di Vincenzo Comito
Il 2016 non si apre sotto i migliori auspici. Una situazione politica incerta su diversi fronti, i problemi dell’emigrazione in Europa, il terrorismo, le apparenti sbandate della Cina, un livello di indebitamento molto rilevante in diverse aree del mondo, sembrano essere alcuni dei fattori negativi che abbiamo davanti.
La crescita mondiale
Solo qualche mese fa l’FMI prevedeva per il 2016 una crescita del PIL mondiale del 3,6%. Ora la Banca Mondiale stima per l’anno in corso un aumento del PIL del 2,9%; ricordiamo, tra l’altro, che nel 2014 si era registrato il 3,4% e nel 2015 il 3,1%. Si tratta di un rilevante rallentamento, che dovrebbe lasciare il campo nel 2017 ad una ripresa minima (3,1%).
Bisogna comunque distinguere tra le varie aree del mondo (Guélaud, 2016, a), perché comunque lo sviluppo appare molto ineguale. Per gli Stati Uniti la stima di crescita è del 2,5% per il 2015 e del 2,7% per il 2016; per la zona euro il quadro appare meno positivo, indicando rispettivamente l’1,5% e l’1,7%.
Ma il peggioramento delle previsioni globali deve essere collegato soprattutto al rallentamento di una parte dei paesi emergenti. Ricordiamo che, sempre secondo le stime dell’FMI, il loro peso sul PIL mondiale è stato nel 2015 del 58%: quindi i destini di tale area, in particolare del continente asiatico, sono ormai determinanti per il futuro economico del mondo, più di quelli dei paesi ricchi.
Le previsioni sono parecchio negative per il Brasile e per gli altri paesi dell’America Latina, anche se esse appaiono meno disarmanti che per il 2015. L’Africa del Nord e quella sub-sahariana cresceranno un po’ di più. Ma gran parte dell’Asia andrà decisamente bene: 7,3% per l’India, 6,3% per l’Asia dell’Est e il Pacifico, 7,3% per l’Asia del Sud, 6,7% per la Cina, in leggero rallentamento; in miglioramento, anche se ancora in territorio negativo, la Russia.
La Cina
La Cina rappresenta un caso a sé e, anche per la sua importanza per la crescita mondiale, merita una trattazione a parte. Ricordiamo intanto che un aumento del PIL ormai intorno al 7% all’anno significa – se utilizziamo per le stime il criterio della parità di potere di acquisto-, che ogni anno si aggiunge a quello precedente un PIL pari grosso modo a quello spagnolo, un dato enorme.
Come è noto, il paese sta effettuando il passaggio da un’economia centrata sull’industria ad una sui servizi, da una crescita basata su investimenti ed export ad una basata sui consumi interni, inoltre con gli assi dello sviluppo puntati verso un’economia pulita e l’acquisizione di un alto livello tecnologico.
Nel frattempo si deve governare una riduzione della capacità produttiva in alcuni settori (non si può produrre più del 50% dell’acciaio mondiale!), ridurre l’ingorgo del settore immobiliare, ristrutturare le imprese statali, controllare l’indebitamento, combattere la povertà. Compiti immani, ma la dirigenza cinese ha mostrato in tutti questi decenni di saper gestire problemi anche più rilevanti.
Mentre tutti sottolineano il rallentamento dell’industria, inevitabile nel perseguimento di tale strategia, molti censurano invece la forte crescita dei servizi; così, ad esempio, il turismo è in pieno boom e quello estero è aumentato del 16% nel 2015, le vendite di biglietti per il cinema sono cresciute del 50%, quelle di smartphone si riducono in quantità, ma aumentano fortemente in valore unitario (The Economist, 2015).
Nel 2015 dovrebbero essere stati creati intorno ai 14 milioni nuovi posti di lavoro, mentre i salari crescono in maniera sostenuta.
Le due crisi
Ma ora siamo di fronte alla crisi della borsa e a quella della moneta. Per quanto riguarda la prima, bisogna ricordare che gli investimenti stranieri nel settore sono quasi inesistenti e che quindi non ci dovrebbero essere ripercussioni dirette delle difficoltà sul resto del mondo. La borsa cinese è un affare quasi solo spinto dalla speculazione e non ha alcun collegamento con l’economia reale (Authers, 2016). D’altro canto, i titoli erano saliti troppo in alto e ancora oggi essi sono grosso modo dove erano un anno fa. Peraltro i regolatori cinesi devono imparare a gestire meglio la questione. Qualcuno ha scritto che la Cina dovrebbe semmai celebrare il collasso del suo mercato di borsa, che era molto gonfiato rispetto alla realtà (Zhang Joe, 2016).
Più importante appare la svalutazione della moneta. L’intento ufficiale non è certo quello di incoraggiare le esportazioni, dal momento che le priorità politiche sono diverse. L’obiettivo è quello di sganciare il cambio dello yuan da quello del dollaro ed ancorarlo invece ad un basket di monete, aiutando il passaggio ad una situazione maggiormente determinata dalle forze del mercato.
