di Maurizio Brignoli
Lo scontro interimperialistico fra i principali attori (USA, UE, Cina, Russia) si va sempre più delineando attraverso un processo di potenziale “concentrazione imperialistica” attorno ad alcune aree imperialistiche sovranazionali. Scontro a livello transnazionale con un grande processo di ricollocazione della divisione internazionale del lavoro. Le trattative relative al Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) e al Trans-Pacific Partnership Agreement (TPPA) sono espressione rilevante di questo scontro. Per comprenderne la reale portata e gli obiettivi questi accordi vanno collocati all’interno della strategia statunitense di scontro con la Cina.
Il TTIP ha come obiettivo di realizzare l’unione di due delle economie più ricche al mondo e delle rispettive aree valutarie, quella del dollaro e quella, maggiormente in difficoltà, legata all’euro. Le consultazioni USA-UE sono iniziate più di due anni fa, ma lo scontro interimperialistico all’interno dello stesso TTIP è forte, nonostante gli USA abbiano cercato di sfruttare il momento di debolezza dell’UE per la realizzazione di un progetto che torna soprattutto a loro vantaggio. Le trattative sono segrete e condotte dai funzionari della Commissione europea e da quelli del ministero del commercio statunitense con le lobby delle grandi multinazionali.
Gli obiettivi finali del TTIP (e dello speculare TPPA) sono riassumibili fondamentalmente in tre punti principali:
1. Eliminazione delle barriere tariffarie (dazi doganali)
Il TTIP punta a realizzare una zona di libero scambio riguardante 800 milioni di persone e corrispondente a circa la metà del PIL e un terzo del commercio mondiale. Ora come ora USA e UE hanno un forte grado di interdipendenza economica. In particolare l’UE con oltre 500 milioni di abitanti e un reddito medio annuo pro capite di 25.000 euro è la più importante economia mondiale e il più grande importatore di manufatti e servizi con maggior volume di investimenti esteri diretti (IDE) mondiale. Inoltre l’UE è il principale investitore negli USA e il principale mercato per le esportazioni statunitensi di servizi. Complessivamente gli investimenti in UE assommano a 2.000 miliardi di euro e coprono il 50% degli investimenti USA all’estero, mentre quelli dell’UE negli Usa superano i 1.600 miliardi.
Secondo un documento dell’Istituto Affari Internazionali, con la realizzazione del TTIP le esportazioni europee si incrementerebbero del 2% mentre quelle statunitensi verso l’UE aumenterebbero del 6%, realizzando così un significativo vantaggio per il capitale statunitense. Che il gioco sia condotto dagli USA, che tentano saggiamente di sfruttare a proprio vantaggio la situazione di difficoltà del capitale europeo, è dimostrato dal fatto che gli USA non vogliano rinunciare al Buy American Act del 1933, creato da Roosevelt per proteggere le merci statunitensi. Il capitale a base UE da parte sua punta ad aumentare la sua quota di esportazioni verso il più protetto mercato statunitense (solo il 30% del mercato USA è “aperto” rispetto all’80% di quello europeo) e in particolare vi è la questione delle barriere relative alle commesse pubbliche che sono negli USA molto più rigide rispetto all’UE.
Il TTIP si inserisce all’interno di una più ampia visione strategica in funzione anticinese e deve essere integrato dal TPPA, siglato ad Atlanta il 5 ottobre 2015, e riguardante 12 paesi del Pacifico (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Vietnam, Singapore, USA) che insieme rappresentano oltre il 40% del PIL mondiale. Il TPPA punta a colpire esplicitamente il principale concorrente cinese sottraendogli il controllo dell’Asia, ma implicitamente anche quello europeo che con gli Stati asiatici (Cina al primo posto) intrattiene, a livello di bilaterali rapporti statali, svariati affari. Se per buona parte del XX secolo gli USA hanno ricoperto il ruolo di prima potenza commerciale del mondo nel primo decennio del XXI hanno perso questo primato commerciale e se fino al 2008 gli USA erano il principale partner commerciale di oltre 120 paesi nel mondo, mentre la Cina non arrivava a 70, oggi la situazione è esattamente rovesciata.
