di Thomas Fazi
In questi giorni diversi commentatori (si veda, per esempio, qui, qui e qui) hanno evidenziato come l’imminente introduzione dell’unione bancaria (a partire dal primo gennaio 2016) – ed in particolare della normativa di risoluzione delle crisi bancarie in essa contenuta, ossia il famigerato “bail-in”, che prevede, in caso di dissesto di una banca, che il salvataggio venga pagato in primo luogo dagli azionisti, poi dagli obbligazionisti e infine dai depositanti che hanno oltre 100 mila euro – rischi non solo di penalizzare milioni di risparmiatori ignari, ma anche di generare una nuova crisi di fiducia nei confronti delle banche dei paesi più “deboli”, peggiorando ulteriormente il già pesantissimo credit crunch che attanaglia i paesi della periferia (in particolare l’Italia). In tal senso, il recente decreto “Salvabanche” del governo, che ha mandato in fumo 728 milioni di euro di obbligazioni subordinate appartenenti a migliaia di risparmiatori, non sarebbe che un assaggio di ciò che verrà.
Pochi, però, si sono domandati quale sia la motivazione di fondo che sottende alle nuove direttive europee. Dobbiamo concludere che si tratta dell’ennesimo esercizio di autolesionismo collettivo, come tanti ce ne sono stati nella travagliata storia del nostro continente? O dobbiamo prendere in considerazione un’altra possibilità, più inquietante ma anche, forse, più plausibile: ossia che l’unione bancaria – insieme a tutte le altre misure adottate negli ultimi all’interno della cornice del nuovo “regime di austerità” europeo – si inserisce in una strategia ben precisa, finalizzata a favorire alcuni paesi a scapito di altri?
Un anno fa Emiliano Brancaccio scriveva che il processo di “aggiustamento asimmetrico” – ossia tutto a scapito dei paesi della periferia e delle classi subalterne, con i risultati che vediamo – a cui abbiamo assistito in questi anni in Europa andrebbe letto alla luce di quello che Marx e Hilferding definivano «centralizzazione dei capitali». L’idea che è che, insita nel capitalismo, vi sia una tendenza alla «concentrazione di capitali già formati» e dunque al superamento della loro autonomia individuale, che si realizza mediante l’«espropriazione del capitalista ad opera del capitalista, della trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi»: vale a dire, mediante uscite dal mercato dei capitali più deboli, liquidazioni, acquisizioni, fusioni, e così via.
Va da sé che questo processo non è indipendente dalla “politica”, che può contribuire a fissare «condizioni di solvibilità» particolarmente restrittive per i capitali in lotta tra loro, aggravando la posizione dei capitali più deboli e accelerando il processo di centralizzazione. Ebbene, da questo punto di vista, Brancaccio notava giustamente che
non è difficile rilevare che l’intera architettura dell’Unione monetaria europea risulta preposta a favorire questa tendenza. Già prima della crisi si registravano importanti fenomeni di accorpamento dei capitali, specialmente in campo bancario. Si trattava tuttavia di dinamiche in larga misura confinate entro i perimetri dei singoli paesi. Dopo la crisi, invece, si assiste a un salto di qualità del processo di centralizzazione. La divaricazione delle insolvenze, i relativi processi di desertificazione produttiva e le connesse, crescenti difficoltà delle banche nelle periferie dell’Unione, preannunciano una nuova crisi bancaria e una nuova fase di liquidazioni e acquisizioni, questa volta non più interne ai confini nazionali ma realizzate su scala europea. Il passaggio di fase, del resto, è intrinseco agli indirizzi politici correnti. Dall’azione del banchiere centrale che, contrariamente alla vulgata, contribuisce a fissare condizioni di solvibilità tutt’altro che accomodanti per le periferie europee; alla politica fiscale nazionale, che si fa più restrittiva proprio nei paesi in maggiore sofferenza; fino alla decisiva unione bancaria, che esclude forme di assicurazione europea sui depositi, dispone di risorse limitatissime per fronteggiare nuove crisi bancarie e si costituisce esplicitamente con lo scopo di liquidare gli istituti più deboli: insomma, ogni elemento della governance europea sembra voler preludere a una escalation del processo di centralizzazione capitalistica. Vale a dire, a una resa dei conti definitiva tra i capitali più fragili dislocati soprattutto nel Sud Europa e i capitali più forti situati prevalentemente in Germania.
Impossibile non leggere negli eventi degli ultimi mesi – dal niet della Commissione europea alla richiesta italiana di poter creare una bad bank su cui scaricare le perdite delle banche, evitando così una crisi bancaria sempre più probabile; alla proposta di Schäuble di “pesare” i titoli di Stato in pancia alle banche diversamente a seconda della loro nazionalità, col risultato di svalutare automaticamente le banche dei paesi europei più deboli; al crescente peso degli operatori stranieri nei sistemi bancari dei paesi periferici (si veda a tal proposito questo articolo di Yanis Varoufakis); fino alla recente vicenda delle quattro banche italiane salvate a spese dei risparmiatori – una drammatica conferma delle fosche previsioni di Brancaccio.
Previsioni che tra l’altro trovano conferma anche nella moria silenziosa delle banche europee a cui abbiamo assistito dal 2008 in poi. Nel recente Report on financial structures della BCE si evince che a fine 2014 vi erano 5.614 istituzioni creditizie nell’eurozona, a fronte dei 6.054 di fine 2013 e di ben 6.774 della fine del 2008. In altre parole, sono più di 1.000 gli istituti che sono scomparsi dall’inizio della crisi. Il rapporto rivela anche che il 69 per cento del sistema bancario è oggi concentrato fra Austria, Francia, Germani e Italia, in crescita rispetto al 67 per cento del 2008. È importante notare che questo non è solo un effetto della crisi, ma, appunto, come scrive l’analista finanziario Maurizio Sgroi, «una conseguenza del modello di politica finanziaria che le autorità europee stanno con grande fatica provando a incardinare».
Oltre all’unione bancaria, un altro pilastro di questo “modello” è la prossima creazione del mercato unico dei capitali, con cui si cerca di spezzare il nodo atavico che collega i paesi europei alle loro banche, sostituendo sempre più il finanziamento bancario delle imprese, giudicato per varie ragioni fonte di inefficienze, con quello che arriva dal mercato dei capitali, attraverso il rilancio delle cartolarizzazioni e l’ulteriore liberalizzazione dei movimenti di capitale. Gli effetti di questo processo si stanno già facendo sentire; la stessa BCE fa notare che «il consolidamento del settore bancario è largamente dovuto alle pressioni per ridurre i costi, in particolare in un contesto di integrazione finanziaria» crescente, e che dal 2008 in poi tali pressioni sono aumentate.
Per concludere, a quasi dieci anni dallo scoppio della crisi finanziaria, in un contesto di crisi economica e sociale ancora profondissima, le autorità europee non hanno di meglio da fare che impegnarsi con tutte le loro forze per favorire un ulteriore consolidamento di quelle stesse grandi banche internazionali “troppo grandi per fallire” – molte delle quali sono localizzate proprio nella ligia Germania – che della crisi sono le principali responsabili. Se non è guerra di classe – dall’alto – questa, non so cosa lo sia.