Roma – “Abbiamo bisogno di una Unione europea 2.0. Il percorso fatto fin qui è stato importante, ma dobbiamo entrare in una nuova fase. La crisi dovrebbe spingerci a farlo, perché ha messo in evidenza tutte le debolezze dell’attuale assetto europeo”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, vuole dare una spinta verso il federalismo. Proverà a farlo portando domani a Bruxelles il documento ‘Più integrazione europea: la strada da percorrere’, firmato a Roma lo scorso 14 settembre, insieme con i suoi colleghi di Francia, Germania e Lussemburgo, ai quali se ne sono aggiunti altri 5 e ulteriori adesioni arriveranno presumibilmente dagli incontri che la terza carica dello Stato ha già in programma per il 2016. Intervistata da Eunews, alla vigilia del suo viaggio, Boldrini parla di terrorismo, Siria, migranti e soprattutto di ‘rivoluzioni’ da introdurre nell’architettura dell’Unione, tra le quali una legge elettorale unica per le europee, con le stesse liste in tutti gli Stati membri.
Presidente, qual è la proposta per l’Europa che porterà domani a Bruxelles?
Nel documento del 14 settembre diciamo che noi, presidenti di Assemblee elettive nazionali, siamo disposti a condividere sovranità allo scopo di avere un’Europa più forte, un’Europa politica, perché le sfide che abbiamo di fronte richiedono maggiore integrazione. Serve un’Unione europea sempre più attenta ai bisogni dei cittadini e all’impatto sociale delle misure economiche. Bisogna cambiare rotta perché l’Ue, così com’è, ha fatto allontanare i cittadini, non piace più ai giovani. Dobbiamo avere il coraggio e la forza di uscire da questo stallo. Se non lo facciamo adesso rischiamo di perdere tutto il cammino fatto fin qui. Noi quattro presidenti abbiamo voluto prendere questa iniziativa perché riteniamo che i Parlamenti abbiano un ruolo essenziale nella costruzione di questa nuova Europa.
Come si concilia l’ulteriore cessione di sovranità con il maggior ruolo che chiedete per i Parlamenti nazionali?
Nel Trattato sull’Unione europea, la legittimità dell’Ue nasce proprio dai Parlamenti. Quello europeo e quelli nazionali che danno gli indirizzi ai rispettivi governi. È importante che questo avvenga in maniera più sistematica e che sia messo in atto in tutti i Paesi. In Italia, prima di partecipare a un Consiglio europeo, il presidente del Consiglio dei ministri viene in Parlamento, dove vengono votate delle risoluzioni sulla linea che il governo porterà in sede europea. In alcuni Paesi non c’è un passaggio di questo genere. Riguardo poi al rapporto tra Parlamento europeo e Parlamenti nazionali non c’è competizione, anzi ci dovrebbe essere ancora più cooperazione.
Qual è il livello di collaborazione tra il Parlamento Italiano e quello europeo nell’attività legislativa?
Secondo me in questo Parlamento la mettiamo in atto abbastanza. Diciamo che questa Camera è molto europeista. Per quanto riguarda l’ambito europeo, il Parlamento dovrebbe avere l’ultima parola nell’iter legislativo, ma oggi non è così. Per questo penso debba esserci maggiore legittimazione, perché sono i Parlamenti che rappresentano i cittadini. Il Parlamento comunitario ha forse un limite nel fatto che ogni Paese presenta i propri candidati alle elezioni europee. Io vedrei invece un sistema in cui i candidati possano essere eletti sulla base di liste transnazionali in ciascuno dei Paesi membri.
Parla di una legge elettorale unica?
Una legge elettorale unica, con delle liste uguali in tutti gli Stati membri e che siano espresse dai partiti europei, non da quelli nazionali. Il candidato può presentarsi in ogni Paese e fare campagna elettorale in tutti gli Stati membri. Questo darebbe più rappresentanza europea anziché nazionale. Immagina come sarebbe diverso?
In effetti, spesso a Strasburgo si creano alleanze sulla base degli interessi nazionali invece che sull’appartenenza politica. Un situazione che riflette le dinamiche del Consiglio europeo.
