle pressioni della sinistra del partito. Sta di fatto che il giornale greco (centrista ed equilibrato) Kathimerini, un mese dopo, rivelava che nei giorni acuti della crisi, Obama in persona avrebbe chiamato Tsipras per dissuaderlo (m’immagino con tono soft e sostanza hard) da ogni velleità di uscita dal sistema. Ad Obama, ovviamente, fregava less than zero della Grecia nel sistema euro, ma interessava eccome il sistema NATO di cui la Grecia è pedina essenziale vista la posizione. Non solo come posizione necessaria alla NATO ma anche come posizione che necessariamente non doveva finire col diventare un pied à terre russo. In effetti, ai tempi, si notò una certa impuntatura dell’FMI nel cercar di condizionare la Germania e la Commissione, in favore di una ristrutturazione del debito greco che poi era la posizione di trattativa che Tsipras e Varoufakis avevano preso sin dall’inizio. Proprio lo scoop di Kathimerini sosteneva che l’accordo con Obama verteva su «vabbè facciamo i bravi ma voi dateci una mano all’FMI per portare a casa l’apertura ad una ristrutturazione che per noi è un obiettivo politico cruciale». Avesse effettivamente conseguito l’obiettivo della ristrutturazione del debito, Tsipras avrebbe bagnato le polveri della sua opposizione interna, che in effetti poi lo ha portato ad elezioni anticipate.
Ci si domandò, io mi domandai e domandai nel dibattito online a “compagni e compagne” che strepitavano sulle magnifiche sorti rivoluzionarie dell’uscita dall’euro, come fosse possibile in tali condizioni, come fosse possibile che una nazioncina di 11 milioni di abitanti uscisse dall’euro e si presentasse con la neo-dracma su i mercati contro gli USA, l’UE ma anche la Russia che non voleva irritare il nemico americano col quale già erano parecchio grossi i contenziosi (Ucraina) ed i cinesi che da tempo investivano in Grecia per farne il terminale provvisorio della propria via della seta marittima. Tutte cose ben note in geopolitica ma del tutto ignote nella teoria politica che vede solo capitalisti, neoliberisti, classi sfruttate da far insorgere secondo gli astuti piani della nuova intellighenzia dell’economia politica monetaria alternativa. Non si discute cioè della teoria ma della prassi, della seconda tesi su Feuerbach: se una cosa non è possibile, come può diventare oggetto di una piattaforma politica? Che poi diventa anche: come formulare una piattaforma politica che scagliona a lungo raggio l’impossibile e pone come obiettivi concreti i possibili? O ancora: di quanti compiti e livelli di analisi si deve arricchire una piattaforma politica per render possibile l’impossibile?
«Ignoramus ed ignorabimus» fu in sostanza la risposta, ignoriamo ed ignoreremo il problema pratico-concreto, per noi l’euro è il male, uscirne è il bene, se necessario facendo la rivoluzione (non si sa bene con quale base sociale) e chi non è dell’avviso è un traditore, un nemico. Sappiamo poi come è andata. Tsipras ha rivinto le elezioni, le masse insorgenti greche hanno votato la piattaforma di sinistra-sinistra della scissione di SYRIZA con percentuali amatoriali, la Grecia è ancora dentro l’euro (e la NATO), non ha ottenuto la ristrutturazione del debito e sostanzialmente, è ancora alle prese con la supervisione politico-economica tedesca.
Rimane il fatto che il mondo politico è ormai composto di sistemi intrecciati tra loro: sistemi monetari, economici, trattati di libero scambio, alleanze militari, sistemi religiosi e di identità, culture, blocchi storico-geografici, demografie asimmetriche, catene logistiche, potenza militare, linee di faglia che non seguono la partizione analitica del marxismo sebbene poi ogni entità socio-nazionale riproduca sistematicamente la partizione dominanti-dominati. Questo non cancella le tradizionali partizioni di classe, sebbene il concetto stesso di classe sia diventato molto più complesso rispetto alla facile divisione ottocentesca e, tra l’altro, tabelle dei redditi e delle proprietà alla mano, la definizione ristretta di “classe subalterna” segni oggi una minoranza e non quella vasta maggioranza di persone che giustificava l’idea di una possibile insorgenza liberatrice, addirittura “rivoluzionaria”, teorizzata due secoli fa.
