Bruxelles – Un bel sogno a cui per un po’ è stato bello credere ma dopo cui era inevitabile dovere tornare alla realtà. È più o meno con questi occhi che sempre più europei guardano in queste settimane all’area Schengen. All’inizio, quella che fosse inevitabile rinunciare alla libera circolazione europea pareva solo la convinzione di pochi pessimisti, che di fronte al pericolo terrorismo o alla pressione migratoria non vedevano soluzione migliore che rinchiudersi nei rassicuranti confini nazionali sperando così di tagliare fuori anche i problemi. Ma con i mesi che passano e i problemi che restano, l’idea sta continuando a guadagnare sostenitori e così, anche chi lo fa controvoglia, decide che è meglio rinunciare ad una libertà, con tutti i suoi vantaggi, piuttosto che restare i soli (o quasi) a portarne il peso.
È quello che è successo in questi giorni con il ripristino dei controlli alle frontiere in Danimarca: “Stiamo semplicemente reagendo ad una decisione presa in Svezia. Non è per nulla un momento felice”, ha spiegato Lars Lokke Rasmussen, primo ministro di uno dei Paesi che nel 2015 si è dimostrato tra i più accoglienti nei confronti dei migranti. D’altra parte la decisione svedese di reintrodurre i controlli di identità, ha fatto notare Rasmussen, potrebbe “aumentare il rischio che un elevato numero di migranti illegali si accumulino intorno a Copenaghen”. Ed ecco l’effetto domino. Attualmente sono sei gli Stati membri che hanno deciso di sospendere temporaneamente la libera circolazione: oltre a Svezia e Danimarca anche Norvegia, Austria, Germania e Francia. In passato hanno reintrodotto misure simili la Germania e la Slovenia. L’Ungheria si è chiusa dietro muri di filo spinato: un cattivo esempio seguito dall’Austria, che sta costruendo una barriera al confine con la Slovenia, mentre quest’ultima a sua volta sta erigendo una barriera per “proteggersi” dai migranti in arrivo dalla Croazia. Insomma ognuno affronta il problema a modo suo, cercando sempre più spesso la soluzione all’interno dei suoi confini nazionali piuttosto che a Bruxelles.
Una reazione che, a dirla tutta, non sorprende. Perché si dovrebbe dare ancora fiducia all’Europa quando tutti i meccanismi che avrebbero dovuto rendere più gestibile la crisi dei rifugiati si stanno mostrando assolutamente inefficaci? Basta guardare al meccanismo della relocation che avrebbe dovuto alleggerire Italia e Grecia dai troppi profughi in arrivo: dal nostro Paese sono partite appena 190 persone quando il ritmo avrebbe dovuto essere di circa 1.600 trasferimenti ogni mese per raggiungere il target delle 40mila partenze promesse in due anni. Così pure per i reinsediamenti e cioè l’accoglienza di rifugiati direttamente dai Paesi terzi: anche questo sistema, che dovrebbe contribuire a limitare i mortali viaggi della speranza, funziona più che a rilento. Basti pensare che a margine dell’ultimo Consiglio europeo di dicembre si è organizzata una riunione ristretta di Paesi europei pronti ad accogliere rifugiati dalla Turchia, e contava appena dieci partecipanti su 28 totali, la cosiddetta “coalizione dei volenterosi”.
Ma di volenterosi pronti a lottare per l’integrazione europea, di questi tempi, se ne vedono sempre meno. Resiste la cancelliera tedesca, Angela Merkel, che anche in questi giorni continua a non cedere alle pressioni degli alleati della Csu che chiedono l’introduzione di un limite massimo al numero di migranti che possono entrare in Germania. Sarà con ogni probabilità proprio Merkel uno dei più preziosi alleati della Commissione europea che, nei prossimi mesi, sarà impegnata su uno degli snodi chiave della questione immigrazione: la revisione del regolamento di Dublino sull’asilo politico. Il piano dell’esecutivo Ue è di riuscire a rivedere la regola secondo cui è il primo Paese di arrivo a doversi occupare di gestire la domanda di asilo di un migrante nei primi sei mesi del 2016, ma già si sa che ci saranno da affrontare fortissime resistenze dei Paesi del nord e dell’est europeo. Così pure come avrà vita tutt’altro che facile la proposta della Commissione europea di istituire una guardia frontiera europea che abbia il potere di intervenire negli Stati membri in difficoltà anche senza il loro consenso.
Insomma la strada per arrivare ad una efficace gestione europea della questione immigrazione appare, dopo mesi di tentativi, ancora tutta in salita. È quindi inevitabile che si arrivi a considerare Schengen solo un bel sogno da cui ci stiamo svegliando? Non è detto, ma certo per preservare i vantaggi della libera circolazione occorrerà essere pronti, nei prossimi mesi, anche a sacrifici e compromessi che oggi sempre meno capitali sembrano essere disposte a fare.