di Nafeez Ahmed
«Sosteniamo gli sforzi della Turchia nel difendere la propria sicurezza nazionale e combattere il terrorismo. La Francia e la Turchia sono dalla stessa parte nell’ambito della coalizione internazionale contro il gruppo terroristico ISIS». Dichiarazione del ministro degli Esteri francese, luglio 2015.
Come l’11 settembre 2001, anche il massacro del 13 novembre 2015 verrà ricordato come un momento di svolta nella storia mondiale.
L’uccisione di 129 di persone, ed il ferimento di altre 325, da parte di seguaci dello “Stato Islamico” (ISIS), che sono riusciti a colpire più obiettivi simultaneamente nel cuore dell’Europa, rappresenta un notevole salto di qualità nella minaccia terroristica. Per la prima volta un attacco come quello di Mumbai è avvenuto sul suolo occidentale; si tratta del peggiore attacco verificatosi in Europa da vari decenni a questa parte. Di conseguenza, ha scatenato una risposta apparentemente commisurata da parte della Francia, che per la prima volta dalla guerra d’Algeria del 1961 ha dichiarato lo stato di emergenza.
L’ISIS ha risposto minacciando di attaccare Washington e New York.
Nel frattempo, il presidente francese Hollande ha chiesto ai leader europei di sospendere Schengen e di restringere drammaticamente la libertà di movimento all’interno dell’Europa. Ha anche proposto l’adozione nell’UE di un sistema di registro passeggeri che permetta alle agenzie di intelligence di monitorare meticolosamente gli spostamenti dei cittadini europei, oltre ad un’estensione di altri tre mesi dello stato di emergenza. In virtù dello stato di emergenza, la polizia francese ha il diritto di bloccare qualunque sito internet “sospetto”, di disporre gli arresti domiciliari di un individuo senza processo, di eseguire perquisizioni in casa senza mandato e di impedire ad un sospettato di incontrare altri sospettati.
«Sappiamo che stanno preparando altri attacchi, non solo contro la Francia ma anche contro altri paesi europei», ha dichiarato il primo ministro francese Manuel Valls. «Dovremo convivere a lungo con questa minaccia terroristica».
Hollande ha in programma di introdurre nuove leggi anti-terrorismo per rafforzare i poteri della polizia e dei servizi di sicurezza, nonché di modificare la costituzione in modo da rendere permanente lo stato di emergenza. «Abbiamo bisogno di strumenti adeguati da poter impiegare senza fare ricorso allo stato di emergenza», ha spiegato.
Oltre ad istituire la legge marziale in patria, Hollande ha anche rapidamente accelerato l’azione militare all’estero, lanciando 30 attacchi aerei contro obbiettivi dello Stato Islamico nella sua capitale de facto, Raqqa, promettendo di «distruggere» l’ISIS.
È lecito ritenere che gli attacchi avranno conseguenze profonde e durature – se non addirittura permanenti – sulle società occidentali. Così come gli attacchi dell’11 settembre hanno inaugurato un’era di guerra perpetua nel mondo musulmano, gli attacchi del 13 novembre hanno già dato il via ad una nuova fase di quella stessa guerra permanente: un’era di “sorveglianza costante” al servizio dello stato di polizia, in cui la sospensione della democrazia in difesa della democrazia diventerà la norma. La sorveglianza di massa in patria e la guerra permanente all’estero sono due facce della stessa medaglia, quella della sicurezza nazionale.
«La Francia è in guerra», ha dichiarato Hollande di fronte al parlamento francese. «Non siamo ingaggiati in una guerra di civiltà, perché questi assassini non rappresentano alcuna civiltà. Siamo in guerra contro il terrorismo jihadista che minaccia il mondo intero».
L’amico del nostro nemico è il nostro amico
Nella sua dichiarazione di guerra, però, il presidente Hollande ha omesso di menzionare un aspetto centrale di tutta questa faccenda: il sostegno offerto da diversi Stati al terrorismo.
Secondo la polizia francese, i passaporti siriani rinvenuti vicino ai corpi di due dei sospetti attentatori di Parigi sono dei falsi, probabilmente contraffatti in Turchia.
