di Stefano De Agostini
«Il Jobs act sta fallendo nei suoi obiettivi principali: promuovere l’occupazione e ridurre la quota di contratti temporanei e atipici», in una parola il precariato. Sono queste le conclusioni di quella che si può considerare la prima ricerca accademica sugli effetti della riforma del lavoro del governo Renzi. Si tratta dello studio “Labour market reforms in Italy: evaluating the effects of the Jobs Act”. Il rapporto è stato curato da tre ricercatori italiani, Marta Fana, Dario Guarascio e Valeria Cirillo, per conto di ISIGrowth, progetto di ricerca finanziato dalla Commissione europea. Fana, va ricordato, è la prima ad aver segnalato l’errore del ministero del Lavoro sui dati relativi ai contratti ad agosto.
«Il fallimento del Jobs Act nello stimolo dell’occupazione», secondo il rapporto, è confermato dal flusso di lavoratori che sono usciti dallo stato di disoccupazione tra primo e secondo trimestre del 2015. I ricercatori, citando dati Eurostat, spiegano che «i flussi del mercato del lavoro per l’Italia mostrano una massiccia transizione dalla disoccupazione all’inattività (35,7 per cento), mentre la transizione verso l’occupazione è più bassa della media europea (18,6 per cento contro 16,1 per cento)». Mentre i disoccupati non hanno un impiego ma lo cercano, gli inattivi non ci provano neanche. In poche parole, chi ha abbandonato la palude della disoccupazione non ha trovato un lavoro: ha semplicemente smesso di cercarlo.
E se l’intenzione era di dare una spinta ai nuovi contratti stabili, anche in questo caso lo studio evidenzia le carenze del Jobs Act e del bonus contributivo della Legge di Stabilità 2015. «I dati amministrativi – prosegue il documento – mostrano che tra gennaio e luglio 2015 solo il 20 per cento delle nuove assunzioni hanno un contratto a tempo indeterminato». Non solo. «I nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti – precisa lo studio – guadagnano uno stipendio mensile più basso dell’1,4 per cento rispetto a quanti assunti un anno prima con il vecchio contratto a tempo indeterminato».
Ma anche sul fronte della lotta al precariato, i ricercatori non fanno sconti al Jobs Act. Innanzitutto, l’introduzione delle tutele crescenti va di pari passo con un aumento dell’incidenza di contratti a termine tra i nuovi assunti, mentre cala la fetta di rapporti stabili. «È bene notare – spiega il documento – che un aumento generale nella quota di contratti a tempo indeterminato si può osservare in un breve periodo tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015. A sorpresa, da marzo 2015 in poi questo aumento del tempo indeterminato comincia chiaramente a invertirsi a ritmi rapidi. Infatti, il 63 per cento dei nuovi lavoratori (158mila su 253mila) nei primi nove mesi del 2015 hanno un contratto a termine». I ricercatori individuano una possibile spiegazione al fenomeno: «Questo calo dei contratti a tempo indeterminato (che va contro le intenzioni dichiarate da Jobs Act e incentivi) può essere legato all’ulteriore liberalizzazione nell’uso dei contratti a termine prevista anche dal Jobs act».
Non è comunque solo il contratto a termine che preoccupa i curatori del rapporto. Innanzitutto, c’è l’espansione del part-time. «I contratti part-time sono più diffusi all’interno dei nuovi contratti stabili che in quelli a termine», dove rispettivamente contano per il 40,8 per cento e per il 35,8 per cento, un dato che per i ricercatori dimostra la debolezza del contratto a tutele crescenti. «E cosa più importante, si nota che durante il secondo semestre 2015, l’incidenza del part-time involontario vale per il 64,6 per cento dell’occupazione part-time nel suo totale», aggiungono gli autori. Ma l’allarme riguarda anche i voucher. «Un altro elemento del Jobs Act è l’ulteriore liberalizzazione del lavoro atipico – si legge nel rapporto ISIGrowth – Tra questi, un ruolo di rilievo è giocato dai voucher. Benché questo trend non rappresenti una novità, la loro espansione non sta rallentando con il Jobs Act. Durante i primi nove mesi, oltre 81 milioni di buoni lavoro sono già stati venduti, con una crescita annuale del 70 per cento».
Ma il Jobs Act, fanno notare gli autori, non è che l’ultima di una serie di riforme che mirano a liberalizzare il mercato del lavoro, senza tuttavia ottenere risultati significativi. «Dal 1997 – ricostruiscono gli studiosi – è stata gradualmente introdotta una costante e coerente serie di norme che hanno portato a un mercato del lavoro sempre più liberalizzato. Eppure, nonostante i licenziamenti più facili, i nuovi contratti temporanei e flessibili, gli incentivi alla contrattazione aziendale, le dinamiche dell’occupazione e della produttività non sembrano essere state rimodellate in modo rilevante durante il periodo delle riforme». E il Jobs act, dalle prime analisi, non pare avere cambiato registro. Anzi.
Pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 9 dicembre 2015.