di Giovanni Silvestrini
Si sono sentiti e letti molti commenti a caldo sugli esiti della COP21. Nella maggior parte dei casi i pareri sono stati favorevoli, ma non sono mancati attacchi al documento finale. E non parliamo solo delle sparate di Bjorn Lomborg o di qualche giornalista scettico. Ci sono anche ambientalisti impegnati che sono rimasti delusi.
Io ritengo che i giudizi liquidatori siano sbagliati e che invece l’esito di Parigi sia molto importante.
Vediamo perché. La prima riflessione da fare riguarda le aspettative. Tra gli scontenti troviamo alcuni di coloro che nei giorni scorsi diceva «Ora o mai più». Ma sbagliava prospettiva. La lotta per il clima ha visto una serie di passaggi, alcuni più importanti come nel caso delle conferenze di Kyoto e di Parigi, altri deludenti. Ma tutti si collocano in un percorso progressivamente più ambizioso. Certo, parliamo di un’evoluzione drammaticamente lenta rispetto alla minaccia che incombe, ma le evoluzioni sono condizionate dai rapporti di forza esistenti a livello mondiale. Questi però si stanno modificando, con gli interessi dei combustibili fossili sempre più in difficoltà. Peraltro, i cambiamenti non sono lineari ma subiscono forti accelerazioni e i prossimi appuntamenti consentiranno di alzare notevolmente l’asticella degli obiettivi.
Certo ci sono molti elementi che avremmo voluto vedere nel documento finale e che mancano, ma nel suo insieme quest’accordo darà una forte spinta alla lotta climatica. Innanzitutto, e questo è uno dei punti forti dell’accordo di Parigi, il coinvolgimento di praticamente tutte le nazioni del pianeta nella lotta climatica rappresenta un decisivo e non scontato passo in avanti. La disponibilità della Cina era nota da un anno, ma non era certa l’adesione dell’India o quella dell’Arabia Saudita che dovrà organizzarsi per diversificare la propria economia rispetto alla vendita del petrolio.
Passiamo poi alla definizione dei targets di lungo periodo. L’introduzione dell’indicazione della soglia di 1,5 °C e dell’obiettivo di arrivare nella seconda parte del secolo ad un bilanciamento tra emissioni e accumulo di CO2 (un elemento quest’ultimo che potrà valorizzare l’arricchimento di carbonio nei suoli) indicano un percorso a cui inchiodare d’ora in poi i singoli governi. Ad iniziare dal nostro. C’è infatti un’evidente scollamento tra questi obiettivi e la maggior parte delle politiche al momento avviate. E il raggiungimento di un accordo con tutti i paesi del pianeta rappresenta un potente strumento per chiedere un cambio di passo.
L’Europa, ad esempio dovrebbe rivedere rapidamente i propri obiettivi al 2030 portando al 50 per cento il taglio delle emissioni, al 35-40 per cento la riduzione dei consumi tendenziali e al 33 per cento la quota delle rinnovabili. Per l’Italia si tratta di definire una reale politica climatica, al momento inesistente, che coinvolga energia, industria, edilizia, trasporti e agricoltura. Andrà responsabilizzato un ministro “forte”, come hanno fatto i francesi, o il coordinamento delle varie politiche dovrà essere gestito dalla presidenza del consiglio.
Anche regioni ed enti locali saranno sollecitati ad agire con maggiore incisività dall’accordo di Parigi.
Un altro aspetto riguarda la necessità/possibilità di rileggere gli investimenti di lungo periodo, dai rigassificatori agli oleodotti, dalle centrali alle autostrade, in relazione alla loro coerenza con un percorso di decarbonizzazione per evitare che risultino “stranded”, inutilizzabili, sottoutilizzati o, peggio, controproducenti.
Dall’esito della COP21 viene poi un colpo molto duro ai combustibili fossili, destinati sostanzialmente a sparire in poco più di un cinquantennio. La credibilità degli investimenti in questo settore calerà e l’immagine delle multinazionali del settore verrà minata se non cambieranno rapidamente strategie, mentre il movimento “fossil divestment” acquisirà forza e credibilità. Centinaia di miliardi di dollari cambieranno destinazione a favore delle rinnovabili, dell’efficienza, della mobilità elettrica. Un nuovo contesto che consentirà di contenere le tensioni internazionali e di ridurre le diseguaglianze.
Veniamo infine ad un ultimo risultato, indiretto, della conferenza di Parigi. Quello di avere catalizzato l’azione di una molteplicità di attori in grado di accelerare il cambiamento. Dalle iniziative di gruppi di paesi, come nel caso della ventina di nazioni che hanno promesso di raddoppiare gli investimenti nella ricerca energetica, alle strategie di centinaia di città che hanno programmato percorsi di decarbonizzazione; dalle imprese che hanno assunto impegni ambiziosi di riduzione delle emissioni, ai miliardari – è il caso della cordata guidata da Bill Gates – che intendono accelerare l’entrata sul mercato di tecnologie pulite fortemente innovative.
Insomma, con il documento di Parigi abbiamo un’arma in più. Sta a noi utilizzarla nel modo più efficace ed incisivo possibile. Se il protocollo di Kyoto ha portato alla rivoluzione mondiale delle rinnovabili, grazie alla definizione da parte dell’Europa di obiettivi legalmente vincolanti, l’accordo di Parigi potrà rappresentare l’inizio della fine dei fossili.
Pubblicato su duegradi.it il 17 novembre 2015.