Ma l’operazione è stata portata avanti in maniera maldestra e poco chiara, insospettendo i mercati internazionali, che, più in generale, in questo momento non si fidano dei dati cinesi. Essi temono una forte svalutazione della moneta (per volontà cinese o per una fuga di capitali fuori controllo) e una rilevante riduzione del tasso di crescita del PIL. Ma il paese ha un bilancio forte, con entrate crescenti, con riserve di cambio molto elevate, alimentate da un considerevole surplus della bilancia dei pagamenti. D’altro canto, l’instabilità dei mercati appare anche un riflesso delle paure degli stessi per la situazione dell’economia occidentale.
Le novità non hanno effetti solo negativi sul resto del mondo
Nonostante il rallentamento, la Cina resta il paese che ha maggiore influenza sullo sviluppo mondiale; nei prossimi anni essa probabilmente peserà tra un terzo e la metà della crescita globale del reddito, del commercio e della domanda di materie prime e la sua importanza continuerà ad aumentare insieme alla sua quota dell’economia mondiale (Summers, 2015).
La modifica del suo modello di sviluppo non ha effetti solo negativi sugli altri paesi (Guélaud, 2016, b). Certo, la riduzione nei livelli di acquisto delle materie prime sta portando rilevanti danni all’America Latina, a diversi paesi africani e a qualcuno asiatico. Più in generale il rallentamento delle importazioni, generato, oltre che dalla riduzione nei tassi di crescita, anche dall’aumento della percentuale dei prodotti fabbricati in patria – tra l’altro, la componente di importazioni dei consumi è in genere di circa 11 punti inferiore a quella degli investimenti – e dalla maggiore qualificazione delle produzioni, danneggia diversi paesi nel mondo, tra cui anche Germania, Corea del Sud, Giappone; d’altro canto, la crescita degli investimenti esteri, lo sviluppo dei grandi progetti della “nuova via della seta”, il varo di diverse banche di investimento per i paesi emergenti, la spinta del turismo, dovrebbero servire a riequilibrare almeno in parte la partita. Così la forte crescita del turismo dovrebbe portare benefici a diversi paesi asiatici, Giappone, la Corea del Sud, Thailandia, Vietnam, Taiwan; in alcuni di tali paesi l’aumento della spesa dei viaggiatori cinesi negli ultimi anni ha compensato la riduzione delle esportazioni. La crescita delle delocalizzazioni verso altri paesi, indotta dall’aumento del costo del lavoro, favorisce diverse realtà, dal Vietnam, all’Africa del Sud, alla Thailandia, alle Filippine.
Conclusioni
L’economia mondiale rallenta a causa di problemi economici, finanziari, politici non risolti e la situazione non appare brillante sino a tutto il 2018. Sarebbero necessari, tra l’altro, maggiori stimoli alla domanda e agli investimenti (Ragot, 2016), frenati invece, tra l’altro, da interessi forti e da un alto livello di indebitamento.
Ma tale rallentamento appare distribuito in maniera non uniforme sulla superficie del globo. La volata dello sviluppo continua ad essere comunque tirata dai paesi asiatici. Al di la del fatto che le autorità cinesi devono imparare a gestire meglio la finanza e a mandare segnali più chiari al mercato, non sembrano esserci ragioni importanti che facciano temere che le cose in Cina si potrebbero deteriorare fortemente.
Il paese dovrebbe proseguire con i suoi programmi di ristrutturazione dell’economia, certo senza escludere qualche intoppo. Ma bisogna avere una visione realistica delle cose e considerare che la sua influenza sul resto del mondo appare, al momento, insostituibile. In particolare anche nel 2016 il paese sarà determinante nel fissare la strada dell’economia mondiale.
Appendice
Non molti anni fa i politologi anglosassoni si domandavano se la Cina, sviluppandosi, si sarebbe rivelata come una attrice “responsabile” del sistema economico e politico globale (Stephens, 2015). Ma appare sempre più chiaro che la crescita del paese è l’evento più importante della nostra epoca e che Pechino intende essere ormai un produttore di regole, non un allievo ubbidiente ai vecchi padroni, anche perché l’Occidente le ha offerto sino ad oggi appena uno strapuntino al tavolo del potere mondiale. Ma questa sarebbe un’altra storia da raccontare.
Pubblicato su Sbilanciamoci! il 12 gennaio 2016.
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Testi citati nell’articolo
Authers J., “A frail economy caught in China’s tumble”, Financial Times, 8 gennaio 2016.
Guélaud C., “A peine repartie, l’économie mondiale patine », Le Monde, 8 gennaio 2016a
Guélaud C., “Les deux faces de la décélération en Asie », Le Monde, 8 gennaio 2016b
Ragot X., “Le progrès technique n’est pas le problème », Alternatives Economiques, n. 353, gennaio 2016
Stephens P., “Now China starts to make the rules”, Financial Times, 29 maggio 2015
Summers L., “Grasp the reality of China rise”, Financial Times, 8 novembre 2015
The Economist, “Doughty but not superhuman”, 26 settembre 2015
Zhang J., “Deflate stock market and allow China’s fortunes to swell”, Financial Times, 4 gennaio 2016