di Richard Baldwin, Thorsten Beck, Agnès Bénassy-Quéré, Olivier Blanchard, Giancarlo Corsetti, Paul de Grauwe, Wouter den Haan, Francesco Giavazzi, Daniel Gros, Sebnem Kalemli-Ozcan, Stefano Micossi, Elias Papaioannou, Paolo Pesenti, Christopher Pissarides, Guido Tabellini e Beatrice Weder di Mauro
L’eurozona ha va riformata, ma non è possibile giungere ad un accordo sui passi da intraprendere se non si è prima d’accordo su cosa non ha funzionato. Questo articolo introduce un saggio della serie Policy Insight del CEPR (Centre for Economic Policy Research). Gli autori sono una dozzina di eminenti economisti di vari orientamenti teorici. La consensus narrative qui descritta è sostenuta da una lunga e crescente lista di economisti.
La crisi dell’eurozona è esplosa nel maggio 2010, ed è lungi dall’essere finita. Sebbene recentemente siano emersi alcuni segnali positivi, la crescita e la disoccupazione nell’eurozona sono a livelli avvilenti e secondo le previsioni lo resteranno ancora per anni.
- Una grossa fetta di giovani europei sono stati o saranno disoccupati durante gli anni critici e più importanti della loro vita lavorativa.
- Il malessere economico sta alimentando visioni estremiste e tendenze nazionaliste proprio nel momento in cui l’Europa ha bisogno di cooperare per affrontare importanti sfide che vanno dalla crisi migratoria ai nuovi possibili shock finanziari.
Quel che è peggio, molte delle fragilità e degli squilibri che hanno portato l’unione monetaria verso la crisi sono tuttora presenti.
- Molte banche europee sono alle prese con crediti inesigibili.
- Molte stanno ancora investendo pesantemente nel debito pubblico dei propri rispettivi paesi – un legame che implica che i problemi delle banche minacciano la solvibilità è dei governi e viceversa.
- I debitori di tutto il continente sono vulnerabili all’inevitabile normalizzazione dei tassi d’interesse, dopo che per anni questi sono rimasti vicini allo zero.
Come primo passo verso l’individuazione di un ampio consenso su ciò che è necessario fare per aggiustare l’eurozona, abbiamo scritto ciò che consideriamo essere la consensus narrative della crisi dell’eurozona. Questa consensus narrative è stata pubblicata oggi sul CEPR Policy Insight n. 85, dove può essere scaricata gratuitamente.
Sebbene gli autori provengano dagli orientamenti teorici più diversi, abbiamo trovato sorprendentemente semplice giungere ad un accordo sulle ragioni principali della crisi. Diciamo «sorprendentemente» perché i politici dell’eurozona restano ancora attaccati a un “racconto” molto diverso riguardo alla crisi dell’eurozona.
La necessità di una consensus narrative
Formulare delle linee di consenso sulle cause della crisi dell’eurozona è essenziale. Quando avvengono cose terribili, la tendenza naturale è quella di concentrarsi sul danno immediato e di intraprendere delle mosse per evitare che i problemi si ripetano in futuro. Non è possibile essere d’accordo sulle mosse da intraprendere senza essere d’accordo su cosa abbia portato a questa situazione. Senza un accordo su questo, il risultato sono tipicamente mezze misure e compromessi confusi. Ma questi non saranno abbastanza per superare la crisi dell’eurozona e tornare a crescere.
È per questo motivo che formulare una consensus narrative sulla crisi dell’eurozona è così importante. I decisori politici dell’eurozona non potranno mai essere mettersi d’accordo sui cambiamenti necessari per evitare crisi future a meno che non siano d’accordo sulla spiegazione basilare del perché la crisi sia stata così grave e sia durata così a lungo.
La crisi dell’eurozona è consistita in un “sudden stop”
Il nocciolo delle crisi consiste quasi sempre in un rapido svilupparsi di squilibri economici. Nel caso della crisi dell’eurozona, gli squilibri erano qualcosa di tutt’altro che originale – troppo debito privato e pubblico detenuto in mani estere. Dal momento in cui è stato creato l’euro fino allo scoppio della crisi, ci sono stati ampi flussi di capitale dai paesi centrali dell’eurozona, come la Germania, la Francia e l’Olanda, verso i paesi periferici dell’eurozona, come l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e la Grecia.