2. Superamento delle barriere non tariffarie, cioè normative e legislative, di ostacolo alla libertà dei capitali
Il secondo aspetto, autentico cuore pulsante dei trattati, è quello che punta ad armonizzare le barriere non tariffarie, cioè normative, relative principalmente a lavoro, ambiente e salute. La differente legislazione esistente fra USA e UE in questi ambiti è un ostacolo alla circolazione delle merci e dei servizi che deve essere rimosso attraverso una normativa comune. Abitualmente negli accordi di libero scambio la soluzione si raggiunge attraverso l’applicazione della normativa più “semplice” e con meno vincoli e attualmente l’UE ha una legislazione più restrittiva in diversi ambiti.
Gli accordi relativi alla libertà degli scambi sono accordi relativi alla libertà del capitale. Sono barriere non tariffarie quelle relative alla coltivazione e commercializzazione di OGM vietata nella quasi totalità dell’UE, non tanto per preoccupazioni relative alla salute dei cittadini, ma perché sugli OGM esiste un primato delle multinazionali statunitensi che finirebbero per sottrarre mercati ai concorrenti europei. In UE vige inoltre il divieto di importare carni di animali trattati con ormoni diffuse, invece negli USA e per quanto riguarda il pollame il processo di controllo preventivo delle malattie si effettua a partire dall’allevamento, mentre negli USA, per abbassare i costi, riguarda esclusivamente la fine della catena produttiva attraverso un processo di sterilizzazione a base di cloro vietato nell’UE che dal 1997 ha vietato l’importazione del pollame statunitense.
Un altro aspetto importante potrebbe essere costituito dall’eliminazione di normative ambientali che impediscono l’uso della tecnica di fracking (pericolosa per l’inquinamento delle falde acquifere) relativa all’estrazione di gas e petrolio di scisto (riserve importanti si trovano in Polonia, Ucraina, Danimarca e Francia), la cui eliminazione aprirebbe interessanti mercati alle imprese statunitensi.
Sono considerate “barriere non tariffarie” anche quelle relative alla legislazione sul lavoro, che, in caso di adeguamento alla normativa statunitense, ci porterebbe ad avere un’ulteriore deregolamentazione in questo campo. Delle otto convenzioni fondamentali stabilite dall’International Labour Organization (ILO) dell’ONU – sul lavoro forzato (1930); sulla libertà sindacale e la protezione del diritto sindacale (1948); sul diritto d’organizzazione e di negoziazione collettiva (1949); sull’uguaglianza di retribuzione (1951); sull’abolizione del lavoro forzato (1957); sulla discriminazione di impiego e professione (1958); sull’età minima (1973); sulle forme peggiori di lavoro minorile (1999) – gli USA hanno ratificato solamente quelle relative al lavoro minorile e alla discriminazione sul luogo di lavoro.
I programmi sanitari statali di assistenza universale e gratuita e i relativi medicinali compresi negli elenchi della spesa sanitaria potrebbero essere visti come pregiudizievoli per gli interessi delle grandi multinazionali del settore in quanto espressione di una sorta di monopolio e di ostacolo al libero commercio, aprendo le porte a un’ulteriore e completa privatizzazione del sistema sanitario.
Le barriere non tariffarie riguardano anche i servizi finanziari che invece gli USA vorrebbero non inserire nel trattato visto che il 70% degli investimenti statunitensi in Europa sono di questo tipo e perché paventano di ritrovarsi ostacolati nel tentativo di scaricare sul resto del mondo i loro titoli tossici.
