di Gustavo Piga
Dei dati ISTAT recentemente pubblicati due cose da ricordare: 1) la crisi nazionale crescente, dimostrata dal fatto che il PIL dell’area euro cresce del doppio del nostro, 1,6 per cento contro lo 0,8 per cento; e 2) la più forte delle determinanti di questo nostro ritardo: gli investimenti delle nostre imprese, cha calano ancora, dello 0,4 per cento.
Perché le nostre imprese non investono più, è evidente, è una combinazione perversa dei due mali che ci affliggono: il pessimismo endemico dovuto alla carenza di domanda interna nel paese, causato dall’austerità europea imposta all’Italia, e la mancanza di riforme nella pubblica amministrazione (PA). Il primo porta le imprese a non sostenere scommesse di investimento visto che sono costi certi da sostenere oggi a fronte di ricavi futuri altamente incerti per carenza di clienti potenziali; la seconda rende costosissimo operare in Italia e fa prediligere la stasi in attesa di tempi migliori o la delocalizzazione.
A questa carenza di investimenti privati ovviamente si aggiunge quella di investimenti pubblici. Anch’essa causata dall’austerità europea, ovviamente, con le sue restrizioni a perseverare nei tagli di spesa pubblica. Ma anche dalla carenza di riforme nella PA, che porta l’Europa a non credere che eventuali investimenti pubblici in Italia genererebbero vera produzione, ma piuttosto fantomatiche cattedrali nel deserto.
C’è chi dice che questa è l’unica differenza con l’età d’oro della ricostruzione post-bellica, caratterizzata da altissimi investimenti, privati e pubblici. Perché, ancora si dice, l’andamento dei risparmi allora ed oggi pare identico: alto negli anni ‘60, alto oggi con abbondante liquidità tesaurizzata.
Così non è. I risparmi di oggi si legano ad una motivazione chiarissima: la paura. Paura del domani, che ci affligge tutti, pervasi di pessimismo. E che porta, altra faccia della stessa medaglia, le imprese e le banche a non usare tale abbondante liquidità disponibile per investire, ognuna di queste due controparti timorosa del fallimento potenziale che ne deriverebbe in caso di evento negativo.
I risparmi di allora, invece, quelli della generazione dei miei nonni, si legavano a tutt’altra motivazione, con radici ben più forti: quelle della frugalità, virtù capace di generare frutti abbondanti. Frugalità che, nel clima pieno di ottimismo di allora, in un circolo virtuoso mai più ripetuto, andavano a sostenere il finanziamento, da parte delle banche, di progetti di imprese piene di speranze per un futuro non più reso plumbeo dal tuono della guerra.
Se così è, se la nostra epoca differisce radicalmente (ed in peggio) da quella post-bellica per l’andamento degli investimenti e per la motivazione sottostante all’atto del risparmio, bisogna interrogarsi sulle cause prime di questa diversità, così da riavviare la speranza e la crescita con le politiche più giuste.
Qualcuno potrebbe sostenere che questa diversità si spiega con l’atteggiamento che le due diverse generazioni hanno mostrato verso l’importanza del futuro relativamente al presente. Una generazione, quella del dopoguerra, lungimirante, frugale e dinamica non solo perché ottimista ma anche perché desiderosa di lasciare un dono a chi sarebbe venuto dopo di essa. Un altruismo intergenerazionale sparito oggi, miopi come siamo, non solo perché pessimisti sul futuro ma perché occupati dal consumo superfluo volto a soddisfare bisogni immediati.
Se così fosse, se ci trovassimo davvero di fronte ad un mutamento “etico” della nostra società, ad un suo disinteresse per le generazioni future, a poco servirebbero politiche che cerchino di modificare questo stato di cose. Anche perché i nostri politici non sarebbero spinti a ciò da nessuna parte di una società addormentata ed egoista.
Ma forse non è così. Forse quello a cui assistiamo oggi nei mercati privati, l’assenza di investimenti da parte delle imprese e l’abbondante risparmio non frugale e intriso di paura da parte delle famiglie, non è che il frutto indotto da politiche pubbliche sbagliate che possono invece essere sovvertite, avviando il ciclo virtuoso della ricostruzione di cui sentiamo tanto la mancanza.
Non c’è dubbio che la carenza di investimenti pubblici, richiesta dall’Europa e dalla sua austerità e accettata dai nostri governi succedutisi in quest’ultimo lustro, abbiano avuto un impatto deprimente sulla volontà di investire delle nostre imprese. Devo a Innocenzo Cipolletta la felice coniazione del termine “privatizzazione del rischio” come fenomeno strutturale di questi ultimi anni, capace di modificare le aspettative degli operatori, in peggio.
Ci sono molti modi di vedere questa privatizzazione del rischio avvenuta, ma per me l’esempio più rilevante rimane quello dell’austerità in recessione, voluto da questa ottusa Europa, che lancia un messaggio devastante là fuori agli operatori: quando le cose vanno male, per qualsiasi motivo, non contate più sulla “manona pubblica” che interviene per ridare fiducia, pompando domanda nel sistema economico e arrestando l’emorragia sui mercati del lavoro. Quanto fatto con ingenti investimenti pubblici da Franklin Delano Roosevelt durante la grande depressione, in effetti, non fece che ammontare ad un gigantesco programma di assicurazione pubblica di fronte a un grave shock negativo. È evidente l’impatto positivo che una tale azione può avere sul singolo individuo che, se lasciato da solo ad affrontare il mare di incertezza negativa circostante, si tira indietro e abbandona il campo da gioco.
