di Elido Fazi
Per Fazi, l’Europa non inizia nell’economia ma nella cultura. L’economista ha una passione per il poeta inglese John Keats, che ha tradotto in italiano. «Esiste da sempre una cultura europea. Keats leggeva Dante in italiano. La cultura se ne andava da una frontiera all’altra. Questo è il contesto comune che permette di immaginare una vera Unione europea».
Per l’Unione europea, quali sono stati gli effetti positivi e quali quelli negativi dell’unione doganale e monetaria?
Ci sono vantaggi, naturalmente. A partire dal fatto di potersi muovere da una frontiera all’altra, anche se nell’ultimo periodo stiamo assistendo all’innalzamento di nuove barriere anti-immigrazione. Ci sono stati anche stati benefici economici: siamo riusciti a creare una moneta unica gestita da una banca centrale europea, che rappresenta una forma di unione federale economica. Tuttavia, dopo la crisi del 2007 e del 2008, la banca centrale statunitense è riuscita a rivitalizzare l’economia per mezzo della spesa in deficit, mentre la Banca centrale europea non è riuscita a fare lo stesso. Essa non ha tenuto conto delle diverse realtà dei paesi europei. Di conseguenza, la risposta, guidata dalla Germania, è stata molto meno efficace di quella statunitense.
Qual è la differenza tra l’integrazione di un gruppo di paesi e gli accordi di libero scambio?
La differenza è fondamentale. L’Unione europea è stata creata perché i suoi fondatori prevedevano un’unione politica oltre che monetaria, economica e fiscale. L’integrazione commerciale in Europa è stata realizzata; la sfida ora è raggiungere un’unione politica. Questo fa la differenza con gli accordi di libero scambio.
Qual è oggi il trattato di punta per l’Unione europea?
Parlando di trattati, possiamo citare il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP) come uno dei più importanti in fase di negoziazione tra gli Stati Uniti e l’Europa. Ma il TTIP ha una funzione non solo economica ma anche e soprattutto geopolitica: gli Stati Uniti stanno cercando di creare delle partnership politiche ed economiche che condizionino il rapporto dell’Europa con la Russia.
Che cosa significherebbe il fallimento dei negoziati?
Da un punto di vista geopolitico, una possibile cooperazione tra Europa e Asia lascerebbe gli Stati Uniti emarginati. Non avendo gli USA forti legami politici con l’America Latina, questo ridurrebbe gli USA ad un attore regionale, non più globale. Questo lo sostengono ormai diversi intellettuali, pensatori, think tank: gli accordi di libero scambio vanno visti come strumenti geopolitici.
Pensa che il TTIP si farà?
È molto difficile che questo trattato si concretizzi, a causa delle resistenze che sta generando. Esso non gioverebbe per nulla a quei paesi, come l’Italia, la cui economia si basa prevalentemente sulle piccole e medie imprese piuttosto che sulle multinazionali.
È applicabile un modello come quello dell’Unione europea in America Centrale?
È difficile rispondere perché non sappiamo esattamente qual è il modello europeo. Si tratta di un processo in corso d’opera, anche se non è chiaro se riusciremo a completarlo. Comunque l’Europa e l’America Centrale hanno molti elementi in comune: il nazionalismo, le guerre passate, ecc. Quindi sì, c’è la possibilità di applicare un modello simile anche in America Centrale. L’Europa è parte del continente euroasiatico, ma se non troviamo un terreno comune faremo fatica a tenere testa alla Cina. Lo stesso vale per l’America Centrale: uniti, avreste una maggiore capacità di dialogare con gli Stati Uniti ed il Sud America. In più voi avete il vantaggio, che noi non abbiamo, di condividere la stessa lingua.
Per i paesi centroamericani, quali possono essere gli ostacoli immediati ad una maggiore integrazione?
Il primo è il nazionalismo. Superarlo è molto difficile, come abbiamo visto in Europa. Ovviamente le élite di potere locali vi si opporranno. Lo vediamo anche in Europa: esistono soggetti che non vogliono cedere il loro potere ad un organismo esterno.