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Ci troviamo così in un impasse teorico che produce smarrimento, da cui la sostanziale paralisi di ogni fermento politico di cambiamento. Nessuno infatti sa più dove andare ed in mancanza di mete, non s’inizia alcun viaggio. Paralisi viepiù grave proprio oggi che i sistemi mostrano i loro limiti in maniera abbastanza oggettiva e pubblica e le fatidiche contraddizioni pullulano in abbondanza, sebbene non ci sia nessuno in grado di usarle per trarne energia sociale da immettere nel motore della Storia. Proviamo ad ascoltare i profeti dell’anti-imperialismo, ma in coscienza non ci sembra che – ammesso sia possibile, non si sa bene come –, scalzati gli americani e fatto trionfare i russi e la loro tradizione zarista-ortodossa, le cose andrebbero meglio. Proviamo ad ascoltare i critici feroci della modernità ma non ci sembra che un ritorno al comunitarismo medievaleggiante sia attraente per tutti e, prima ancora, possibile. Proviamo ad ascoltare addirittura il papa nella sua nuova verve descrescista ed anticapitalista ma non possiamo non ricordare quale fosse la condizione sociale e culturale, politica ed economica dei tempi in cui invece del capitale e della blanda democrazia delle élite governava la Bibbia ed il clero che santificava la semi-divinità del monarca.
Proviamo a reiterare le categorie analitiche degli antichi maestri dell’800 ma molti pezzi di realtà contemporanea strabordano dalle matrici interpretative e, non da ultimo, quello stesso pensiero non è mai stato molto preciso ed euristico nell’accompagnare la possibile costruzione di un mondo nuovo. Tant’è che quando ci si è provato concretamente (l’URSS, la Cina di Mao), non è venuto fuori nulla di così ispirato ed ispirante. Inoltre, sono decenni, ormai un secolo e mezzo abbandonante che le migliori menti hanno riversato fiumi di acido critico sulle strutture del nostro mondo eppure quelle strutture sono ancora là e noi ancora qua. Evidentemente, quelle strutture rispondono ad un bisogno essenziale di ordine per cui le possiamo anche annegare a lungo nell’acido critico ma se non poniamo l’alternativa di struttura, rimarranno a fare il loro lavoro in qualunque condizioni si trovino perché sono proprio le persone che poi le soffrono a tenerle in vita.
Una credenza forte nei poteri della dialettica, una credenza al limite della fede con tanto di dogmatica, ha riprodotto all’infinito la coazione critica sperando che dal vecchio nascesse chissà come il nuovo, quasi che i figli si facessero chiacchierando o opponendosi all’altro. Non sappiamo più dove collocare concetti come emancipazione, progresso, fratellanza, uguaglianza, modernità e guardiamo perplessi coloro che si definiscono “liberali”. La libertà, concetto della famiglia delle idee-saponetta, che quando provi a definirle ti ritrovi come Agostino con il concetto di tempo, ma anche bandiera sotto la quale si sono mosse quelle schiere di antenati che si sono ribellati al regime di dominio del loro tempo, i nostri ideali precursori. Ci siamo fatti fregare anche il concetto di liberazione, attività politica atta ad aumentare i gradi di libertà, condizione di possibilità per l’espressione della molteplicità indomabile di cui è fatto l’umano che è ente tanto individuale che sociale.
