E ora Cameron come ne esce? Potrebbe anche uscirne bene, tutto sommato.
Il Consiglio europeo, il consesso dei capi di Stato e di governo dell’Unione, ieri sera ha ascoltato una sua lunga relazione (quaranta minuti) sui quattro punti posti sul tavolo per evitare che, secondo lui, il popolo britannico decida di votare per l’uscita dall’Ue nel referendum che il premier stesso ha convocato. La risposta più gentile è stata che Cameron è stato “vago”, che cioè non si capisce esattamente cosa voglia. Qualcosa è più chiara di altre, allungare a quattro anni il tempo per l’attivazione del diritto dei cittadini dell’Unione di poter approfittare delle misure di welfare britannico (benefici che attualmente nell’Unione scattano dopo poche settimane) si capisce bene cosa sia. Ma gli interventi sulla partecipazione alle scelte dei paesi euro da parte di quelli non euro cosa vuol dire? Cameron vuole poter decidere in un club del quale non fa parte? E le norme per una migliore competitività cosa sono esattamente? E infine il fatto di essere libero di non lavorare per una “Unione più forte”, e anzi potersi chiamare fuori dalle scelte cos’è, una richiesta di “Europa al la carte”, dove ognuno prende quel che vuole (in breve, solo quel che ritiene essergli utile)?
E poi ancora, Cameron vorrebbe cambiare i Trattati su almeno alcuni di questi punti. Nessun governo europeo se la sente, e meno ancora lo vorrebbero le istituzioni brussellesi. Come minimo si aprirebbe una vaso di Pandòra nel quale ungheresi, polacchi, ma anche greci e italiani potrebbero voler mettere le cose più diverse, con il rischio di aprire un processo dilaniante e infinito, che probabilmente non porterebbe a nulla se non un ulteriore disgregazione.
Lo hanno detto chiaramente in molti, e per tutti il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker: “Non ci si illuda che ci sia un punto difficile e altri più facili, è tutto difficile!”.
E ora Cameron come ne esce? Cosa porta ai suoi elettori? Dai partner ha trovato molta cortesia, da qualcuno qualche comprensione, ma sembra chiaro che sulle partite grosse, come era evidente sin dall’inizio, non troverà soddisfazione. Si è infilato da solo in un percorso ingestibile, dal quale non può che uscire sconfitto, se è vero, come è vero, che lui, personalmente, non vorrebbe lasciare l’Unione (e su questo probabilmente avrà il consenso degli elettori britannici, aiutato anche dai ‘poteri forti’ del regno che non vogliono lasciare l’Ue). Ma tutte le scelte che ha fatto e sulle quali sembra perseverare sono strade senza uscita nel negoziato con i partner. Potrebbe esserci qualche sentierino qualche soddisfazione sulla competitività, qualcosa sull’alleggerimento della burocrazia, qualche chiarimento sulle competenze degli Stati e quelle della Commissione. Ma non è scattato un meccanismo di “imitazione” da parte di altri governi, come Cameron sperava, per rafforzare la sua linea. Non si è creato un gruppo di contestatori significativo tra le cancellerie europee che sostenga la “meno Europa” che Londra chiede. E’ praticamente rimasto solo, il leader conservatore.
Alla fine del negoziato con i partner, durante la campagna referendaria, il premier britannico dovrà essere bravo a vendere fumo ai suoi elettori, a convincerli che quel poco che otterrà sarà invece qualcosa di decisivo, che cambierà la natura della partecipazione di Londra all’Unione. Lui probabilmente sa già se ci riuscirà o meno. Se vincerà il referendum avrà vinto lui, e avrà vinto anche contro l’Ukip, con una esplicita affermazione degli unionisti. Ma sa anche che il rischio che corre è quello di cambiare radicalmente la storia britannica, che potrebbe uscire dall’Unione, per ignoranza più che per vantaggi. Dandola vinta al populismo dell’Ukip di Nigel Farage, che però, probabilmente, una volta scacciato il mostro di Bruxelles non avrà più ragione di esistere, lasciando il Paese, ancora una volta, probabilmente in mano a Cameron (viste del grandi divisioni dei Labour), che dovrà ricostruire tutto il senso della Gran Bretagna, in Europa e nel Mondo. Non sarà facile.