di Andrea Fumagalli
Due fatti rilevanti hanno caratterizzato le ultime due settimane. Due fatti apparentemente distanti e decisamente di diverso spessore, ma accomunati, nella loro diversità, dalla stessa logica di potere e di dominio.
Nel CdM del 22 novembre, il governo del premier Renzi e della ministra Boschi ha dato il via libera al decreto, denominato “Disposizioni urgenti per il settore creditizio”, con l’unico scopo di salverà quattro istituti di credito già posti in amministrazione straordinaria: Cassa di risparmio di Ferrara, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio (il cui direttore era il padre della ministra Boschi), Banca delle Marche e Cassa di Risparmio della provincia di Chieti (cd. Decreto “Salvabanche”).
CariFerrara era stata la prima a essere commissariata, nel maggio 2013, dopo aver perso poco meno di 105 milioni di euro. Poi è stato il turno di Banca Marche, il cui commissariamento è arrivato ad agosto dello stesso anno, dopo due bilanci che hanno registrato perdite per 232 e 526 milioni di euro. Ma è con il fallimento di Banca Etruria e CariChieti (commissariate nel 2015 per «gravi perdite di patrimonio») che si decide di intervenire a salvaguardia degli interessi del credito (e della famiglia Boschi?). Secondo gli analisti, il costo dell’operazione è pari a circa 730 milioni di euro e sarà a carico degli azionisti e dei possessori di obbligazioni subordinate delle quattro banche, cioè dei risparmiatori: coloro che avevano incautamente acquistato i titoli emessi dall’ente creditizio, consapevoli o meno che a fronte di rendimenti maggiori non avrebbero avuto alcuna tutela in caso di fallimento dell’istituto, essendone il rimborso subordinato a quello dei creditori ordinari (da qui la dizione di “obbligazioni subordinate”, a maggior intensità di rischio).
Il resto è stato posto a carico del Fondo di Risoluzione, approvato giusto quattro giorni prima del decreto e amministrato dalla Banca d’Italia. L’impegno del Fondo di Risoluzione ammonta complessivamente a circa 3,6 miliardi di euro, anticipati dalle tre principali banche italiane (Intesa Sanpaolo, Unicredit e Ubi Banca), che hanno apportato la liquidità necessaria all’avvio dell’operatività del Fondo neocostituito, con scadenza a 18 mesi: in sintesi, si sono ripartite le perdite, sia pure in via temporanea. Tale anticipazione viene garantita con fideiussioni dalla Cassa depositi e prestiti (CDP), quindi ultimamente dallo Stato, per un ammontare che si calcola intorno a miliardo di euro (che verrà effettivamente speso in caso di inadempienze delle tre principali banche private italiane).
Qualunque sia il soggetto prestante, è necessario sottolineare che la liquidità cortesemente messa a disposizione per i salvataggio è la stessa che proviene, direttamente o indirettamente, dalle politiche di quantitative easing della BCE. In questo caso, per lo meno, sappiamo dove si indirizza e per quali scopi è utile la moneta creata dalla BCE.
Le prime conseguenze sono state l’azzeramento del valore dei titoli, obbligazionari e non, legati a queste quattro banche, con effetti negativi notevoli sul risparmio di circa 130.000 famiglie, ovvero le meno avvedute che spesso in modo ingenuo cadono nella spirale della promessa del facile guadagno o del mito patriarcale del politicismo localistico (“una banca ancorata al territorio non può fallire”).
Giovedì 3 dicembre, il board della BCE capitanato da Mario Draghi ha deliberato di estendere le misure di quantitative easing sino a marzo 2017, di voler acquistare anche titoli pubblici emessi da amministrazioni locali e di ridurre il tasso d’interesse sui depositi delle banche centrali nazionali presso la BCE dal -0,2 per cento al -0,3 per cento.
Le ragioni – ha spiegato Draghi – sono essenzialmente due: cercare di far aumentare l’inflazione (oggi allo 0,1 per cento su scala europea) e iniettare liquidità per finanziare e potenziare l’attuale debole crescita europea.
Così come evitare il crack di alcune banche (soprattutto se piccole) con soldi sia pubblici che privati (cd. meccanismo della bad bank) non serve a rendere più trasparente e efficiente il mercato del credito e proteggerlo dalla trappola della speculazione, altrettanto perpetuare politiche monetarie espansive in un contesto di debole domanda aggregata e di smantellamento e privatizzazione del welfare state (riduzione della domanda pubblica: vedi, in Italia, la recente privatizzazione di Poste Italiane e ora quella delle ferrovie di Stato) risulta del tutto inutile.