Alcuni mesi fa il quotidiano turco Meydan riportava la rivelazione di una fonte uigura, secondo cui sarebbero stati forniti all’ISIS più di 100,000 passaporti turchi falsi. La notizia è stata corroborata anche dal Foreign Studies Military Office (FSMO) dell’esercito statunitense, che però ha rivisto le stime al ribasso. La notizia è stata ulteriormente corroborata dal corrisponde di Sky News Arabia Stuart Ramsey, che ha rivelato come il governo turco stesse certificando i passaporti dei miliziani stranieri che attraversavano il confine turco-siriano per unirsi all’ISIS. I passaporti, successivamente venuti in possesso delle milizie curde, avevano il timbro di uscita ufficiale della polizia di frontiera turca, indicando che le autorità turche erano perfettamente a conoscenza del fatto che i militanti dell’ISIS stavano entrando in Siria dalla Turchia.
Il rapporto dell’FSMO spiega bene il dilemma che ha davanti a sé Erdogan: «Se il paese decidesse di compiere un giro di vite sui passaporti illegali e sui movimenti dei miliziani, questi ultimi potrebbero prendere di mira la Turchia. Allo stesso tempo, se la Turchia non cambia politica, si troverà presto in rotta di collisione con gli altri paesi e la sua situazione politica interna peggiorerà».
Questo rappresenta solo la punta dell’iceberg. Un ufficiale occidentale di alto rango che ha avuto accesso ad una grossa quantità di documenti rinvenuti quest’estate nel corso di un raid su un rifugio dell’ISIS ha rivelato al Guardian che «l’esistenza di rapporti diretti tra ufficiali turchi e membri di alto rango dell’ISIS era ormai “innegabile”». Lo stesso ufficiale ha confermato che la Turchia, membro della NATO dal 1952, non sta sostenendo solamente l’ISIS ma anche altri gruppi jihadisti, tra cui Ahrar al-Sham e Jabhat al-Nusra, gli alleati di al-Qaeda in Siria.
Un anno fa Newsweek riportava la testimonianza illuminante di un ex tecnico delle comunicazioni dell’ISIS che spiegava come la Turchia abbia permesso, nel febbraio 2014, ai camion dell’ISIS provenienti da Raqqa di attraversare «il confine con la Turchia per poi rientrare in Siria ed attaccare i curdi siriani nella città di Serekaniye, nella Siria del nord». L’ex tecnico dell’ISIS ha anche ammesso di aver regolarmente «messo in contatto miliziani dell’ISIS in Siria con personale turco», aggiungendo che «i turchi in questione erano ufficiali turchi… I comandanti dell’ISIS ci dicevano di non temere nulla poiché era tutto concordato con i turchi».
A gennaio sono trapelati online documenti ufficiali dell’esercito turco che mostrano come i servizi di intelligence turca siano stati scoperti ad Adana da ufficiali dell’esercito a trasportare missili, mortai e munizioni anti-aeree «all’organizzazione terrorista di al-Qaeda» in Siria. Secondo altri sospettati dell’ISIS attualmente sotto processo in Turchia, l’organizzazione nazionale d’intelligence turca (MIT) ha iniziato a contrabbandare armi – incluse armi appartenenti alla NATO – ai gruppi jihadisti in Siria a partire dal 2011. Queste allegazioni sono corroborate anche dalle testimonianze di vari ufficiali della polizia militare turca, che hanno confermato che l’intelligence turca ha fornito armi ai jihadisti siriani tra il 2013 ed il 2014.
Documenti trapelati nel settembre del 2014 dimostrano che il principe saudite Bandar bin Sultan ha finanziato l’invio di armi all’ISIS attraverso la Turchia. Un rapporto dell’istituto nazionale di statistica turco conferma che il governo ha inviato almeno 1 milione di dollari di armi ai ribelli siriani in quel periodo (contraddicendo le dichiarazioni ufficiali), rifiutandosi però di specificare a quali gruppi fossero destinate le armi. Quell’informazione è emersa per altre vie. Solo due mesi fa, la polizia turca ha fatto irruzione nei locali di un’agenzia di informazione che aveva rivelato come l’ispettore della dogana locale avesse approvato l’invio di armi all’ISIS.
