“Compromessi” contro “soluzioni”. Quella che dovrebbe essere la parola chiave dell’Unione europea è passata dalle labbra dei dirigenti di Bruxelles a quelle di David Cameron. L’Ue sembra oramai cedere alle “intese possibili”, spesso minimali, mentre il premier britannico, nella sua difficile, forse impossibile corsa verso una rinegoziazione sostanziale della sua partecipazione al consesso dei Ventotto, parla di “soluzioni” (citando, invero, quanto è riuscito a far scrivere nelle conclusioni del Consiglio europeo di dicembre scorso). L’ambizione a costruire un futuro sembra passare dalle istanze comuni a quelle nazionali.
Guardando i temi sul tavolo nelle ultime settimane quel che si vede è una progressiva resa dell’ambizione comunitaria verso le forti posizioni assunte dai governi per regolare da sé, al di fuori di ogni collaborazione, i problemi che li attanagliano. Mentre da Bruxelles alle volte si chiede unità e altre si alzano le mani.
Sull’immigrazione il fallimento di ogni reale coordinamento europeo è davanti agli occhi di tutti: ingressi che non si riescono a fermare, perché manca una politica estera condivisa, nonostante i buoni progetti che arrivano da Federica Mogherini per stabilire o rafforzare relazioni e piani che portino al contenimento dei flussi con i paesi di origine e transito. L’accordo con la Turchia, risolto, al momento, con un versamento di soldi e qualche passo in più su un probabilmente inutile, in questi anni, negoziato di adesione, non sta portando grandi frutti. Il progetto di una guardia di frontiera comune fallirà u una scarsa convinzione da parte di troppi Stati membri e su una mancanza di mezzi che i governi faticheranno a fornire. Anche perché, è sempre più evidente, ogni Capitale sta giocando la sua partita da sola, chiudendo le frontiere, stringendo i controlli, e spingendo di fatto sempre più la stessa Europa fuori da Schengen.
Cameron fallirà nel suo tentativo di rovesciare il rapporto del Regno Unito con l’Unione europea, ma qualcosa otterrà, soprattutto perché tanti altri governi la pensano come il suo. Ieri il premier britannico ha trovato un largo accordo con il collega ungherese Victor Orban, e molti altri sono pronti a sostenerlo. Sarà qualche altro mattone che verrà tolto alla costruzione europea.
La nuova Polonia euroscettica (ma forse anche di più di questo) sta seguendo le orme della vicina Ungheria nella limitazione dei diritti civili. E’ stata approvata la legge che pone sotto il diretto controllo del governo la stampa di proprietà statale e da Bruxelles prima è partita qualche minaccia, poi ieri è arrivato uno stop, non si andrà avanti, pare, con le minacce di sanzioni.
C’è paura verso le forze politiche più euroscettiche, che stanno influenzando enormemente le scelte dei governi e dell’Unione stessa. C’è una ricorsa, non c’è una risposta, non c’è un’offerta di alternativa. I danni fatti negli anni delle politiche di austerità stanno producendo i loro frutti ora: ovunque si voti le forze politiche che più contestano le scelte dell’Unione europea hanno grandi successi, dalla Finlandia (che, assurdamente, per applicare le teorie di austerità su una struttura economica sana, ha distrutto tutta la sua forza), alla Grecia, al Portogallo, alla Polonia, all’Olanda, alla Gran Bretagna, alla Danimarca e via elencando. Anche in Italia la maggior forza di opposizione, il Movimento 5 Stelle, ha tra i principali obiettivi l’uscita dalla moneta unica e l’allontanamento da Bruxelles.
Il panorama non è tutto negativo, alcuni progetti stanno procedendo, come l’Unione bancaria, ma il nodo centrale è che si è esaurita tra i cittadini la “forza propulsiva” dell’Unione europea. E’ facile attaccare la Commissione europea, dire che non ha forza, che si perde in battaglie di potere interne, che non sa orientarsi. Ma la Commissione, qualunque cosa ne dicano quelli che dicono che l’Ue non è “democratica”, è un’espressione di governi, che si confronta con un Consiglio europeo ostile, dove le cancellerie sono in contrasto tra loro e non intendono cedere nulla al livello comune. Il piano sull’immigrazione, ad esempio, la Commissione lo ha messo a punto. E’ forse timido, forse non risolutivo. E’ vero, ma c’è. Però se gli Stati non fanno neanche quel minimo sforzo che è necessario per implementarlo, Jean-Claude Juncker, oltre a denunciare le carenze, cosa può fare? Se Juncker viene lasciato solo, anche dal suo partito, come può sanzionare Ungheria e Polonia per i loro passo indietro sui diritti civili?
La verità è che siamo allo stallo, alla sopravvivenza quotidiana, al tentativo di non dichiarare fallimento con dei soci che non hanno nessuna voglia di fare un qualsiasi sforzo per rilanciare l’Unione. Mancano le idee, si insegue la “pancia” degli elettori, senza tentare di spiegare i vantaggi di una “Unione che fa la forza”, ma facendo credere ai cittadini che l’ognun per sé possa portare frutti migliori. Come se la Danimarca, da sola, possa pensare di frenare un fenomeno epocale come la migrazione (frutto di tensioni i n aree del Mondo dove invece l’Unione potrebbe giocare un ruolo importante), come se l’Italia, da sola, possa pensare di essere un player economico globale tornando alla Lira mentre il gigante cinese non riesce a difendere il suo yuan.
Ci stiamo avvolgendo, stringendo in una crisi dovuta ad anni di scelte sbagliate, di leader incapaci di affrontare le crisi, in particolare quella economica negli anni dal 2008 al 2013. Si è perso il filo, è obiettivamente difficile per chiunque ritrovare il bandolo della matassa, a questo punto, ma uno sforzo va fatto, intanto ammettendo che le “soluzioni” sono meglio dei “compromessi”.