Quali sono gli attori più importanti nella creazione di un’unione?
Sono numerosi. Ma chiaramente tende sempre ad esserci un soggetto egemone che influenza il processo. Questo può creare problemi. Nel caso dell’Europa, quel soggetto è stato – ed è – la Germania. Quando l’Unione europea è stata creata, la Germania era ancora divisa in due; quando ci fu l’unificazione fu un primo ministro italiano, Giulio Andreotti, a dire: «Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due». In Europa abbiamo una struttura politica che assomiglia molto a un governo, anche se non lo è. Vi è un Consiglio, una Commissione e un apparato legislativo e parlamentare.
Che ruolo potrebbero giocare gli Stati Uniti se l’America Centrale decidesse di formare un’unione?
Un ruolo positivo. Negli anni Cinquanta, per esempio, gli Stati Uniti giocarono un ruolo centrale nel processo di integrazione europea. Ho sempre considerato questo un fattore positivo. Con la caduta del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica la dinamica è cambiata. L’Europa ha ora 28 Stati membri, 19 dei quali fanno parte della zona euro. Ma gli Stati Uniti giocano ancora un ruolo importante nelle decisioni relative a paesi come l’Ucraina, la Siria e l’Iraq.
Paesi come il Guatemala, El Salvador e l’Honduras sono emblematici per la corruzione, la violenza e il traffico di droga. Una maggiore integrazione politica tra paesi può aiutare a risolvere questi problemi?
In Europa abbiamo dinamiche simili: il livello di violenza è molto più basso, ovviamente, ma la corruzione esiste anche da noi. Il caso Volkswagen è esemplare, perché si tratta di una frode di cui erano tutti a conoscenza, dai funzionari più bassi fino ad Angela Merkel. L’Unione europea nasce con l’obiettivo di essere non solo un’unione economica e commerciale ma anche politica e di difesa, con una politica estera comune. Nel caso del Guatemala, dell’Honduras e di El Salvador si dovrebbe fare lo stesso: creare uno spazio in cui le politiche e gli obiettivi di difesa siano in comune. L’approccio deve essere politico.
Dove va l’Unione europea?
Negli ultimi anni si è rafforzata molto la consapevolezza della necessità di un’unione politica in Europa. Ma allo stesso tempo abbiamo anche assistito al riemergere di tendenze nazionalistiche. Il caso della Grecia è emblematico. Difficilmente l’Europa dimenticherà questo episodio, molto grave in termini economici e politici. C’è anche molta incertezza circa l’imminente referendum britannico sulla permanenza del paese nell’UE.
Che ruolo ha giocato l’euro in questa crisi?
Positivo per alcuni paesi, come la Germania, e negativo per altri, come l’Italia. Di fronte a una crisi come quella del 2007-08, le politiche nazionali non sono riuscite a fare molto. Oggi in vari paesi europei abbiamo forze politiche che vogliono abbandonare l’euro.
L’euro ha fallito?
È chiaro che l’euro così com’è non funziona. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di creare un Tesoro europeo che lavori in tandem con la Banca centrale europea, con un potere di spesa reale. Da parte sua, la Germania vorrebbe imporre in Europa un neoliberismo estremo, in cui le politiche keynesiane siano bandite per sempre. Ma questo è inaccettabile per paesi come la Francia e l’Italia. La Germania vuole che tutti i governi dell’Unione cedano ulteriori elementi di sovranità nazionale senza ricevere nulla in cambio.
La sua visione dell’Unione europea è piuttosto pessimistica. Possiamo veramente considerarlo un modello per il resto del mondo?
Fino a cinque anni fa, eravamo convinti che il modello europeo potesse essere esportato in altre realtà, come le Americhe o l’Africa. È doloroso ammetterlo ma oggi è chiaro che non è così. Semplicemente, non siamo un buon esempio.