di Carlo Clericetti
Ha qualcosa di surreale dibattito che si sta svolgendo, dentro e fuori dal parlamento, sulla manovra di finanza pubblica e sui suoi riflessi sulla Legge di Stabilità. Il governo per bocca di tutti i suoi esponenti la definisce “espansiva” e di grande stimolo alla domanda. Molti di coloro che fino a ieri hanno criticato l’esecutivo perché teneva troppo strette le maglie del bilancio, soffocando l’economia, oggi si lanciano in accuse perché l’espansione sarebbe finanziata in deficit invece che con tagli di spesa, commettendo così, come vedremo, un triplo errore.
La minoranza PD fa le barricate essenzialmente su due punti, l’eliminazione delle tasse anche sulle case di lusso – e questo ci può stare, in effetti è una misura reaganiana, quando mancano soldi per gli esodati e la lotta alla povertà – e il tetto a 3.000 euro sull’uso del contante. E questa, francamente, non sembra una misura contro cui combattere a morte: certo, è inopportuna; certo, strizza l’occhio alla piccola evasione; ma sul fatto che provochi effettivamente danni molti avanzano dubbi, e comunque non è certo tra i provvedimenti più esecrabili presi da questo governo. Le barricate, invece, bisognerebbe farle su tutta l’impostazione della manovra: non è che se si correggono quei due punti poi se ne possa essere soddisfatti. Ma l’impressione che danno è questa.
Se vogliamo tornare alla realtà, per giudicare se l’impostazione della finanza pubblica sia espansiva o restrittiva basta guardare un solo dato, quello del saldo primario (entrate meno spese senza considerare gli interessi sul debito). Se il bilancio pubblico immette nell’economia più risorse di quante ne prende (cioè se il saldo primario è negativo) si sta facendo una politica espansiva. Se invece il saldo è positivo, vuol dire che lo Stato prende più di quanto dà, quindi sta stringendo.
Ebbene, il saldo primario è positivo, come è stato per tutto il periodo della crisi tranne un anno. Non solo, ma aumenta rispetto a quest’anno, perché nel 2015 dovrebbe chiudere all’1,7 per cento (in punti di PIL) e nel 2016 dovrebbe arrivare al 2 per cento (secondo il Bilancio programmatico; nella Nota di Aggiornamento al DEF 2015 si parlava addirittura del 2,9). Negli anni successivi dovrebbe aumentare ancora, fin quasi al 5 per cento nel 2019: in una fase di sostanziale stagnazione, una follia. Peraltro scende anche il deficit (cioè il dato che comprende il pagamento degli interessi), dal 2,6 di quest’anno al 2,2 del prossimo (2,4 se ci concederanno l’ulteriore “flessibilità-immigrati”).
Ma la spesa per interessi conta poco o nulla per la crescita. I tecnici dicono che ha un moltiplicatore nullo, in termini più comprensibili possiamo dire che quei soldi in parte vanno all’estero (un terzo o poco più sono i nostri titoli detenuti da investitori stranieri) e per quasi tutto il resto rimangono nel circuito della finanza e del risparmio, non vanno ad alimentare investimenti nell’economia reale e consumi. Per questo ciò che conta ai fini del rilancio dell’economia non è il deficit, ma il saldo primario.
Ma come fa, allora, il governo, a sostenere di aver varato una manovra espansiva? Lo dice perché, a legislazione invariata (cioè se non si fosse fatta nessuna manovra) il deficit sarebbe stato più basso, l’1,4 per cento, soprattutto perché sarebbero scattate le clausole di salvaguardia inserite negli anni passati (e ora rinviate all’anno prossimo) con 16,8 miliardi di tasse aggiuntive. E poi perché a Bruxelles, e di conseguenza anche a via XX Settembre, si trastullano con le formule esoteriche del “PIL potenziale” e del “bilancio strutturale”.
