di Roberto Palea, presidente del Centro Studi sul Federalismo
Si tratta di un appello che richiede una risposta volontaria, per quanto responsabile, sui quali contenuti nessuna autorità terza è in grado di intervenire, nel rispetto più assoluto della sovranità nazionale di ciascuno Stato che fa parte della COP 21. .. I mezzi finanziari previsti per il Green Climate Fund (istituito dalla Conferenza sul Clima di Cancún del 2010), 100 miliardi di dollari all’anno, a partire dal 2020, risultano insufficienti.. È impossibile esprimere “insieme” qualsiasi politica comune tra 195 Stati nel settore ambientale, senza preordinare un’istituzione sopranazionale cui venga demandata l’attuazione di detta politica comune, adeguatamente finanziata. .. Agenzia o di un’Organizzazione mondiale per l’ambiente sotto l’egida dell’ONU, sovraordinata rispetto agli Stati della COP.
L’accordo sul clima di Parigi del 12 dicembre 2015 va considerato di portata “storica” non solo perché “universale”, in quanto approvato da quasi tutti i paesi della Terra (195 Stati), ma perché questi hanno riconosciuto (sebbene con almeno 20 anni di colpevole ritardo) che il riscaldamento globale è un fenomeno di dimensioni mondiali e quindi va affrontato “insieme” da tutti. L’accordo ha inoltre riconosciuto che è necessario il rapido superamento dell’era dell’energia primaria prodotta mediante l’utilizzo di carburanti fossili (carbone, petrolio, gas naturale) in quanto esso comporta rischi incalcolabili, ad opera dell’uomo, per la sopravvivenza stessa del genere umano.
L’accordo prevede di contenere l’aumento della temperatura media del pianeta nel secolo in corso ben al di sotto della soglia di 2° C. rispetto all’era preindustriale, perseguendo l’obiettivo del limite di 1,5° C. Il rispetto di questo limite richiede la completa decarbonizzazione dell’economia mondiale ben prima del 2050, epoca che era stata indicata dall’ONU, prima della Conferenza di Parigi, come coerente con il limite dei 2° C., ora, giustamente, considerato troppo elevato.
Il regime energetico adottato nelle varie epoche storiche ha sempre influito in misura determinante sul modo di produrre, sulla struttura dell’economia e della stessa società. Il tendenziale superamento dell’era dei carburanti fossili rappresenta una vera rivoluzione perché comporta la transizione verso un paradigma energetico completamente diverso dall’attuale, che dovrà essere basato sul risparmio energetico, l’uso razionale dell’energia e l’utilizzo delle fonti rinnovabili per la produzione di energia (in particolare la fonte solare e quella eolica).
Il riconoscimento “universale” delle potenzialità delle fonti di energia rinnovabili e la pur moderata spinta ricevuta dall’accordo potrebbero accendere il rapido ed autonomo interesse di molti operatori economici per il settore della decarbonizzazione e dello sviluppo sostenibile, in alternativa all’investimento negli affari dei petrolieri e delle imprese estrattive del carbone, imprimendo un nuovo rapido sviluppo al settore della green economy.
Tanto sono impegnativi ed ambiziosi gli obiettivi che l’accordo si prefigge quanto deboli e scarsamente credibili sono i mezzi proposti per conseguirli. Esso non fornisce alcuna precisa “road map” né obiettivi o target di riduzione delle emissioni, fissati secondo le differenti aree economiche.
La strategia dell’Accordo per l’attuazione delle riduzioni di emissioni inquinanti si basa principalmente sui piani nazionali (Intended Nationally Determined Contributions – INDC) richiesti a tutti gli Stati e presentati da 188 di essi.
Poiché l’attuazione di questi piani, secondo le stime del segretariato della Conferenza dell’ONU, avrebbe consentito il contenimento della temperatura solo tra 2,7-3° C., quindi in misura del tutto insufficiente rispetto al target di 1,5° C., essi sono stati rinviati ai mittenti con la richiesta di revisionare i loro piani nazionali entro il 2018. Si tratta di un appello che richiede una risposta volontaria, per quanto responsabile, sui quali contenuti nessuna autorità terza è in grado di intervenire, nel rispetto più assoluto della sovranità nazionale di ciascuno Stato che fa parte della COP 21.
I mezzi finanziari previsti per il Green Climate Fund (istituito dalla Conferenza sul Clima di Cancún del 2010), 100 miliardi di dollari all’anno, a partire dal 2020, risultano insufficienti. Inoltre non esiste alcuna sanzione o penalità per i paesi che non dovessero rispettare gli impegni assunti. L’accordo si presenta quindi debole e inconsistente per quanto riguarda ogni strumento attuativo, pur rimanendo il suo significato “storico” per quanto riguarda l’ambizioso obiettivo che si propone.
Il fatto è che un accordo internazionale può “fotografare” una situazione statica ma non serve per governare una realtà dinamica, in continuo movimento e largamente imprevedibile qual è quella climatica. È impossibile esprimere “insieme” qualsiasi politica comune tra 195 Stati nel settore ambientale, senza preordinare un’istituzione sopranazionale cui venga demandata l’attuazione di detta politica comune, adeguatamente finanziata.
I miglioramenti che si produrranno, sicuramente insufficienti, non saranno la conseguenza di misure comprese nell’accordo di Parigi ma il risultato delle iniziative individuali degli Stati, della logica degli eventi e dell’azione delle forze del mercato (così come, d’altronde, è successo con il protocollo di Kyoto).
Non a caso, da tempo, i federalisti hanno proposto la costituzione di un’Agenzia o di un’Organizzazione mondiale per l’ambiente sotto l’egida dell’ONU, sovraordinata rispetto agli Stati della COP. Detta Organizzazione dovrebbe essere dotata di poteri reali e di autonomia finanziaria ed essere gestita da un’alta autorità indipendente, con il compito di realizzare un piano mondiale di riduzione equilibrata delle emissioni di CO2 nell’atmosfera, nonché del compito di adattare gli obiettivi secondo l’evolvere della situazione, di aiutare finanziariamente i paesi più sfavoriti, di realizzare interventi organici di contrasto delle emergenze ambientali globali, di sviluppo delle nuove tecnologie nel settore energetico e di loro trasferimento ai paesi in fase di industrializzazione.
La logica conseguenza dello storico accordo di Parigi, che manca completamente (e che speriamo sia rimasto soltanto “in sospeso”), è proprio quello dell’urgente costituzione di una tale istituzione comune, in grado di far affrontare “insieme” il problema globale del riscaldamento climatico e delle sue conseguenze.
Purtroppo siccità, tempeste, alluvioni, riscaldamento superficiale di terra, oceani e ghiacciai si stanno sviluppando a ritmi di crescente intensità. L’incapacità dei nostri governanti, i limiti delle loro visioni “corte”, la lentezza delle decisioni comuni, la forza degli interessi costituiti a difesa del vecchio regime energetico consentiranno all’umanità di provvedere in tempo ed evitare la catastrofe?
Pubblicato sul sito del Centro Studi sul Federalismo il 7 gennaio 2016.