Insomma, dobbiamo ratificare lo smarrimento, dobbiamo ammettere di non avere una teoria sul mondo, sullo Stato, sulla società, sull’uomo, sul cambiamento. Cominciare a prendere confidenza con quel gomitolo complesso che è oggi l’insieme dei più di 7 miliardi di persone che fanno la nostra nuova realtà è forse il miglior modo per ripartire. Interessarsi della vastità complessa che gli ordini umani tessono nel pianeta che ci fa da contesto, è forse il modo migliore per curare questo smarrimento, il modo migliore di tornare al reale per vedere se e di quale razionale è fatto e quali gradi di possibile cambiamento ha.
Qui, nell’espressione geografica chiamata Europa, viviamo in Stati che stanno scivolando di peso e d’importanza nell’agone planetario, siamo sempre più e sempre in più saremo “anziani”, le nostre condizioni di possibilità vanno a restringersi, la nostra sovranità monetaria è appaltata ad un Trattato di 24 anni fa cucito su misura sulle paranoie dei tedeschi, quella economica e finanziaria è ostaggio delle istituzioni anglosassoni, quella militare l’abbiamo devoluta a gli Stati Uniti d’America, quella culturale è persa da tempo, quella politica l’abbiamo consapevolmente delegata ad élite impresentabili, cacciatori d’affari, affabulatori, comici, magnati, psicolabili, narcisisti. Siamo circondati da popoli giovani in esubero demografico che coltivano una cultura per noi aliena ed andiamo, come tutti gli altri, incontro a gravi problematiche ambientali. Gli indici di fiducia nei confronti della scienza scendono e salgono quelli nei confronti della religione mentre la filosofia è non classificata. Mentre critichiamo la democrazia liberale, ci stanno togliendo anche quella, sostituendola con un misto di poteri tecnici, élite, entità sovranazionali e gruppi opachi di incerta composizione e finalità. Si paventano rischi di guerra, addirittura di dimensioni quali pensavamo non più possibili. Molti pettinano i nostri villi intestinali irritati dall’assedio continuo di fenomeni che ci allarmano e ci preoccupano, usando pettini elementari, soluzioni che non risolvono, urla e grida che tornano alle identità, le tradizioni, l’ordine che era prima, il ritorno agli Antichi, il nemico del mio nemico è mio amico, il manicheismo ed altri ansiolitici semplificato…
Per orientarsi in questo ginepraio di problematiche che s’intersecano reciprocamente occorre senz’altro un nuovo epistème, nuovi paradigmi, una nuova immagine di mondo. Il conflitto impero-mondo non spiega tutto e non sostituisce quello capitale-lavoro ma è ben difficile immaginare di poter affrontare il secondo non vedendo quanto dipenda dal primo o meglio, quanto l’eventuale soluzione sia condizionata dai limiti che il primo permette o vieta. Né possiamo più pensare che l’ordine del mondo provenga da un solo ordinatore, la Provvidenza, la mano invisibile, la dittatura del proletariato. Di tutti i problemi prima citati, il più preoccupante, mi sembra il sonno della filosofia.
La fabbrica dei concetti è chiusa, l’artigianato del pensiero ha lasciato il posto alla catena di montaggio dei luoghi comuni, c’è poca voglia di sperimentare, c’è stanchezza, cinismo e scetticismo nella fase nichilista, scolastiche rapprese in gergalità sempre più aride e sempre meno stimolanti. Dappertutto trionfa la divisione degli sguardi, le specializzazioni, microcosmi che non chiamano più a nessun macrocosmo diventando cosmi a sé, irrelati, entropici, cucce calde in cui svernare in attesa di primavere del pensiero che tardano. Marx e la mano invisibile sono del XIX secolo, Dio è ben più anziano. Il mondo è nuovo ogni giorno, anzi è sempre continuamente nuovo; i nostri modi di pensarlo stentano a tenere il passo. Proviamo allargando il diaframma, chissà che l’intero non ci mostri un nuovo senso del vero…
Pubblicato sul blog dell’autore il 10 gennaio 2016.