Si delinea ormai una fratellanza franco-belga nell’islam del terrore che ha colpito Parigi venerdì scorso. Anche nei recenti casi dell’attacco sul treno Amsterdam-Parigi e della strage di Charlie Hebdo, le commistioni transfrontaliere sono accertate e fanno riflettere. Ragazzi giovani, nati in Europa, pronti a farsi saltare per aria in nome di Allah e a tirare nella fossa assieme a loro decine di innocenti. Che cosa hanno in comune i disperati mussulmani francesi con i loro vicini belgi? Forse una cosa: la perdita di identità. L’universalismo repubblicano da decenni non seduce più. La macchina assimilatrice francese si è inceppata quando la Francia ha smesso di pensare al mondo e si è ritirata dentro le sue frontiere senza più alcuna ambizione di influenza. Quando, in altre parole, ha perso il suo cosmopolitismo in una svolta di ripiegamento su se stessa che si può far coincidere con la fine del regno di Mitterrand. Da allora la Francia non ha più quell’arroganza culturale, quella pretesa di essere unica che le rimproveravamo ma di cui avevamo anche bisogno. Perché in qualche modo ci ricordava che con i diritti dell’uomo è Oltralpe che è nato il primo progetto moderno di rifondazione dell’umanità, l’unico in fondo che non è stato mai smentito dalla storia. È passato inosservato e assolutamente incompreso il motivo che ha spinto la Francia, da sola, ad opporsi con accanimento nel giugno 2015 a una celebrazione europea della battaglia di Waterloo. Non fu un rigurgito di sciovinismo nazionale e di orgoglio giacobino. Davvero non c’era un bel nulla da celebrare. Semmai c’era da riflettere. Napoleone fu certo un dittatore, ma portò in tutta Europa lo stato di diritto e le libertà fondamentali che ci sono tanto care. Scardinò i totalitarismi religiosi e aprì la via alla democrazia elettiva e al modello di separazione fra Chiesa e Stato che ha liberato l’Europa da quell’oscurantismo religioso che oggi invece affligge tanti paesi islamici. Significativo che, contro la Francia, l’Europa intera, quella in fondo del congresso di Vienna, volesse a tutti i costi celebrare l’anniversario di Waterloo addirittura con una moneta.
Invece appare sempre più vero che a trascurare e a isolare la Francia l’Europa ci rimette sempre. L’abbiamo messa da parte, abbagliati dal miraggio di una superpotenza tedesca che non ha testa ma solo muscolo economico. Abbiamo avuto paura del suo statalismo accentratore, dando ascolto agli ultraliberisti dell’economia globalizzata, che sono un’uguale e più subdola minaccia allo stato di diritto e ai diritti dell’uomo. Anche i mercati sono potenti negatori di identità. Quando l’unico criterio è il profitto economico non c’è valore non commerciale che possa sopravvivere. Oggi ci accorgiamo che il modello francese, con tutti i suoi difetti, aveva una forza inestimabile proprio nella capacità di creare appartenenza. Quella che è mancata ai tanti giovani dell’emigrazione islamica ora abbindolati dal califfato del terrore.
Altra ma simile analisi vale per il Belgio, che in fondo non è mai esistito e che oggi si è polverizzato nella sua miriade di identità locali e linguistiche. Facciamo un breve inventario: le Fiandre non sono una ma almeno tre, il Brabante brussellese, l’occidente ostendese e l’oriente mosano. Liegi è una Vallonia a sé stante, enclavata e diversa da Namur, Bruxelles propria è un artificio, una città-stato abitata da non residenti. Quanto al sud ardennese, era lussemburghese e fu annesso al collage belga dal congresso di Vienna, assieme a tutto il resto. Che identità può dare una simile costellazione di localismi? Qui non c’è neppure un modello da imitare per integrarsi. Ci sono mille tribù già costituite e impenetrabili, chiuse su se stesse come la Padania che ha in mente Salvini. La settimana scorsa la copertina del più importante settimanale fiammingo titolava: “Le pensioni dei fiamminghi”. Questo è l’orizzonte del paese.
In questo quadro al giovane dell’immigrazione non resta nessun appiglio per integrarsi, nessuna possibilità di redenzione dalla sua non appartenenza. La religione, intesa in senso esclusivo e divisivo, diventa così l’unico riparo.
Qual è dunque la via d’uscita? Come infondere appartenenza a una massa di giovani extra-europei e anche ai nostri giovani, smarriti dalla deriva dello Stato? Resuscitare le nostre ormai impraticabili mitologie nazionali sarebbe assurdo. Andate a spiegare Garibaldi a un bambino siriano. E inventare un Risorgimento europeo sarebbe altrettanto ridicolo. Alla fine, quel che tiene insieme una comunità è una storia, nel senso di narrazione e di identificazione. Il multiculturalismo può funzionare solo così, incastonato in un progetto di vivere comune dove le nostre differenze si accettano senza cancellarsi. Scriveva Elémire Zolla: “Chiunque ribadisca la comunanza che unisce gli uomini li sta separando dallo spirito che li individua”. La narrazione comune scaturisce da sé quando c’è un progetto etico condiviso. Ma non c’è nessuna etica nella dilagante logica attuale del mercato sopra ogni cosa. Anche questo disorienta i giovani e non solo gli islamici, anche questo dissipa ogni appartenenza. Lo vediamo nell’America del melting-pot, dove il mito del successo personale è naufragato sotto i colpi della disuguaglianza sociale e ora l’individualismo armato trionfa. Oltre a fare la guerra al radicalismo religioso, oggi l’Europa dovrebbe avere il coraggio di attaccare anche quell’altro radicalismo, quello economico degli Standard & Poors e ridare nuova autorità allo Stato. Il vecchio, tanto denigrato Stato del modello francese di cui essere un servitore era motivo d’orgoglio e di considerazione sociale perché ogni funzionario rappresentava molto di più del suo mestiere, un valore che nessun mercato può comperare, ed esprimeva la giusta presunzione di tutto un popolo di avere inventato una cosa non da niente: la libertà.