di Gennaro Carotenuto
Il meglio della rivoluzione bolivariana, nata dal fallimento sia economico che etico del modello neoliberale che le destre vogliono riportare in auge in tutto il continente [latinoamericano], è dietro le spalle. Il colpo di timone evocato da Hugo Chávez difficilmente potrà essere dato dal governo attuale, dalla burocrazia statale, chavista e antichavista insieme, unita nella ricerca del vantaggio personale, dallo stalinismo di un discorso antiquato e opportunista, che vede in ogni critico un traditore della patria. Tanto meno potrà essere dato dopo la sconfitta nelle elezioni parlamentari [del 6 dicembre].
Se colpo di timone dovrà esserci, di qui alle elezioni presidenziali, o anche dopo, se queste dovessero premiare l’opposizione, dovrà essere dal basso e a sinistra, sapendo che il senso del chavismo, fare in parti uguali la mela del petrolio che cresce spontanea nel giardino dell’Eden che è il Venezuela, e che pure ha ridonato dignità a milioni di venezuelani, non è bastato e non basterà a dare stabilità a un modello di paese non escludente. Ieri come allora, la chiave di tutto è nel creare il potere popolare ma soprattutto nel creare lavoro degno e di massa, qualunque cosa ciò significhi nel XXI secolo e ammesso e non concesso che ciò non sia una mera utopia, in Venezuela come in qualunque parte del mondo. Se c’è una chiave comune, la partita, mi si permetta, dal Venezuela alla Francia alla Siria, è innanzitutto quella contro la sparizione del lavoro degno, come era stato concepito dal movimento operaio tra XIX e XX secolo, come motore del futuro per le generazioni oggi giovani e per quelle future. Sarà chi scioglierà il rebus del lavoro nel mondo post-industriale a conquistare le menti e i cuori delle masse nel XXI secolo.
Non è obbiettivo di questa nota fare un bilancio storico del chavismo. Va riconosciuto che il grande merito del reinserimento di milioni di proletari nella vita sociale, politica ed economica, dalla quale erano completamente esclusi durante la IV Repubblica, quella che invece li massacrava nelle piazze, al quale si aggiunge quello del pieno diritto di un paese e di una regione considerato fino a ieri una semi-colonia a svolgere una politica estera proattiva, non è stato controbilanciato dal superare altre dipendenze storiche. Chi scrive ne discusse con Chávez stesso almeno dal 2004; tali dipendenze rendono ogni conquista, anche la più importante, come provvisoria.
Mi riferisco in particolare alla dipendenza dal petrolio. Diciassette anni nella storia sono un periodo medio, non lungo rispetto a ritardi plurisecolari, ma neanche breve per impostare una trasformazione di lungo periodo. Il Venezuela ha reso meno ingiusta ma non ha trasformato la propria economia, non ha creato né una base industriale forse fuori tempo, né riattivato la propria produzione agricola in senso cooperativo e artigianale, in larga misura perdendo (e forse è un bene) anche il treno della velenosa trasformazione agroindustriale che tanto danno fa dall’Argentina alla Colombia passando per il Brasile. Il Venezuela, in buona sostanza, non si è liberato della rendita petrolifera come unica risorsa con la quale si fa tutto il bene e tutto il male della storia di questo paese.
Il petrolio, la dipendenza secolare dal petrolio (tanto più a 40$ al barile), è il cavallo di Troia che permette oggi l’aggiotaggio e la guerra economica, che sta minando le conquiste del chavismo e la fiducia che questo possa essere il modello futuro del paese. Al nemico si può legittimamente dare nome e cognome, nei tagliagole della guarimba, i Leopoldo López e le María Corina Machado, la parte di opposizione eversiva ed assassina che solo la malafede dei media mainstream ridipinge come democratica, ma questi vedono solo la faccia visibile di un’aggressione mai arrestata in diciassette anni e che per molti versi, non solo col golpe dell’11 aprile 2002, ricordano l’esperienza di aggressione, demonizzazione, delegittimazione, vissuta da ben prima di essere eletto il 4 settembre 1970 dal presidente Allende in Cile, attaccato da destra e da sinistra esattamente come si è fatto in questi anni con Chávez, per poi rimpiangerlo dopo l’epilogo dell’11 settembre.
Ma faremmo torto alla nostra intelligenza se non vedessimo che nel petrolio, oltre alla possibilità di fare giustizia sociale e dare tetto, educazione, salute – ma non lavoro – c’è anche il germe dell’inefficienza, del clientelismo, della corruzione e, soprattutto del mancato superamento della dipendenza storica da questo. Ha ragione Nicolás Maduro a parlare di guerra economica contro il paese, ma come poteva un Venezuela che continua a dovere tutto all’oro nero – ed è un demerito storico della rivoluzione bolivariana non aver alleviato tale dipendenza quando il prezzo era altissimo – non essere vittima oggi della tempesta data dal crollo del prezzo del greggio?
Il risultato elettorale del 6 dicembre è netto ed è in favore del MUD, il cartello delle destre. Come sempre in questi diciassette anni hanno parlato le urne e una partecipazione elettorale eccezionale; sono dati che rendono ammirevole la storia democratica del paese in questo scorcio di XXI secolo. In quel che resta del suo mandato Nicolás Maduro dovrà governare con il parlamento contro, i media come sempre contro, le classi dirigenti contro, la guerra economica contro, un quadro internazionale revanscista che affiderà al neo-presidente argentino Mauricio Macri il lavoro sporco, una parte della classe dirigente chavista, quella che in questi anni si è solo data una patina di rosso, che farà il suo gioco preparandosi al dopo. È un compito titanico per il quale difficilmente basterà la dedizione del collaboratore più stretto del presidente Hugo Chávez, lo straordinario dirigente politico scomparso a meno di sessant’anni il 5 marzo 2013.
Restano da dire due cose: da Felipe González [ex primo ministro spagnolo] fino all’ultimo velinaro dei nostri giornali, tutti quelli che in questi mesi avevano spergiurato che le elezioni non si tenessero, o che ci fossero dei brogli governativi o addirittura un auto-golpe, sono stati come sempre smentiti in tutta la loro malafede e volontà di disinformare, diffamare, distruggere un processo democratico e popolare. Ancora una volta il Venezuela è andato a votare in pace e ancora una volta i trinariciuti chavisti hanno accettato la sconfitta. Nella sua caoticità il Venezuela chavista in tutti questi anni ha dimostrato di essere una democrazia rappresentativa, rispettosa della volontà popolare e sarebbe bene se ne prendesse atto.
E qui va la seconda e finale questione: alla democrazia rappresentativa e quindi all’alternanza in America Latina non c’è alternativa e proprio il rispetto nei processi elettorali che le sinistre hanno saputo vincere per quindici anni in Venezuela e altrove lo testimonia. Nell’ora nella quale l’opposizione di destra vuole tornare a essere governo, sta alla sinistra difendere quanto conquistato. Sta alla sinistra dimostrare se davvero in questi quindici anni, nel continente più politicizzato del mondo, questa ha modificato i rapporti egemonici rispetto all’epoca delle dittature e della notte nera neoliberale. Se è così, se qualcosa di solido è stato costruito in questi anni, vorrà dire che ripartiremo da equilibri più avanzati e meno escludenti e questa non tornerà.
Pubblicato su gennarocarotenuto.it il 7 dicembre 2015.