La Turchia ha anche giocato un ruolo chiave nel facilitare la linfa vitale dell’espansione dell’ISIS: il commercio di petrolio sul mercato nero. Diverse fonti politiche e di intelligence in Turchia ed in Iraq hanno confermato che le autorità turche hanno attivamente facilitato la vendita di petrolio da parte dell’ISIS attraverso la Turchia, per un valore stimato superiore al miliardo di dollari.
In altre parole, l’ISIS non dispone di alcuna “economia autosufficiente”, a dispetto di quanto sostenuto da vari giornali, tra cui il Washington Post ed il Financial Times. Essi necessitano del sostegno attivo di diverse entità statuali, a partire dalla Turchia. Perfino alcuni ufficiali di alto rango dell’AKP hanno ammesso che il governo turco sostiene l’ISIS. Secondo il quotidiano turco Taraf, miliziani dell’ISIS – tra cui anche il braccio destro di al-Baghdadi, leader dell’ISIS – hanno ricevuto regolare trattamento medico in diversi ospedali del sudest del paese.
Nel frattempo, i leader della NATO si fingono indignati, mentre i commentatori occidentali continuano a rimanere sbalorditi di fronte all’irresistibile ascesa dell’ISIS.
Alla luce di quanto detto finora, non sorprende che i bombardamenti anti-ISIS della Turchia siano stati perlopiù simbolici. Non solo: con la scusa di combattere l’ISIS, la Turchia ha colto l’occasione per bombardare le forze curde dell’Unità di protezione popolare (YPG) in Siria e del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) in Turchia ed in Iraq, nonostante esse si siano rivelate le più efficaci nel contrastare l’avanzata dell’ISIS.
Nel frattempo, la Turchia ha fatto tutto il possibile per ostacolare gli sforzi degli USA per contrastare l’ISIS. Quando, questa estate, 54 ribelli siriani “moderati” appartenenti al programma di addestramento del Pentagono sono stati rapiti da Jabhat al-Nusra – il braccio di al-Qaeda in Siria – è stato a causa di una soffiata da parte dell’intelligence turca.
Molte fonti vicine ai ribelli hanno confermato al sito statunitense McClatchy che la Turchia fa il doppio gioco, eppure il Pentagono continua a negare tutto. Come ha dichiarato di recente un suo portavoce: «La Turchia è un alleato della NATO, un amico degli Stati Uniti e un importante partner nella coalizione internazionale». Poco importa che l’“alleato” in questione abbia aiutato l’ISIS a piazzare più di un miliardo di dollari di petrolio sul mercato nero.
Come ha fatto notare David Graeber, professore della London School of Economics:
Se la Turchia avesse imposto lo stesso embargo sui territori dell’ISIS che ha imposto ai territori della Siria in mano alle forze curde, il “califfato” sarebbe crollato da un pezzo – e gli attacchi di Parigi probabilmente non sarebbero mai avvenuti. E se la Turchia lo facesse oggi, l’ISIS crollerebbe probabilmente nel giro di pochi mesi. Eppure non c’è un singolo leader occidentale che abbia chiesto ad Erdogan di farlo.
Qualche ufficiale ha denunciato questo evidente paradosso, ma senza successo. L’anno scorso, Claudia Roth, vicepresidente del parlamento tedesco, si è indignata dopo aver scoperto che la NATO stava permettendo alla Turchia di ospitare un campo dell’ISIS ad Istanbul, di trasferire armi ai militanti islamici e di facilitare il commercio di petrolio al gruppo terroristico. Non è successo nulla.
O meglio, la Turchia è stata ampiamente ricompensata per la sua alleanza con lo “Stato del terrore” che ha compiuto il massacro del 13 novembre a Parigi. Solo un mese prima degli attacchi, infatti, la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva proposto di accelerare la richiesta della Turchia di entrare nell’UE, offrendo ai turchi la possibilità di viaggiare nell’UE senza visto.
Un’organizzazione terroristica “para-statale”
Questa storia non coinvolge solo la Turchia, però. Fonti politiche e di intelligence di alto rango del Governo regionale del Kurdistan (KRG) hanno confermato la complicità di vari ufficiali di alto livello del KRG nel facilitare il commercio di petrolio dell’ISIS, per guadagno personale e per rimpolpare le casse del governo. Nonostante un’indagine parlamentare abbia corroborato queste allegazioni, non è stata aperta nessuna indagine. I “mediatori” del KRG e di altri governi continuano indisturbati le loro attività di sponsorizzazione del terrorismo.
