di Gianluca Graciolini
2012, Francia. I socialisti vincevano dopo gli anni e i disastri economici, etici e sociali del sarkozismo. L’altro ieri, si può dire. Sembra un secolo fa. In soli tre anni, ogni aspettativa, più o meno fondata, che si era riposta sul governo socialista di Hollande quale possibile motore di un cambiamento nelle politiche europee è stata infranta, delusa, bruciata, tradita. Miseria del socialismo europeo: l’austerità è stato il segno fin troppo tangibile delle politiche di Hollande, in perfetta continuità con le politiche di Sarkozy, e nessun atto degno di memoria ha mai dato sentore di porre in verifica e in discussione l’assetto e le politiche dominanti dell’Europa reale a guida tedesca.
Le supine balbuzie con cui le Président si è distinto nel corso di tutta la drammatica vicenda greca ne sono un’inoppugnabile testimonianza. Nel proprio paese tutto ciò ha significato prosecuzione nell’opera di smantellamento del welfare, tagli indiscriminati alla spesa pubblica, da cui oggi si fa salva quella militare, ed adesione incondizionata, totale e perfino entusiasta, dopo il rimpasto di governo del 2014, alle dottrine mainstream e al dogma neoliberista.
Il risultato? Un ceto medio liquefatto consegnato al rancore; periferie abbandonate a se stesse, all’odio razziale, alla guerra tra poveri e all’insorgere del radicalismo, del nichilismo e del terrorismo di matrice islamica; cinture industriali, province e distretti rurali dove, con deliberate politiche di dumping, è stata artificiosamente, forzosamente, alimentata la guerra al ribasso dei diritti e sui salari tra lavoratori della Republique e migranti.
Intervistato lo scorso anno dal quotidiano La Nazione all’atto delle dimissioni da ministra della cultura della mia personale amica Aurelie Filippetti, spiegavo i motivi del suo gesto proprio con questi rilievi: tagliare proditoriamente, in nome dell’austerità, i fondi alla cultura, oltre al welfare, rappresentava il tradimento delle speranze e delle istanze popolari, recideva il patto elettorale e democratico con la propria base profonda, minava la stessa scommessa del cambiamento, rinunciando a far valere il grande portato della cultura francese come il vero grimaldello per sconfiggere l’idea e lo stato di un’Europa avviata al declino, solo mercantile, sempre più antidemocratica, intollerante, antisolidale e sempre più vocata alla guerra, anziché ad una politica di pace.
Il richiamo insito in quel clamoroso e nobilissimo gesto sacrificale di una giovane ministra coerente e dedita ai principi e ai valori della Gauche e della migliore storia della Republique non fu tenuto in minimo ascolto e considerazione, né dai suoi ex colleghi di governo, né dai dirigenti di partito. Fu invece relegato nell’angolo dimenticato della grande casa socialista francese, alla stregua di un’utopia da giovani sognatori, in nome della bieca giustificazione di sempre: non c’è alternativa. L’esito di quella cecità oggi ha dato i suoi frutti più velenosi: uno scenario politico tremendo per la Francia e per tutta l’Europa, contro cui ci si straccia le vesti e su cui si spalancano occhi falsamente atterriti. Gli stessi terminali visivi che in precedenza erano stati recisi dal cervello.
In contemporanea, laddove non si hanno avuto attributi per fare la voce grossa contro la potente cancelliera e gli ancor più potenti poteri finanziari e “bancocratici”, quegli attributi sono stati tirati fuori per rispolverare l’antico vizietto coloniale, una rediviva, ma alquanto fittizia, politica da grandeur, con i risultati disastrosi che tutti conosciamo e con le conseguenze drammatiche del ritorno della guerra in casa. Parliamo delle prove muscolari della legione straniera in Mali, dell’avventura libica, delle micce innescate in Siria, dei rapporti commerciali intessuti con i sauditi e le altre petro-monarchie mentori dell’ISIS a profitto e a godimento del proprio apparato militare-industriale e, perfino, dell’irrisolta questione algerina, dove le politiche meno vistose di destabilizzazione condotte anche lì, in nome dell’antico vizietto, stanno per far esplodere un bubbone di gran lunga peggiore della stessa crisi libica, come alcuni avveduti osservatori internazionali, anch’essi inascoltati, vanno da qualche tempo denunciando.
