La triste vicenda del dilagante dopaggio atletico, se confermata, sarà un’ulteriore testimonianza della totale perdita di riferimenti etici della nostra società, divenuta ormai allergica all’impegno, al sacrificio, in definitiva al dedicare tempo a qualcosa. La dissoluzione della temporalità suscitata da internet e dalle nuove tecnologie ha prodotto una cultura dell’immediatezza dove tutto va bruciato e consumato subito, nulla è più pensato o preparato nel tempo. Anzi, il tempo diventa un ostacolo fra un avvenimento e l’altro. Tutto avviene solo nel presente e siccome nessuno coltiva più l’appagamento del costruire, del fare un percorso dove il risultato alla fine è solo uno degli obiettivi perseguiti, ogni atto deve essere sensazionale, unico. Così non c’è sport senza record, non c’è impresa senza successo e viviamo prigionieri della velenosa mentalità della sfida, in inglese challenge. Siamo incessantemente chiamati a raccogliere sfide. Non esiste più l’operosa ottica del conseguire partendo da un progetto. Ogni azione diventa gara e non c’è più attività del vivere che possa essere solo gratuita, senza risultato, destinata alla pura fruizione disinteressata. Così si dimentica che scuola e lavoro, nel loro legittimo obiettivo del sapere l’una e del produrre l’altro, rimangono senza impalcatura se non sono animati da un significato superiore, che non ha nessun uso, che non costituisce primato ma che tesse i legami gratuiti di cui sono fatte le relazioni umane. Tutto invece si misura solo in termini di utilità, di eccellenza e efficienza. Criteri ineffabili e menzogneri, perché relativi solo a un aspetto del vivere e sempre azzerabili dall’altra grande droga della modernità: la corruzione. Per questa non si è ancora trovato antidoping. È poi significativo che dall’indagine stia emergendo che la maggioranza dei gruppi sportivi coinvolti sono militari. Cosa resta dell’idea di patria se ufficiali stipendiati in sostanza per fare gli atleti concepiscono il loro mestiere come un inganno?
Da ogni parte ora si elevano grida di oltraggio e scandalo contro i disonesti atleti dopati e si promette che il cancro verrà estirpato al più presto e l’integrità atletica ripristinata in tutta la sua nobiltà di spirito. Non ci rendiamo conto che viviamo invece in un sistema di dopaggio generalizzato. Anziché nasconderci nell’ipocrisia, dovremmo infine essere coerenti ed accettarlo nello sport come lo accettiamo in tutto il resto. Estendiamo allo sport il dogma della sfida ad ogni costo, liberalizziamo il dopaggio e lasciamo che ogni atleta si droghi con quello che vuole. Sotto controllo medico, perché il politicamente corretto sia salvaguardato e anche perché così ognuno sarà cosciente dei rischi in cui incorre. Che si sappia di ogni atleta le droghe che assume e la gara così diventerà anche chimica, stimolerà la ricerca scientifica. Una competizione fra case farmaceutiche per chi produce il miglior anabolizzante e anche fra medici, che diventeranno i veri artefici dei nuovi record sportivi. Quanto a loro, gli atleti, diventeranno infine i nostri gladiatori e nelle loro gare estreme sublimeremo le nostre. Poco importa se schiatteranno in pista, abbarbicati alla cavallina, trafitti dall’asta su cui saltano, folgorati da infarti e altri malori o se creperanno deformi in qualche ospizio come i contaminati di Chernobyl. Lo spettacolo sarà assicurato.