Nel corso della sua testimonianza di fronte alla commissione per i servizi armati del Senato statunitense, nel settembre 2014, è stato chiesto al general Martin Dempsey, che al tempo era il presidente della giunta dei capi di Stato maggiore, se sapesse di «qualcuno dei nostri alleati arabi che sostiene l’ISIL»? «Ne conosco vari che li finanziano», ripose.
In altre parole, più di un anno fa, l’ufficiale militare di più alto rango degli Stati Uniti (al tempo) era già perfettamente a conoscenza del fatto che l’ISIS veniva finanziata dagli stessi «alleati arabi» che si erano appena uniti alla coalizione anti-ISIS guidata dagli Stati Uniti. Si stima che gli alleati in questione – tra cui l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti ed in particolare il Kuwait – abbiano incanalato miliardi di dollari ai ribelli estremisti in Siria. Non c’è da sorprendersi, dunque, che i loro bombardamenti anti-ISIS, già perlopiù simbolici, si siano ridotti a zero, e che ora tutti i loro sforzi siano concentrati nel bombardare gli sciiti houti in Yemen, spianando la strada all’ascesa dell’ISIS anche lì.
I legami porosi tra alcuni membri dell’Esercito siriano libero (ESL) e i gruppi islamisti militanti come al-Nusra, Ahram al-Sham e ISIS hanno facilitato il passaggio di armi tra gruppi “moderati” e gruppi islamisti. Analizzando i numeri seriali delle armi rivenute nelle mani dell’ISIS, l’organizzazione britannica Conflict Armament Research (CAR) ha dimostrato che molte di esse sono riconducili a forniture di armi inviate in Siria dalla CIA, dai paesi del Golfo e dalla Turchia. La stessa organizzazione ha anche dimostrato come questo traffico illegale di armi sia finanziato dall’Unione europea e dal dipartimento degli affari esteri svizzero.
Il giornalista tedesco Jurgen Todenhofer, che ha passato dieci giorni all’interno dello Stato Islamico, l’anno scorso scriveva che l’ISIS è «indirettamente» finanziata dall’Occidente: «Comprano le armi che noi forniamo all’Esercito siriano libero, armi occidentali; ho visto armi francesi, tedesche, americane».
L’ISIS, in altre parole, è un’organizzazione terroristica che gode del sostegno (più o meno diretto) di vari Stati; ed è addirittura finanziata da vari regimi alleati dell’Occidente che sono parte integrale della coalizione anti-ISIS.
È naturale, dunque, chiedersi perché Hollande e gli altri leader occidentali che hanno promesso di «distruggere» l’ISIS con tutti i mezzi necessari continuino ad ignorare il fattore più centrale di tutti: il sostegno materiale e finanziario della Turchia e dei paesi del Golfo all’estremismo islamico nella regione (ed in particolar modo all’ISIS).
Le risposte sono molteplici, ma c’è n’è una che spicca sulle altre: la dipendenza dell’Occidente dai regimi che sostengono il terrorismo, poiché da essi dipende l’accesso dell’Occidente alle risorse petrolifere e di gas del Medio Oriente, del Mediterraneo e dell’Asia centrale.
La guerra degli oleodotti
La strategia attualmente in corso è descritta a grandi linee in un rapporto del 2008 della RAND Corporation intitolato Unfolding the Future of the Long War (‘Delineando il futuro della lunga guerra’). Il rapporto notava che «le economie degli Stati industrializzati continueranno a dipendere pesantemente dal petrolio, che rimarrà una risorsa di grande importanza strategica». Dal momento che la maggior parte del petrolio verrà prodotto in Medio Oriente, gli Stati Uniti hanno «interesse a garantire la stabilità della regione e a mantenere buoni rapporti con gli Stati mediorientali». Il caso vuole che quegli Stati siano anche i principali finanziatori del terrorismo islamista: «L’area geografica con le principali riserve di petrolio coincide con la base di potere di gran parte della rete salafita-jihadista. Questo crea un legame tra la fornitura di petrolio e la “lunga guerra” che non sarà facile spezzare».