È lungo questa linea ininterrotta di politiche in cui si intrecciano austerità, neoliberismo e militarismo neocoloniale che siamo infine giunti alle marcette marziali di un improbabile Napoleone Hollande, allo stato d’emergenza proclamato sulla carta contro il terrorismo, ma nella pratica dediziosamente ed immediatamente voltosi contro il dissenso sociale, contro qualsivoglia focolare di alternativa, contro i movimenti che si battono per il clima, la pace, il welfare e il lavoro. E, soprattutto, alla definitiva assunzione di una politica di guerra permanente come lo strumento privilegiato ed esclusivo dell’azione della Francia nell’attuale e torbido scenario internazionale.
Questo è il brodo di coltura in cui hanno sguazzato le destre neofasciste guidate da Marine Le Pen. Non c’è dubbio che la matrice del Front Nationale sia fascista e razzista, per quanto ultimamente dissimulata o, meglio, talmente assorbita dalle pance di tanti francesi e connessa con i loro sentimenti, che essa diviene considerata alla stessa stregua di un dettaglio, una normalità.
La situazione politica consegnatoci dalle elezioni francesi è inquietante e rappresenta, in un paese centrale per l’Unione europea, un enorme ed ulteriore rischio di regressione della cosiddetta civiltà occidentale.
Sono “simpatici” i primi commenti degli opinionisti mainstream che contano: la Le Pen? Vince perché non è più di destra. Vince perché non è né di destra, né di sinistra. Dietro la comicità di questi esorcismi, vi è evidente la coazione a ripetere errori drammatici di sottovalutazione, vi è l’assoluta indisponibilità a contrastare lo scivolamento dell’Europa verso il suo baratro, perfino nel rischio di una riproposizione dei suoi più tristi trascorsi: fascismo e guerra.
Austerità e liberismo non si mettono in discussione, mai: nonostante i loro fallimenti ed ogni loro conseguenza economica, sociale e politica. Chi se ne frega, poi, se di questa eclissi della ragione, di questo collasso intellettuale delle élite dominanti, di questo nuovo sovversivismo delle classi dirigenti, le vittime permanenti siano i profughi e i migranti che vengono respinti e contro cui si innalzano muri nel cuore d’Europa o se ne appalta la costruzione alle sue frontiere, pagando con moneta sonante il criminale Erdogan. Fuggono dalle guerre promosse e causate dai nostri governi, scappano dai deserti del clima avvelenato dal nostro modello di sviluppo, ma chi se ne frega…
Questa è la politica della paura che ci aspetta. Miseria del socialismo europeo, dicevo. La storia insegna, ma non ha scolari, neanche in quella Francia che cambiò il mondo al grido di Liberté, Égalité, Fraternité. Questo è il senso delle elezioni francesi di domenica. Il compito che si trova oggi a dover affrontare una nuova sinistra europea è ciclopico: nel campo dei nostri nemici ci sono due destre. Quella liberista dell’austerità permanente, in cui rientrano anche i socialisti ufficiali alla Hollande e i democratici nostrani guidati da Renzi; quella delle forze tenebrose sprigionate dalla prima, in cui rientrano i nuovi governanti polacchi, gli Orbán, le Le Pen e, da noi, i Salvini. Ed entrambe queste destre sono oggi, ancora una volta, accomunate dalla guerra, dal delirio bellicista e dall’orrenda retorica dello scontro di civiltà, seppur in diverse gradazioni e modalità di azione.
Povera Europa, poveri noi, poveri i nostri figli. La ricerca di un’alternativa diventa una questione epocale ed un dovere imperativo nei loro confronti, innanzitutto, a preservazione di una necessità elementare: un’esistenza libera e socialmente dignitosa, in un contesto di pace e di democrazia economica e politica. Non è facile, ma non si può restare indifferenti, silenziosi, inerti e, perciò, irrilevanti.