È importante notare che la crisi dell’eurozona non deve essere interpretata come una crisi del debito pubblico, almeno in origine – anche se poi ha finito per diventarlo.
- A parte la Grecia, i paesi che hanno dovuto fare ricorso a programmi di salvataggio non registravano alti livelli di rapporto debito-PIL prima della crisi.
- Il Belgio e l’Italia hanno attraversato la crisi con debiti pubblici superiori al 100 per cento del PIL ma non hanno avuto bisogno di un programma della troika.
- L’Irlanda e la Spagna, i cui rapporti debito pubblico-PIL allo scoppio della crisi erano inferiori al 40 per cento, invece, hanno avuto bisogno di salvataggi.
Il vero colpevole è stato l’ampio flusso di capitali intra-euro che ha avuto luogo nei dieci anni che hanno preceduto la crisi.
Questi squilibri hanno creato le basi per l’esplosione dei problemi dell’eurozona, esplosione avvenuta a partire dal 2010. Tutti i paesi colpiti dalla crisi avevano accumulato deficit delle partite correnti. Nessuno di quelli che aveva accumulato surplus delle partite correnti, invece, è stato colpito.
La crisi dell’eurozona è iniziata con un “sudden stop” (‘arresto improvviso’) nei flussi di capitale tra paesi. Gli investitori sono diventati riluttanti a prestare altro denaro, specialmente alle banche e ai governi degli altri paesi. Le caratteristiche particolari dell’unione monetaria hanno fatto sì che il “sudden stop” non sia stato immediato (come fu, ad esempio, per l’Islanda).
Al contrario, questo “sudden stop con caratteristiche da unione monetaria” si è manifestato attraverso l’aumento dei premi di rischio. L’improvvisa fine dei flussi di capitale ha sollevato preoccupazioni sulla solvibilità delle banche e dei governi nei paesi che dipendevano dai prestiti esteri, per esempio in quelli che stavano accumulando deficit delle partite correnti. Il rallentamento della crescita ha comportato grossi disavanzi nel bilancio pubblico e un rapido aumento del rapporto debito pubblico-PIL.
Di fronte al peggiorare della situazione economica, molti governi si sono dovuti fare carico dei debiti delle banche dei propri paesi, e questo ha fatto aumentare ulteriormente il peso del debito pubblico. È stato così che una crisi della bilancia dei pagamenti si è trasformata in una crisi del debito pubblico.
Perché l’appartenenza all’eurozona è stata determinante: gli amplificatori della crisi
L’appartenenza all’unione monetaria ha giocato un ruolo centrale perché ha permesso agli squilibri transnazionali di diventare così ampi senza che se ne accorgesse praticamente nessuno, finché non è esplosa la crisi. Ha avuto un ruolo importante anche perché l’infrastruttura istituzionale, così incompleta, ha amplificato in vari modi l’iniziale perdita di fiducia nei confronti dei paesi in deficit.
- I governi dell’eurozona che vanno in crisi non hanno un prestatore di ultima istanza.
Senza un prestatore di ultima istanza, un piccolo shock di sostenibilità può amplificarsi senza limite a causa della spirale mortale che si crea tra l’aumento dei premi di rischio ed il peggioramento del deficit di bilancio che deriva dall’aumento dei costi di servizio del debito. Questo vortice tra debito e rischio default ha intrappolato il Portogallo e fatto quasi altrettanto con Italia, Spagna e Belgio. Perfino la Francia e l’Austria hanno navigato ai margini di questo vortice del debito, nei periodi peggiori della crisi.
- L’altra classica risposta che si dà alle crisi – la svalutazione della moneta – non era possibile per i paesi che usavano l’euro.
Nell’insieme, queste due caratteristiche hanno fatto sì che il debito denominato in euro assomigliasse al debito in valuta straniera nelle crisi tradizionali da “sudden stop” che capitano ai paesi in via di sviluppo.
- Lo stretto legame tra le banche dell’eurozona ed i governi nazionali ha amplificato e diffuso la crisi.
