di Elido Fazi
Siamo in guerra. Lo hanno ripetuto decine di volte dopo l’orribile attacco terroristico di Parigi sia il presidente francese François Hollande che il primo ministro Manuel Valls. Ma la guerra non è certo scoppiata la settimana scorsa. Da anni gli Stati Uniti e la Francia stanno bombardando la Siria, in cerca di regime change, e da poco più di un mese anche la Russia (a fianco però dell’esercito regolare siriano e di Assad) ha iniziato i bombardamenti, con il meglio della propria tecnologia avionica, compresi i famosi caccia Sukhoi Su-35 (di recente la Cina ne ha comprati 24).
Ieri, un portavoce del ministero della difesa russa ha comunicato di aver colpito e ucciso tre importanti comandanti militari dell’ISIS, o, come ci ha suggerito di chiamarlo il presidente della Commissione europea Junker, Daesh, acronimo preferibile secondo il lussemburghese perché in Daesh non appare la parola Stato.
Il primo ministro britannico Cameron non fa parte di quelli che bombardano solo perché il Parlamento britannico glielo ha vietato nel settembre del 2013 e lui, con grande stizza, ha ubbidito al potere dei rappresentanti del popolo. Fosse stato per lui avrebbe partecipato con grande giubilo ai bombardamenti fino a quando – come dichiarava spesso, prima del voto negativo – il presidente siriano Assad non se ne fosse andato. Oggi, ironia della sorte, Cameron è il primo premier occidentale ad aver pubblicamente ammesso di aver cambiato idea. Il regime change, sostiene ora Cameron, con la sicura eliminazione fisica di Assad e possibilmente di tutta la sua famiglia, come già avvenuto nel caso di Saddam Hussein in Iraq e di Muammar Gheddafi in Libia, non è più necessario.
Sembra che Cameron si stia accodando alla posizione russa (che dovrebbe essere appoggiata anche da Federica Mogherini e da Matteo Renzi), che spinge per un governo di coalizione tra i sunniti ribelli finanziati e armati (malissimo) dagli americani e gli alawiti (di osservanza sciita) di Bashar al-Assad che governano la Siria dagli anni Sessanta, possibilmente sotto l’egida dell’ONU, anche se Cameron ha reiterato, anche di recente, che l’imprimatur dell’ONU non è necessario, come non fu necessario nel 2003 quando Blair e Bush II invasero l’Iraq.
Quale dovrebbe essere in questo momento la posizione dell’Italia? Secondo noi l’Italia dovrebbe appoggiare apertamente una soluzione diplomatica che preveda un governo di transizione in attesa di un cambiamento della costituzione siriana, per andare poi il prima possibile alle elezioni. E poi il nostro governo dovrebbe prendere atto che l’Europa (ovvero gli Stati Uniti d’Europa) come l’hanno immaginata De Gasperi negli anni Cinquanta e poi Spinelli negli anni Ottanta, con una politica di difesa comune che avrebbe portato automaticamente a una politica estera comune, è oggi, anche se sembra un miraggio, l’unico obiettivo politico per cui valga oggi la pena di battersi. L’Italia dovrebbe, come ha fatto in passato, far diventare l’obiettivo di una politica estera e di difesa comune il marchio originale della nostra politica. Se non prendiamo noi oggi la leadership in Europa su questi temi, nessun altro sarà in grado di farlo.
Se nel 1954 i francesi non avessero detto all’ultimo minuto “no” alla CED, la Comunità europea di difesa comune immaginata e voluta soprattutto da Alcide De Gasperi, ma appoggiata apertamente da Adenauer, non ci sarebbe stata sicuramente la guerra in Libia per cacciare Gheddafi – la politica estera europea non avrebbe coinciso con l’avventata politica estera francese o inglese, che, lo ammettono ormai tutti, è stato un disastro, lasciando parte del territorio in mano all’ISIS – e forse neanche la guerra civile siriana.
Tutti sostengono che per sconfiggere l’ISIS in Siria e Iraq c’è bisogno di truppe di terra. Alcuni sostengono che esse, dopo gli attentati di Parigi, dovrebbero anche essere in parte europee, russe e americane. Probabilmente non ce ne sarà bisogno se l’esercito siriano riacquista un po’ di morale, se i curdi, soprattutto le mirabili combattenti femminili, continuano a combattere come stanno facendo nelle ultime settimane, e se gli sciiti dell’Iraq e i turchi cominciano a combattere, e combattere dalla parte giusta. Forse vale la pena anche di ricordare che prima dell’invasione dell’Iraq non era mai stato registrato un kamikaze in questo paese. E che l’esercito dell’ISIS non è solo composto da fanatici religiosi disponibili a farsi esplodere in nome di Allah. In esso milita una parte dell’esercito di Saddam Hussein, scioccamente smantellato dopo l’invasione del 2003 e che notoriamente non era composto da fanatici religiosi.
Altro discorso, ovviamente, è come combattere il terrorismo all’interno dei paesi europei. Sembra che ci siano circa 1.500 terroristi in Francia, un numero enorme se si pensa a quello che hanno combinato una decina di loro, e anche i circa 100 terroristi che sembra siano dormienti in Italia sono un pericolo enorme. Il discorso più difficile da fare è come comportarsi con i milioni di musulmani che sono brave persone e che da anni vivono nei nostri paesi e con un nostro passaporto.
Hollande non ha fatto appello al famigerato articolo 5 della NATO, che prevede che un attacco contro un alleato è da considerarsi un attacco contro tutti gli alleati – articolo usato per la prima volta nel 2001 dopo l’attacco alle Torri Gemelle –, ma agli articoli sulla sicurezza e la difesa comune del Trattato di Lisbona. Secondo noi, in questa fase in cui nessun paese europeo conosce e capisce le intenzioni di Hollande, che militarmente tiene tutte le carte coperte, appellarsi a Lisbona non funziona.
Anche nei peggiori disastri, però, c’è qualcosa di buono. Gli attacchi terroristi ci di Parigi hanno affossato definitivamente, secondo noi, lo stupido fiscal compact, introdotto nel 2012, frutto degli ideologhi neoliberisti tedeschi. Difficile pensare che la Francia stia a pensare al “deficit strutturale” dei conti pubblici se si trova in emergenza militare. È una grande occasione per ridiscuterne, soprattutto per paesi come l’Italia che l’hanno subito in modo non democratico e che ne sono stati pesantemente danneggiati.