Il PIL potenziale sarebbe quello che si otterrebbe se tutti i fattori della produzione fossero impiegati al meglio. A chi pensasse di prendere sul serio questi conteggi facciamo presente che per farli bisogna stabilire una serie di ipotesi, e abbiamo visto quanto ci azzeccano con le previsioni. Non solo: non c’è un solo metodo per calcolarlo. Se si usasse per esempio la metodologia OCSE, invece di quella adottata dalla Commissione, il nostro “bilancio strutturale” risulterebbe in surplus dal 2013. L’anno scorso, dopo che persino Mario Draghi aveva fatto notare che questi conteggi sono assai dubbi (eufemismo per dire che non valgono la carta su cui sono scritti), l’Italia aveva dedicato una sezione del Bilancio programmatico (quello che si manda a Bruxelles per l’approvazione) proprio alla critica di questa metodologia. Non risulta che ne sia seguita alcuna modifica, ed è difficile stupirsene: queste tecnicalità sono nient’altro che il modo di dare una veste pseudo-scientifica alla linea politica che si vuole imporre. Anche il “deficit strutturale” aumenta di qualche decimale, e anche questo serve a raccontare la favola di una politica espansiva.
La conclusione è che sì, la “manovra” è lievemente espansiva, ma solo nel senso che attenua una politica restrittiva che però resta tale: il saldo primario non mente, lì non ci sono ipotesi e formulette, solo una banale sottrazione (entrate meno spese). Ecco i suoi effetti in un grafico tratto dall’audizione di Giuseppe Pisauro, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio.
Ma non è finita, c’è ancora qualcosa da dire. Come viene attuata questa “riduzione della restrizione”? Perché non tutti i provvedimenti hanno lo stesso effetto sull’economia. Pochissimo per gli investimenti pubblici, che, come ricerche ormai numerose attestano, nelle fasi in cui l’economia langue sono la cosa che ha maggiori effetti sulla crescita. Per questa voce è previsto un aumento del 2,4 per cento nel 2016 dopo il +4,1 per cento di quest’anno: ma questi aumenti vengono dopo il -6,9 per cento del 2014 (dati della Nota di Aggiornamento al DEF), e quindi non bastano nemmeno a recuperare il crollo precedente che ha segnato un minimo storico. Quello su cui si punta è ridurre le tasse alle imprese e – con quelle sulla casa, la misura più costosa – alle persone. Ma in questo modo si danno più soldi a chi ha redditi più alti, quindi non destinerà ai consumi tutto quello che gli arriva in più, come si vede dal grafico qui sotto, riducendo l’effetto sulla ripresa. Ci sono poi altre misure come la detassazione del “welfare aziendale” e del cosiddetto “salario di produttività” che meriterebbero, in un’ottica progressista, assai più critiche di tetto al contante: ma ne riparleremo, perché meritano un discorso a parte.
Nel complesso, l’ottica è quella che lo Stato non deve intervenire direttamente, ma solo cercare di spingere i privati a darsi da fare. Una ricetta che non ha funzionato per tutti questi anni, ma continua pervicacemente ad essere riproposta. È questa la logica della manovra contro cui si dovrebbe combattere, invece di fare la guerra su singoli dettagli. A questo punto dovremmo aver spiegato perché parlavamo di “triplo errore” delle critiche da destra. Il primo è che si parla di un’espansione che non c’è; il secondo che l’economia possa essere stimolata tagliando la spesa; il terzo che sia una manovra in deficit, mentre, come abbiamo visto, il fattore che conta, cioè il saldo primario, è in surplus.
Ricapitoliamo. La manovra per il 2016 attenua la disastrosa austerità che ci ha regalato – finora – quasi otto anni terribili, ma non c’è alcun cambiamento di rotta. Soprattutto, il complesso dei provvedimenti mostra che restiamo in pieno nella logica neoliberista, che vede lo Stato come un mostro da ridurre il più possibile e il welfare come qualcosa che deve diventare un intervento residuale per chi è in miseria, e non un mezzo per garantire a tutti i diritti di cittadinanza. La logica, insomma, che ha prevalso dagli anni ‘80 del secolo scorso, con la conquista dell’egemonia da parte delle destre. Che questo poi venga attuato da un partito che si dice di centrosinistra rimane un triste paradosso.
Pubblicato sulla Repubblica il 12 novembre 2015.