Da questo punto di vista l’Europa si trova ostaggio di diverse “trappole”. A livello macroeconomico, la politica monetaria diventa inefficace se opera in una situazione di “trappola della liquidità”. Cosa significa? In economia politica per trappola della liquidità s’intende quella situazione per la quale, anche di fronte a tassi d’interessi prossimi allo zero e quindi in presenza di un costo di finanziamento degli investimenti irrisorio, non si registra nessuno stimolo alla domanda aggregata, a causa di aspettative imprenditoriali e di consumo negative.
In un simile contesto, le imprese non investono. Anche se l’accesso al credito fosse gratuito o, – come sta avvenendo oggi con la diffusione del lavoro non pagato e dell’istituzionalizzazione della precarietà grazie al Jobs Act – il costo del lavoro si riducesse ai minimi termini, perché mai un’impresa sana di mente dovrebbe aumentare la propria produzione se le aspettative sulla domanda finale del proprio bene sono negative? E infatti, nel terzo trimestre del 2015, gli investimenti sono calati ulteriormente dello 0,4 per cento, nonostante le condizioni più favorevoli e gli incentivi introdotti dal Jobs Act con lo scopo di istituzionalizzare il lavoro “usa e getta”. Le aspettative sulla domanda interna rimangono negative e l’effetto “svalutazione euro” sull’export è oramai cosa passata (- 0,4 per cento anch’esso).
Ne consegue che la liquidità immessa dalla BCE rimane all’interno del circuito finanziario-speculativo senza “gocciolare” (trickle-down) sull’economia reale. Essa serve a rimettere i conti a posto delle principali banche europee, a finanziare il salvataggio di quelle più in difficoltà (come il recente decreto “Salvabanche” in Italia ci mostra) e promuovere l’attività speculativa. Nonostante le turbolenze internazionali e l’instabilità generata dal rallentamento economico dei paesi BRICS (Cina in testa, Brasile in recessione), le borse europee godono di buona salute. Dal giugno 2012 (2.068 punti), l’indice Eurostoxx50, una media ponderata delle diverse borse europee, ha cominciato una ascesa che lo ha portato al massimo di 3.816 punti nell’aprile 2015 (+ 84,5 per cento), per poi calare a 3.088 nell’ottobre 2015 (in pieno scoppio della bolla cinese) e risalire ai valori attuali di 3.450 punti.
Tale andamento dimostra inoltre che gli effetti del QE sono stati più che positivi nel periodo precedente alla sua ufficializzazione e che dopo gli effetti di allargamento del mercato finanziario sono divenuti più contenuti. La politica monetaria espansiva di Draghi si sta dunque rilevando fallimentare Essa può al limite solo alimentare una bolla speculativa con il rischio che, quando questa scoppia (e ci sono già delle avvisaglie che provengono dalla Cina), gli scarsi effetti del moltiplicare finanziario sul reddito delle fasce più ricche della popolazione si annullano, la distribuzione del reddito si è oramai sempre più polarizzata, le aspettative crollano e si rientra di nuovo in una fase recessiva.
Tale situazione è l‘esito della “trappola della speculazione finanziaria” e spiega l’attuale situazione di impasse macroeconomico: trappola della speculazione e trappola della liquidità si alimentano a vicenda in un perverso e distorto circolo vizioso.
Tale congiuntura economica rischia di produrre una stagnazione di lungo periodo, dal momento che è alimentata da fatti strutturali che oramai si sono sedimentati nella governane del mercato del lavoro e nelle forme di dominio del capitale produttivo e finanziario sullo stesso lavoro. Facciamo qui riferimento alla “trappola della precarietà”, ovvero a quella condizione per la quale la condizione di precarietà, di incertezza, di instabilità, di insicurezza di reddito è talmente diventata strutturale e generalizzata non solo da coinvolgere l’intera vita degli individui ma a occupare qualsiasi spazio economico, sino a divenire irreversibile, a prescindere al tipo di professione e dall’età.
Non si esce più dalla condizione precaria, oggi, per lo più se essa, come già ricordato, diventa norma.
La trappola della precarietà, se a livello individuale consente alla gerarchia economica di tenere in ostaggio il lavoro e soprattutto il lavoro a più alto valore aggiunto (quello cognitivo-relazionale) grazie a nuovi dispositivi di sussunzione vitale al capitale (dal debito, al ricatto sul reddito, all’immaginario), a livello aggregato rappresenta il più grande ostacolo alla ripresa economica. È all’origine della trappola della liquidità e favorisce l’ampliamento della trappola della speculazione. Si tratta così di una situazione di perenne instabilità e quindi di perenne crisi.
Pubblicato su Effimera il 7 dicembre 2015.