di Giuseppe Magnani
728 milioni di euro è l’importo delle obbligazioni subordinate che è stato azzerato da un decreto del governo in una domenica di novembre per salvare quattro banche in crisi: un assaggio anticipato, parziale ma applicato a decine di migliaia di risparmiatori, della normativa europea di risoluzione delle crisi bancarie che entrerà a pieno regime ad inizio 2016. È il cosiddetto “bail-in” che prevede, in caso di dissesto di una banca, che il salvataggio venga pagato in primo luogo dagli azionisti, poi dagli obbligazionisti e infine dai depositanti che hanno oltre 100 mila euro, e solo dopo di questi attivando l’intervento di un fondo di risoluzione. In pratica, saranno in primo luogo i principali clienti della banca a sopportare l’onere maggiore e poi, in via sussidiaria, le altre banche attraverso i versamenti al fondo.
La logica sottostante a questa novità europea è che a rispondere non devono essere più i contribuenti, e cioè che il salvataggio delle banche in crisi non potrà più essere effettuato dagli Stati, che finora hanno corrisposto cifre considerevoli alle banche europee (ma minime in Italia) con conseguente aumento del debito pubblico. In pratica, si sostiene, per salvare le banche prima rispondevano gli Stati facendo gravare l’onere sui contribuenti attraverso la tassazione; ora, invece, a rispondere sono i risparmiatori, anzi quei risparmiatori che hanno scelto di investire nella banca sbagliata: magari, come è successo in questo primo e parziale assaggio di bail-in, perché avevano sottoscritto obbligazioni subordinate ignari del rischio che correvano, in anni in cui la situazione economica e finanziaria degli Stati – e delle banche – era completamente diversa da quella attuale e nella quale il bail-in era lontanissimo persino dall’essere concepito.
Ma questi risparmiatori non sono a loro volta anche contribuenti? Non vi è forse una discriminazione di trattamento fra i contribuenti genericamente intesi e questi contribuenti-risparmiatori che vedono ora azzerati i loro risparmi? Soprattutto se pensiamo che il contributo dei secondi (i risparmiatori) è certo e pienamente quantificabile, mentre quello dei primi (i contribuenti) è indiretto ed eventuale in quanto gli Stati impegnano sì risorse per salvare le banche, ma possono (anzi, devono) nazionalizzarle e poi rimetterle sul mercato una volta risanate, recuperando in tutto o in parte i finanziamenti erogati.
Ma siamo davvero sicuri che l’alternativa sia tra far pagare i contribuenti e far pagare i (alcuni) risparmiatori? Siamo proprio certi che la soluzione individuata in sede europea sia quella giusta?
Chi ha inventato il bail-in forse non ha letto Charles P. Kindleberger, l’economista che contribuì al piano Marshall e che più di altri si è occupato delle crisi bancarie e finanziarie, con un libro che è tuttora riconosciuto da Roubini, Rogoff ed altri economisti come il principale testo sull’argomento, la sua Storia delle crisi finanziarie.
La tesi fondamentale di Kindleberger è che l’onere del salvataggio delle banche in crisi non deve essere sostenuto né dai clienti della banche in questione (cioè i risparmiatori), né dagli Stati (cioè dai contribuenti, che peraltro spesso sono anche risparmiatori); tale onere spetta, in primo luogo, alle banche centrali, che sono state create storicamente proprio per adempiere a questo compito. Scrive Kindleberger: «Il mercato ha bisogno di uno stabilizzatore. È una sciagura che le banche debbano chiedere aiuto al Tesoro anche per le fluttuazioni stagionali. Qualcuno deve assumersi la responsabilità». Chi debba essere questo qualcuno è chiarissimo, Kindleberger lo chiama prestatore di ultima istanza: «Il prestatore di ultima istanza non è il parto della mente di un economista ma emerge dalla pratica del mercato… La Banca d’Inghilterra era prestatore di ultima istanza già nel XVIII secolo».
La banca centrale deve vigilare, sanzionare (anche pesantemente) chi sbaglia, ma quando la situazione diventa critica deve intervenire senza se e senza ma, salvaguardando tutti i risparmiatori, nessuno escluso.
La normativa del bail-in ha preoccupanti somiglianze per i suoi effetti col fiscal compact: anche qui, sono stati introdotti vincoli come quello sul limite al 3 per cento del deficit di bilancio che ha imposto politiche di austerità, o come quello del limite al 60 per cento del debito pubblico degli Stati in rapporto al PIL, che peraltro non trova riscontro alcuno nella storia dei default del debito pubblico: è Rogoff, questa volta, a spiegarci che il più grande default recente del debito pubblico, quello argentino nel 2002, avvenne con un rapporto debito/Pil di poco superiore al 50 per cento! Non è l’incidenza del debito sul PIL a creare problemi di solvibilità, quanto la volontà politica di far fronte agli impegni presi.
E allora? E allora la normativa sul bail-in, come anche quella sul fiscal compact, devono essere riformate radicalmente nel solo modo possibile: da un lato, le crisi bancarie vanno gestite unicamente e completamente dalla banca centrale, dall’altro i debiti degli Stati che aderiscono all’eurozona vanno unificati in un unico debito pubblico europeo, con l’emissione degli eurobond. Ad una sola moneta deve corrispondere un solo debito pubblico, e per le crisi bancarie deve esserci il prestatore di ultima istanza – cioè la banca centrale – e niente altro. Solo così si potranno prevenire le future crisi; altrimenti, rischiamo di innescare bombe ad orologeria che sarà difficile, e costosissimo, gestire poi.
Pubblicato su Valori il 15 dicembre 2015.