3. Delineazione di meccanismi legali che impediscano ai capitali di essere ostacolati da leggi statali
Il terzo punto rilevante riguarda i meccanismi destinati a risolvere le dispute tra investitori e Stati noti come investor-state dispute settlements (ISDS). L’ISDS era inizialmente nato nell’epoca della cosiddetta “decolonizzazione” per difendere gli interessi delle multinazionali, senza ricorrere a complesse dispute diplomatiche fra governi e per permettere a un’impresa di chiamare in giudizio lo Stato evitando di essere giudicata all’interno dello stesso Stato che l’aveva espropriata (espropriazioni operate in quei tempi dalle borghesie nazionali dei paesi di recente indipendenza). Le cose ora sono cambiate e le espropriazioni sono radicalmente diminuite (dalle 423 degli anni ‘70 alle 22 degli anni ‘90) e se mai adesso, nella realizzata mondializzazione del sistema capitalistico, i paesi più poveri cercano di attrarre gli IDE delle grandi imprese. Ora l’ISDS non riguarda più soltanto gli accordi da prendere fra i paesi dominanti all’interno della catena imperialistica e quelli più deboli, ma riguarda anche i grandi accordi fra i centri dell’imperialismo all’interno dell’approfondimento di quel processo di sottomissione dello Stato alle istituzioni sovranazionali dell’imperialismo transnazionale.
L’accordo per la “protezione degli investimenti” consente alle imprese, alle quali uno Stato possa aver posto dei limiti alle “legittime aspettative di profitto”, di denunciare lo Stato stesso e di sottoporlo al giudizio di un arbitrato. Si tratta di una sorta di “corte superiore privata” composta da tre membri con processi a porte chiuse e senza possibilità di appello e con gli Stati e i capitali nazionali che non hanno diritto di citare in giudizio le imprese transnazionali. Una “corte suprema del capitale” che realizza di fatto una privatizzazione del diritto pubblico internazionale.
Per fare qualche esempio la multinazionale Veolia ha citato il governo egiziano per aver varato una legge che innalzava il salario minimo, la statunitense Lone Pine ha fatto causa allo Stato canadese per aver vietato il fracking, la Philip Morris ha citato Australia e Uruguay per le misure messe in atto contro il fumo (avvertenze sui pacchetti di sigarette) che l’avrebbero espropriata della sua “proprietà intellettuale”. Cause simili potrebbero in futuro essere avanzate contro enti che garantiscono assistenza sanitaria e istruzione gratuita in quanto lesive della libertà del capitale.
Già fra il 1995 e il 1998 c’erano state delle trattative fra gli stati membri dell’OCSE per la creazione del Multilateral Agreement on Investment (MAI) che prevedeva l’equiparazione legale delle imprese agli Stati membri; la proibizione degli standard di performance (numero minimo di forza-lavoro locale, norme ambientali e sul lavoro); il divieto di introdurre leggi in conflitto col MAI; la possibilità per le imprese di citare in giudizio gli Stati; il diritto per le imprese transnazionali di esportare fino al 100% dei profitti privando così lo Stato della possibilità di tassazione. Il negoziato, voluto dagli USA, era poi fallito per l’opposizione di UE, Canada e Giappone.
Un altro accordo in via di negoziazione è il Trade in Services Agreement (TISA) relativo alla liberalizzazione e privatizzazione del mercato dei servizi (70% del PIL mondiale) che coinvolge una cinquantina di paesi tra cui USA, UE, Australia, Canada, Svizzera, Israele, Turchia, Corea del Sud, Giappone. Si tratta di deregolamentare e privatizzare sanità, istruzione, trasporti, acqua, pensioni, impedendo agli Stati di gestire direttamente questi servizi. Infine per quanto riguarda i servizi finanziari si tratterebbe di eliminare le ultime restrizioni per le grandi banche e gli hedge fund. Tutti questi accordi, come si vede, non comprendono la Cina (e i cosiddetti BRICS).
In conclusione le profittevoli conseguenze per il grande capitale transnazionale saranno l’assoggettamento dei sistemi produttivi dei paesi più arretrati e la loro subordinazione alle filiere produttive transnazionali con il relativo correlato di riduzione dell’occupazione, dei salari e dei diritti dei lavoratori.
Pubblicato su La Città Futura il 19 dicembre 2015.