Documenti declassificati del governo statunitense sfatano qualunque dubbio su quale fosse la motivazione principale per la guerra in Iraq del 2003: creare una presenza militare permanente degli Stati Uniti nel Golfo Persico per garantirsi l’accesso al petrolio e al gas della regione.
L’ossessione per l’oro nero, però, non riguarda solo l’Occidente. «Quasi tutte le forze straniere coinvolte nella guerra in Siria rappresentano paesi esportatori di gas che hanno interessi in uno dei due oleodotti che dovrebbero portare il gas qatariano o iraniano in Europa attraverso la Siria», ha scritto Mitchell Orenstein del Davis Center for Russian and Eurasian Studies dell’università di Harvard su Foreign Affairs.
Nel 2009, il Qatar ha proposto la creazione di un oleodotto per portare il proprio gas in Turchia attraverso l’Arabia Saudita, la Giordania e la Siria. Ma Assad «si è rifiutato di apporre la sua firma sul progetto», scrive Orenstein. «È stata la Russia, che non voleva vedere compromessa la propria posizione sul mercato del gas europeo, a metterlo sotto pressione affinché non firmasse». La Gazprom russa vende l’80 per cento del suo gas all’Europa. Per cui, nel 2010, la Russia ha avanzato la proposta di «un oleodotto alternativo Iran-Iraq-Siria per far arrivare il gas iraniano fino al Mediterraneo». Il progetto permetterebbe a Mosca di «controllare tutte le importazioni di gas verso l’Europa dall’Iran, dalla regione del Mar Caspio e dall’Asia centrale». Nel luglio del 2011, poi, è stata annunciata la costruzione di un oleodotto Iran-Iraq-Siria da 10 miliardi di dollari, e un accordo preliminare è stato firmato da Assad.
Qualche mese più tardi, gli Stati Uniti, la Francia e Israele hanno cominciato a finanziare in segreto i gruppi ribelli siriani, per facilitare il «collasso» del regime di Assad «dall’interno». «Gli Stati Uniti… sostengono l’oleodotto qatariano al fine di controbilanciare il potere dell’Iran e diversificare la fornitura di gas all’Europa, riducendo l’influenza della Russia in quel mercato», ha spiegato Orenstein su Foreign Affairs.
In un articolo pubblicato l’anno scorso su Armed Forces Journal, il maggiore dell’esercito statunitense Rob Taylor ha criticato la narrazione offerta dai media del conflitto siriano, la quale ignora completamente la questione dell’oleodotto:
Qualunque resoconto del conflitto siriano che ignori l’aspetto geopolitico della questione è incompleta… Vista attraverso le lenti della geopolitica e dell’economia, il conflitto siriano non è una guerra civile ma un tentativo da parte di diverse potenze internazionali di posizionarsi sulla scacchiera geopolitica in vista della creazione dell’oleodotto… Il via libera di Assad all’oleodotto, che rafforzerebbe enormemente la posizione dei tre Stati sciiti (Iran, Iraq e Siria) sul mercato del gas naturale, dimostra i legami della Russia col petrolio siriano. L’Arabia Saudita e il Qatar, insieme ad al-Qaeda e ad altri gruppi, puntano invece a deporre Assad e a installare un regime sunnita a Damasco. Nel farlo, sperano di ottenere un certo margine di controllo sul “nuovo” governo siriano e una fetta dei proventi dell’oleodotto.
Gli oleodotti non interesserebbero solo i pozzi iraniani o qatariani già esistenti, ma anche potenziali nuovi giacimenti offshore nel Mar Mediterraneo orientale, che comprende le acque territoriali di Israele, Palestina, Cipro, Turchia, Egitto, Siria e Libano. Si stima che l’area contenga fino a 1,7 miliardi di barili di petrolio. Un rapporto del 2014 del Strategic Studies Institute dell’esercito statunitense notava che la Siria stessa possiede un grande potenziale in termini di petrolio e gas offshore.