È il cosiddetto “doom loop”: un ciclo retroattivo tra le banche ed i loro governi. È stata questa una delle ragioni fondamentali per cui la notizia della reale entità del deficit greco, nel 2009, ha potuto gonfiarsi fino a diventare una crisi sistemica di proporzioni storiche.
- La predominanza del finanziamento bancario ha trasmesso i problemi delle banche all’intera economia.
Nel momento in cui il “doom loop” ed il rallentamento dell’economia hanno sollevato incertezza, gli investimenti hanno sofferto molto di più rispetto ai paesi in cui il finanziamento bancario è meno centralizzato, come gli USA. Questo ha indebolito le economie in un modo che ha peggiorato le previsioni di sostenibilità del debito dei paesi e delle banche.
- La rigidità dei mercati dei prodotti e dei fattori produttivi ha reso lento e doloroso il processo di riaggiustamento della competitività.
L’intera situazione è stata peggiorata dalla cattiva gestione della crisi. Sono stati commessi degli errori, ma soprattutto il problema è che non c’era nulla, nell’infrastruttura istituzionale dell’eurozona, che consentisse di affrontare una crisi di questa portata. I leader politici dell’eurozona si sono trovati di fronte alla doppia sfida di fare da pompieri e di costruttori di istituzioni; tutto ciò in una situazione in cui gli interessi dei debitori e dei creditori divergevano nettamente.
A giudicare dalle reazioni dei mercati, si direbbe che i vari interventi “di salvataggio” non hanno fatto che peggiorare le cose. Si è svoltato l’angolo solo nell’estate del 2012, con la decisione di stabilire un’unione bancaria ed il “whatever it takes” del presidente della BCE Mario Draghi.
I seguenti economisti hanno accettato di sostenere la consensus narrative. Se sei un economista e vuoi sostenere anche tu questa consensus narrative, scrivi a support.rebooting@cepr.org dichiarando il tuo sostegno ed allegando un curriculum che dimostri che sei un economista.
I sostenitori della consensus narrative sulla crisi dell’eurozona (in ordine di risposta):
Silvana Tenreyro, LSE
Sir Charles Bean, LSE (ex vicegovernatore della Banca d’Inghilterra)
Philippe Bacchetta, università di Losanna
Jorge Braga de Macedo, Universidade Nova de Lisboa
Lars E. O. Svensson, università di Stoccolma (ex vicegovernatore della banca centrale svedese)
Andrew Rose, università di Berkeley
László Halpern, Accademia delle scienze ungherese
Refet S. Gürkaynak, università di Bilkent
Giorgio E. Primiceri, Northwestern University
Peter Bofinger, università di Würzburg
Jürgen von Hagen, università di Bonn
Tryphon Kollintzas, Athens University of Economics and Business
Patrick Honohan, Trinity College Dublin (ex governatore della banca centrale irlandese)
Charles A. Goodhart, LSE
David Vines, università di Oxford
Fabrizio Coricelli, università di Paris I
Stephanie Schmitt-Grohé, Columbia University
Pierre-Olivier Gourinchas, università di Berkeley
Evi Pappa, EUI
Cédric Tille, The Graduate Institute, Ginevra (membro del consiglio della banca nazionale svizzera)
Stephen G. Cecchetti, Brandeis International Business School (ex capo consigliere economico della Banca dei regolamenti internazionali)
Carmen Reinhart, università di Harvard
Ugo Panizza, The Graduate Institute, Ginevra
Tommaso Monacelli, Università Bocconi
Donato Masciandaro, Università Bocconi
Tony Yates, università di Birmingham
Yannis M. Ioannides, Tufts University
Paolo Giudici, Università di Pavia
John Hassler, Institute for International Economic Studies in Stockholm
Dirk Schoenmaker, Rotterdam School of Management, Erasmus University
Guillaume Daudin, università di Paris-Dauphine
Jesper Stage, Luleå University of Technology
Manos Matsaganis, Athens University of Economics and Business
Athanasios Orphanides, MIT (ex governatore della banca centrale di Cipro)
Paolo Giudici, università di Pavia
Anthony Elson, Sanford School of Public Policy, Duke University
Altri sostenitori:
Orkun Saka
Shalva Mkhatrishvili
Marta Götz
Pubblicato su VoxEU il 20 novembre 2015.