di Roberto Giovannini per La Stampa
QUALI GLI IMPEGNI DEI PARTECIPANTI?
Il Paese più virtuoso, almeno nelle promesse di taglio delle emissioni? L’Etiopia, che si è impegnata a ridurre le emissioni di gas serra previste nel 2030 di addirittura il 64 per cento rispetto allo scenario senza interventi. I più timidi rispetto alle loro possibilità? Giappone, Sudafrica, Russia, Canada e Australia, con i giapponesi che promettono un ridicolo taglio delle emissioni del 18% rispetto al 1990. I più falsi, infine: la Turchia, che brucerà tanto carbone ma annuncia di compensare acquistando dubbi crediti di emissioni, e la surreale Arabia Saudita, la cui promessa di taglio delle emissioni verrà mantenuta solo se «ci sarà un forte aumento delle esportazioni di petrolio».
Sulla carta fa ben sperare la massiccia risposta alle richieste dell’Onu: ben 179 Paesi, che rappresentano il 95% della popolazione e il 94% delle emissioni globali, hanno presentato le loro «promesse», le Indc’s (Intended national determined contribution). Alcune sono credibili; altre sono molto poco verificabili o non serie. Altre ancora (specie quelle dei paesi più piccoli e poveri) non hanno pratica importanza, visto che parliamo di emissioni di gas serra «pulce».
Il guaio è che (sempre che vengano davvero rispettate) secondo gli scienziati dell’Unfccc e del Climate Action Tracker queste promesse equivalgono a un aumento della temperatura globale di 2,7 gradi. Se si continuasse sulla rotta attuale, l’incremento sarebbe di 3,3-3,7 gradi centigradi. Nel primo caso avremo gravissime conseguenze per gli equilibri climatici del pianeta, con disastri pesantissimi; nel secondo caso, i disastri saranno ancora più gravi. Se volessimo sperare di limitare i danni, una speranza invero molto ottimistica, l’umanità dovrebbe cercare di fermare il riscaldamento globale a 1,5 gradi.
QUALI SARANNO I PAESI CHIAVE?
La differenza tra il catastrofico flop di Copenhagen 2009 e lo sperato successo di Parigi 2015 la farà il comportamento al tavolo negoziale di alcuni Paesi chiave.Sono gli Stati più potenti del pianeta, dal punto di vista economico, politico, diplomatico. Nell’ordine: Stati Uniti d’America, Cina, Unione europea, India. A grande distanza, Brasile e Sudafrica. Saranno i capi delegazione di questi blocchi – e forse, se sarà necessario, i loro leader politici, che potrebbero tornare di persona nella capitale francese – a condizionare in modo determinante l’esito del confronto. Ma sarà importante anche la capacità dei co-presidenti della Conferenza di disinnescare in tempo reale i problemi e sormontare le inevitabili crisi: sono il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius e la rappresentante Onu per il clima Christina Figueres.
Lo scenario rispetto al 2009 è radicalmente diverso. Il «rigido» protocollo di Kyoto (che riguardava solo i Paesi industrializzati) non c’è più, come di fatto non c’è più l’idea di un trattato legalmente vincolante per gli Stati che lo firmeranno. Si è rotto anche lo stallo tra Usa e Cina; sei anni fa nessuno voleva compiere il primo passo, adesso grazie alle intese raggiunte nei mesi scorsi tra Obama e la leadership cinese i due Paesi si sono impegnati a tagliare le emissioni (più drasticamente la Cina, meno l’America). A Copenhagen era importante il ruolo dell’Europa, che da sola aveva preso impegni molto seri, e che invece adesso pare fuori dai giochi e timida negli impegni sulle emissioni. Sono scomparsi dal proscenio Brasile e Sudafrica: l’africano Jacob Zuma non è credibile come leader dei Paesi poveri, mentre una azzoppatissima Dilma Rousseff farà rimpiangere Lula. Si farà sentire invece l’India di Narendra Modi, che ha sorpreso con promesse di riduzione delle emissioni più serie e significative rispetto al previsto. La Russia di Putin è totalmente disinteressata; sorprese potrebbero arrivare da Canada e Australia, che hanno visto la presa del potere di personalità attente al tema del clima.
COSA DETERMINERA’ SE SARA’ UN FLOP O UN SUCCESSO?
La Cop21 non salverà il pianeta. Ma se tutto andrà bene, forse i nostri discendenti la ricorderanno come un passaggio fondamentale nella (non scontata) operazione di contenimento dei danni generati da due secoli di industrializzazione incontrollata. Ma anche se a Parigi le cose andranno male la battaglia per cercare di rallentare la tremenda inerzia del riscaldamento globale proseguirà: la maggioranza degli esperti si dice convinta che la tendenza verso una società e un’economia globale «decarbonizzata» sia ormai irreversibile. Un processo in cui spesso imprese e cittadini sono più avanti delle loro istituzioni rappresentative.
In ogni caso, ecco alcuni indicatori sicuri che ci potranno aiutare a valutare se la Cop di Parigi sarà un successo o un fallimento. Il primo, è evidentemente la stipula di un accordo formale tra tutti i quasi duecento Stati partecipanti. Una intesa ci sarà quasi sicuramente, anche se non è detto che il trattato possa essere solo un pezzo di carta privo di efficacia. Per questo, è fondamentale che questo accordo dia il segno che ci si sta muovendo nella direzione giusta,indicando l’obiettivo di contenimento dell’aumento della temperatura a 1,5-2 gradi, e soprattutto definendo delle strategie per recuperare lo scarto tra sforzi effettivi e sforzi necessari. Poi, è necessario che si stabiliscano regole per poter rafforzare gli obiettivi di riduzione delle emissioni, attualmente inadeguati, magari stabilendo una verifica quinquennale. Ancora, bisogna prevedere misure per garantire la sicurezza e la capacità di adattamento dei paesi più poveri e delle popolazioni vulnerabili. Infine, l’accordo deve fornire delle basi solide perché siano sbloccate le ingenti risorse finanziarie necessarie a compiere le trasformazioni tecnologiche che servono.