La brutalità del regime di Assad è fuori questione. Ma finché Assad non ha dimostrato di non essere disposto a rompere con la Russia e con l’Iran, in particolare per quel che concerne l’oleodotto, la politica statunitense nei confronti di Assad è stata ambivalente. Cablogrammi del Dipartimento di Stato ottenuti da Wikileaks dimostrano che il governo statunitense era indeciso se finanziare l’opposizione siriana per indurre un «cambio di regime» o utilizzare quella minaccia per indurre «riforme comportamentali». La preferenza di Obama per la seconda opzione ha portato il governo statunitense a corteggiare senza vergogna Assad, nella speranza di allentare i suoi legami con l’Iran, di aprire l’economia siriana agli investimenti statunitensi e di riallineare il suo regime con i progetti israelo-statunitensi per la regione.
Anche durante la primavera araba del 2011, quando le forze di sicurezza di Assad iniziarono a reprimere brutalmente i manifestanti pacifici, sia Kerry che il segretario di Stato Hillary Clinton insistettero sul fatto che Assad era un «riformatore» – dandogli di fatto carta bianca per continuare a reprimere i manifestanti. È solo in seguito alla decisione di Assad di schierarsi dalla parte della Russia e dell’Iran, e di approvare la costruzione del suddetto oleodotto, che gli Stati Uniti hanno cambiato politica nei confronti del regime.
La danza dell’Europa col diavolo
La Turchia gioca un ruolo cruciale nel progetto statunitense-qatariano-saudita per costruire un oleodotto alternativo a quello “sciita” che indebolisca il ruolo della Russia e dell’Iran nell’approvvigionamento di gas all’Europa. Ma questo è solo uno dei tanti oleodotti potenziali che coinvolgono la Turchia.
«La Turchia gioca un ruolo chiave nella diversificazione della fornitura di gas all’Unione europea. Sarebbe un grave errore rimandare ulteriormente una maggiore cooperazione energetica», ha insistito di recente David Koranyi, direttore dell’iniziativa Eurasian Energy Futures dell’Atlantic Council, think tank con sede a Washington.
Vista la dipendenza dell’Europa dalla Russia per un quarto del suo gas, minimizzare tale dipendenza e ridurre la vulnerabilità dell’UE a eventuali interruzioni della fornitura è diventato un imperativo strategico. Tale imperativo si concilia, tra l’altro, con gli sforzi di lunga data degli Stati Uniti di sottrarre l’Europa centrale e dell’est all’influenza russa. La Turchia gioca un ruolo chiave nella nuova mappa energetica immaginata dagli USA e dall’UE.
Un recente rapporto del Global Sustainability Institute (GSI) dell’università di Anglia Ruskin avverte che diversi paesi europei – in particolare il Regno Unito, la Francia e l’Italia – rischiano di andare incontro ad una seria crisi energetica nel futuro prossimo, a causa della «carenza di risorse naturali», tra cui petrolio, carbone e gas.
Lo studio suggerisce come soluzione una rapida transizione verso l’utilizzo di fonti rinnovabili, ma i leader europei sembrano avere altri piani: ossia, la costruzione di una nuova rete di oleodotti che trasporti il petrolio e il gas dal Medio Oriente, dal Mediterraneo orientale e dall’Asia centrale all’Europa passando per la Turchia del nostro caro amico Erdogan. Di fronte a ciò, il fatto che Erdogan sia il principale sponsor dello Stato Islamico passa in secondo piano.
Mettere in dubbio la politica estera occidentale o della NATO non sarebbe patriottico. Così come non sarebbe patriottico mettere in dubbio le motivazioni dei nostri leader eletti, che, pur essendo a conoscenza di queste informazioni da anni, continuano ancora oggi – anche dopo il massacro di 129 persone a Parigi – a mentirci, dicendo di voler «distruggere» un gruppo terroristico armato e finanziato dalla stessa NATO, nel mentre che implementano politiche sempre più repressive in patria.
No, no, no. La vita continua. I cittadini devono continuare ad avere fiducia nello Stato di sicurezza. Gli Stati Uniti devono continuare a fare affidamento sull’intelligence turca per addestrare i ribelli “moderati” in Siria, e l’UE deve insistere sulla cooperazione “anti-terroristica” col regime di Erdogan, mentre accelera l’ingresso del padrino dell’ISIS nell’Unione.
Ma non temete: Hollande è intento a «distruggere» l’ISIS. Proprio come Obama e Cameron – ed Erdogan. È solo che certe linee rosse non possono essere superate.
Pubblicato su INSURGE Intelligence il 19 novembre 2015. Traduzione di Thomas Fazi.