Esatto. Ma se in Consiglio ognuno cerca di tutelare i propri interessi nazionali, all’Europa chi ci pensa? Con queste modalità l’Europa perde terreno perché ognuno bada alla propria opinione pubblica, ai propri interessi domestici. Bisogna rilanciare invece sul piano dell’Unione federale di Stati, con una cabina centrale che rappresenti tutta l’Unione e poi gli Stati ai quali rimane la gestione degli affari domestici.
Lei presidente Boldrini propone di assegnare al Parlamento europeo il potere legislativo e alla Commissione quello esecutivo. Quale dovrebbe essere il ruolo del Consiglio?
Si può discutere. Potrebbe essere una sorta di Senato (leggi, a questo proposito, l’intervista di Vannino Chiti a Eunews, ndr) in cui siedono i capi di stato e di governo. Le autonomie locali, diciamo. Oppure ci può essere un sistema a più livelli. Sono diversi gli impianti da studiare. Non voglio prospettare adesso un format già chiuso. Ritengo sia necessario discuterne e trovo essenziale che questo dibattito sia sviluppato anche dal mondo universitario e delle associazioni, per questo a gennaio, a Montecitorio, faremo un incontro sull’architettura europea con diversi accademici e con giovani federalisti.
Secondo l’Eurobarometro, solo il 44% degli italiani si interessa alle questioni europee e appena il 40% ritiene che l’Italia abbia avuto dei vantaggi dall’adesione all’Ue. Si è perso il sostegno dei cittadini al progetto europeo?
Non mi meraviglia e mi dispiace enormemente questo risultato. Evidentemente non facciamo abbastanza per spiegare il ruolo che l’Europa ha avuto per farci vivere meglio. Molte conquiste si danno per scontate. I nostri giovani spesso non hanno contezza di come si vivesse prima: degli impedimenti per viaggiare, per andare a studiare in un altro Paese, per cambiare la moneta, per attraversare le frontiere, lavorare in altri Stati. Capisco che un giovane, oggi, non sia innamorato dell’Europa. Ne ha conosciuta una che è sacrifici, austerità, mancanza di prospettiva, di lavoro. Per questo non possiamo stare fermi, altrimenti perdiamo tutto e diamo la possibilità a chi è contro l’Europa di ripristinare un sistema anacronistico di piccole patrie.
Si va verso un’Europa a due velocità? L’ex presidente della Commissione, Romano Prodi, ritiene che il referendum sulla Brexit conduca inevitabilmente a questa strada.
Idealmente sarebbe opportuno procedere tutti insieme, perché questa è la famiglia Unione europea. Realisticamente, però, anch’io penso che si rischia di rimanere fermi se si aspetta che tutti si convincano della necessità di andare avanti. A un certo punto bisognerà dire chiaramente chi ci sta a fare un salto in avanti, per condividere più sovranità, e chi no. In fondo, l’eurozona ha già fatto una scelta di condivisione di sovranità nelle materie di finanza pubblica. Manca tutto il resto, in particolare il coordinamento delle politiche per la crescita, l’occupazione e la materia sociale.
II problema nell’Area euro è di legittimazione democratica? Ad esempio, la politica monetaria è affidata a un organismo tecnico, la Bce. La si dovrebbe ricondurre sotto la responsabilità di una istituzione politica?
C’è chi pensa questo. Il ministro dell’Economia tedesco, Wolfgang Schaeuble, propone di istituire un ministro delle Finanze dell’Eurozona. Io punterei su un altro tipo di figura. Ad esempio, come esiste l’Eurogruppo, ritengo sia importante avere un Consiglio dell’economia reale, che si occupi di lavoro e affari sociali. Servirebbe poi un Parlamento dell’Eurozona. Se riteniamo si possa fare un esperimento di maggior condivisione di sovranità all’interno di un club più ristretto, di 19 su 28, allora bisogna mettere a punto un sistema che preveda anche la legittimazione democratica di questo impianto. Ritengo che questo dibattito debba svilupparsi il più rapidamente possibile. Mi sembra che siamo usciti dall’empasse, però adesso bisogna stringere e passare alle prossime azioni. Bisogna capire se si può mettere a punto una strategia a trattati vigenti, oppure se dobbiamo uscire dalla griglia dei trattati vigenti per fare qualcosa che sia più innovativo e più rivoluzionario.