Ma l’impatto degli investimenti pubblici non si limita solo alla virtuosa pubblicizzazione del rischio in casi di crisi. Molto ha a che vedere anche con il tipo di investimento che si effettua: perché non tutto è New Deal, gli investimenti pubblici che andavano bene per la crisi degli anni Trenta non sono gli stessi che servono alla nostra epoca, quasi un secolo dopo.
Devo a Mario Baldassarri la felice intuizione di aver notato come viviamo in una società che genera una mole mostruosa di informazione, ma non di conoscenza. In realtà la conoscenza maggiore c’è, eccome, ma viene elaborata per la gran parte dentro le mura, o meglio dentro gli elaboratori di multinazionali e distretti industriali dell’informatica. È una conoscenza privata o meglio una privatizzazione della conoscenza, quella a cui assistiamo, spesso diretta a manipolare le preferenze dei consumatori per accelerare la massimizzazione del profitto (basta ascoltare la bella TED Talk di Alessandro Acquisti, nostro valente economista in quel di Carnegie Mellon University per comprenderlo).
Non è conoscenza pubblica, come quella che creammo nel dopoguerra sui banchi delle nostre scuole, alfabetizzando con un massiccio investimento pubblico una e più intere generazioni, alfabetizzando e modernizzando un paese in grave ritardo e così favorendo la massiccia crescita di investimenti privati da parte di imprese che potevano contare su una forza lavoro formata e abile al lavoro manuale ma anche intellettuale. Oggi, quel settore così critico per le future innovazioni, quello dei Big Data e dell’informatica, dovrebbe essere in parte “pubblicizzato”, fatto cioè divenire fattore di sviluppo della nostra amministrazione pubblica con investimenti pubblici volti a formare innumerevoli competenze interne, acquisire capacità di elaborazione dei dati e di intervento sulla base di quanto questi dati rivelano sulla realtà circostante (fosse ciò su regolarità empiriche della criminalità mafiosa, dell’evasione fiscale o sui luoghi dove intervenire immediatamente in caso di disastro naturale).
Una volta fatto ciò la qualità dell’azione pubblica risulterebbe talmente tanto elevata da stimolare una dose di massiccia di investimenti privati, la cui profittabilità sarebbe supportata dalla modernizzazione del capitale tecnologico a disposizione di tutto il paese e non solo di una parte di esso. Ad oggi purtroppo risultano pervenuti solo, all’interno della Legge Stabilità 2015, i tagli straordinari ed a casaccio alla spesa per informatica.
Ma la rivoluzione capace di restaurare ottimismo e investimenti deve puntare a una rivoluzione anche nell’altra componente mancante rispetto al paradigma di sviluppo del dopoguerra: la frugalità. Frugalità, lo abbiamo detto, non è sinonimo di risparmio. Devo al mio collega Umberto Morera questo felice suggerimento, che frugalità va intesa non come divieto di spesa quanto come monito a spendere bene, in maniera essenziale, senza sprechi. E che la nostra pubblica amministrazione abbia clamorosamente dimenticato nel tempo questa differenza così essenziale, concentrandosi su recessivi risparmi pubblici senza restaurare alcuna forma di frugalità pubblica, di buona spesa pubblica, è quanto di più drammatico si possa immaginare, per il settore privato stesso.
Primo perché senza frugalità pubblica, senza aver dimostrato di saper spendere bene, nessun investimento pubblico addizionale sarà concesso dalla severa Unione europea, e questo, come visto sopra, danneggia le imprese private e la loro voglia di investire. Secondo, perché uno Stato che spende male non sostiene in alcun modo la produttività del suo settore privato, scoraggiando nuovamente gli investimenti.
Il fil rouge di questi post nel mio blog di questi anni si riassume così. Pretendere e battersi per una nuova frugalità pubblica che genera quei tagli di sprechi che a loro volta sostengono con risorse e fiducia nell’azione pubblica investimenti, pubblici e privati, ripresa e infine sviluppo.
Ma, a futura memoria di un governo che questo non capisce, per divenire frugali, per spendere bene come lo fecero le passate generazioni, ci vogliono non solo valori ma anche competenze. E, se lo metta in testa questo governo così comunicativo ma così privo di senso di una direzione, le competenze non si raccolgono come mele cadute da un albero, ma seminando e lavorando un terreno ostile ma potenzialmente fecondo, proteggendo la pianta quando è ancora giovane, recintando tutt’attorno, attendendo infine con pazienza che questa sia forte e fruttuosa. Ci vogliono dunque risorse, tante risorse, per far ripartire la macchina pubblica del XXI secolo in maniera frugale ed efficace. Quelle risorse che permettono di avere un giardiniere competente. Tanti investimenti pubblici per ottenere qualità della macchina pubblica, ecco cosa ci vuole, per ottenere investimenti pubblici di qualità che divengano, infine, investimenti privati e sviluppo pieno e sufficientemente uguale del nostro paese.
Pubblicato sul blog dell’autore il 6 dicembre 2015.