Nella sua visita a Bruxelles, cosa dirà a chi mette in discussione il trattato di Schengen in nome della sicurezza contro il terrorismo?
Chi sostiene che bisogna rivedere Schengen o chiudere le frontiere dà forti indizi di debolezza, di incapacità di gestire un momento difficile senza rinunciare a conquiste democratiche che hanno consentito la realizzazione del grande progetto politico dell’Unione europea. Chi ci rinuncia è come se si fosse già arreso alla minaccia terroristica, che vuole proprio colpirci nelle nostre libertà e nei nostri valori. Quindi per me è un no su tutta la linea.
I pochi progressi a Bruxelles sull’Agenda europea per i migranti si sono raggiunti a fatica. Dopo gli attentati di Parigi si rischia un ulteriore rallentamento in nome della sicurezza.
Invece si deve andare avanti, perché è chiaro a tutti che la questione migratoria e quella dell’asilo possono essere affrontate efficacemente solo se lo si fa tutti insieme. Nessuno si può chiamare fuori. Dobbiamo avere sempre chiara la fotografia: se in Siria 12 milioni di persone sono state costrette a lasciare casa, e la metà è rifugiata nei paesi confinanti, di cui 2 milioni solo in Turchia, noi 28 Paesi dell’Ue non possiamo non saper gestire l’arrivo di 800 mila persone quest’anno. È imperativo che si affronti questo fenomeno in modo coordinato, facendo capo alla Commissione europea e mettendo in pratica la sua proposta. Le resistenze ci sono state e ci saranno, ma questa è la linea da seguire.
Quando si è siglato l’accordo tra l’Ue e Ankara, con l’impegno a versare 3 miliardi di euro alla Turchia pur di fare rimanere lì i profughi siriani, ci sono state meno resistenze. Ritiene che così siano a rischio i diritti dei rifugiati?
Che l’Ue dia alla Turchia risorse per contribuire a gestire la presenza di 2 milioni di rifugiati sul suo territorio mi sembra condivisibile e opportuno, perché la Turchia sostiene di aver investito in questi anni svariati miliardi di euro per l’assistenza e l’accoglienza dei rifugiati. Detto ciò, è importante che queste persone vedano rispettati i loro diritti. Dare un sostegno economico alla Turchia per i rifugiati non può voler dire che ci deve essere un impedimento a lasciare il territorio. Anche perché non funzionerebbe. In passato si è cercato di farlo nella Libia di Gheddafi e non ha funzionato. L’unico modo per diminuire il flusso di rifugiati è far cessare la guerra.
Presidente Boldrini, il Parlamento darebbe il via libera alla partecipazione italiana a un intervento in Siria, come Francia, Inghilterra e Germania?
Non mi pare che questa prospettiva sia all’ordine del giorno. La guerra al terrorismo si può fare in molti modi. Non possiamo permetterci di stare fermi, un’azione di contrasto va fatta, ma con i mezzi più appropriati. È indispensabile tagliare i finanziamenti a Daesh, non comprare il petrolio estratto nei territori sotto il suo controllo, non vendere armi in maniera diretta o attraverso triangolazioni, essere più presenti nel contrasto telematico perché il proselitismo e la radicalizzazione avanzano soprattutto attraverso i canali digitali, avere sistemi di intelligence che interagiscono, sistemi di polizia capaci di scambiarsi informazioni: tutti strumenti che ritengo molto più efficaci. Oggi in Siria ci sono diverse guerre, non ce n’è solo una. Fare una guerra senza una strategia politica è un azzardo che non possiamo permetterci.
Con una strategia sarebbe giusto intervenire?
La strategia la si elabora a livello politico. Se attorno al tavolo di Vienna si raggiunge un accordo politico, la guerra finisce in un mese. Nel momento in cui chi è dietro alle guerre per procura – perché in alcuni casi di questo si tratta – decide di fermarsi, se si tagliano i finanziamenti, se non arrivano più armi, allora Daesh si sgonfia nel giro di pochissimo e perde anche la sua forza attrattiva.