di Giacomo Cucignatto
La crisi dei mutui subprime ha innescato la più profonda flessione a livello produttivo dal dopoguerra[1] – la “Grande Recessione”[2] – e rappresenta tuttavia solo l’ultimo esempio di una lunga serie di crisi finanziarie, ciascuna diversa in termini di conseguenze su produzione, occupazione e crescita. La bolla immobiliare raggiunse il suo apice all’inizio del 2006, quando tutti gli indici dei prezzi toccarono un picco storico; l’inesorabile declino successivo provocò l’inizio della crisi. Il settore immobiliare, aveva attirato negli anni precedenti un afflusso di investimenti davvero significativo, confermandosi particolarmente sensibile rispetto all’emergere di bolle speculative.
Tale mercato è stato al centro di un grande processo di mutamento: dagli anni ’90, la mortgage industry ha visto proliferare nuovi tipi di mutuo che trasformavano un settore tradizionalmente basato sui tassi fissi, permettendo ai proprietari di scommettere sulle variazioni dei tassi e garantendo a soggetti precedentemente non qualificati di richiedere un mutuo. Questi nuovi tipi di mutuo hanno iniziato a conquistare il mercato negli anni ’90, raggiungendo dopo la recessione dei primi anni del duemila il 50 per cento di quota di mercato[3]. Per quanto riguarda i mutui subprime, i prestiti concessi a famiglie che potrebbero avere maggiori difficoltà nell’estinzione del debito, essi hanno garantito un’estensione del credito anche alle famiglie americane più povere (i cosiddetti NINJA: no income, no job, no assets), ma si sono gradualmente rivelati un arma a doppio taglio: l’estensione del credito ai meno abbienti è stata possibile grazie all’immensa liquidità che ha investito il mercato americano nei primi anni duemila, ma la minore qualità del credito ha comportato una catena di default. In altre parole, i mutuatari subprime – la cui percentuale nei primi anni 2000 è passata da un livello tradizionale consolidato intorno all’8 per cento a quasi il 20 per cento[4] – non sono stati in grado di ripianare i propri debiti, soprattutto a partire dal rialzo dei tassi d’interesse che seguì la decisione della FED di interrompere la propria politica monetaria espansiva.
L’innovazione nei mutui e nel settore immobiliare si interseca con il grandioso processo di sofisticazione avvenuto in ambito finanziario e innescato dalla rivoluzione informatica: l’ingegneria finanziaria ha trasformato i prestiti subprime e i corrispondenti titoli ABS in nuovi titoli, attraverso operazioni di pooling di diversi mutui in un unico prodotto. Ciò avrebbe dovuto ridurre il rischio complessivo, poiché le istituzioni finanziarie coinvolte sostenevano che i rischi legati a ciascun prestito fossero incorrelati, visti gli andamenti storicamente indipendenti dei mercati immobiliari dei diversi stati americani. Più semplicemente, l’andamento variegato dei mercati immobiliari sul territorio USA avrebbe dovuto ridurre il rischio d’insolvenza globale.
I mutui pooled erano utilizzati a garanzia delle collateralized debt obligations (CDOs), titoli a loro volta divisi in tranche a seconda dell’esposizione al rischio di default; qui entravano in gioco le agenzie di rating – Standard and Poor’s, Moody’s, Fitch – che attribuivano (sostenevano di attribuire) una tripla AAA alle tranche qualitativamente migliori delle obbligazioni. Data la complessità dei prodotti in questione, gli investitori sono stati messi in difficoltà nel riconoscimento del rischio sottostante e spostarono enormi capitali verso questo tipo di titoli, che garantivano rendimenti alti in un mondo caratterizzato da tassi d’interesse molto bassi ed erano percepiti come titoli relativamente sicuri.[5]
Per una piena comprensione delle origini della crisi, in ogni caso, si deve considerare complessivamente il periodo della “Great Moderation”.[6] Minore volatilità macroeconomica, bassa inflazione, crescita sostenuta, occupazione stabile e minore incertezza sul mercato: prima della crisi la stragrande maggioranza delle analisi economiche esaltava l’età dell’oro del capitalismo, evidenziando la grande crescita dei commerci mondiali, dell’integrazione finanziaria, della mobilità dei capitali e persino l’uscita dal torpore dei paesi in via di sviluppo.
Questo prodigio economico era ed è tuttora collegato dai monetaristi a fattori quali la deregulation in ambito economico, la sofisticazione dell’industria della finanza, la maggiore apertura internazionale al commercio e ai capitali e la politica monetaria adottata dagli anni ’80 in poi, con particolare riferimento alle politiche accomodanti dei primi anni del millennio con tassi d’interesse eccezionalmente bassi. Tutto questo avrebbe garantito la fine dell’instabilità del ciclo economico, riducendo radicalmente la frequenza e la severità delle crisi[7]; proprio in questo periodo, paradossalmente, si è verificata l’euforia rialzista tipica delle crisi finanziarie.
La mania che si è verificata nella corsa all’acquisto nel settore immobiliare statunitense deve essere ricondotta anche alla passione degli americani per la casa di proprietà. Visco individua due cause principali alla base di questo fenomeno: «l’ipotesi che l’aumento continuo dei prezzi delle abitazioni potesse consentire di ridurre nel tempo il rapporto tra debito e valore dell’attività sottostante e la possibilità di ottenere mutui in corrispondenza del 100 per cento e più del valore dell’abitazione ipotecata».[8] In altre parole, il clima di ottimismo della Great Moderation ha portato i mutuatari americani a pensare che la corsa dei prezzi immobiliari non si sarebbe mai interrotta e che ciò avrebbe facilitato l’estinzione dei propri debiti.
In questo contesto, le «misguided homeownership policies» avviate già dall’amministrazione Clinton hanno sicuramente giocato un ruolo rilevante.[9] Il circolo vizioso di continuo rialzo dei prezzi è stato favorito inoltre dai meccanismi distorti inerenti la valutazione dei CDOs da parte delle agenzie di rating che «vivono avendo rapporti contrattuali rilevanti con il tessuto delle società controllate, sono spesso figlie di banche d’investimento, che possono avere evidenti conflitti di interesse quali collocatori dei titoli e prestatori di danaro alle società che controllano le emissioni».[10]
Un ulteriore risvolto della Great Moderation riguardava il mercato dei derivati: nei primi anni Duemila esso era indicato come lo strumento attraverso il quale si era finalmente riusciti a porre fine all’instabilità, poiché esso sarebbe stato in grado di diversificare la distribuzione del rischio a livello nazionale e globale, riducendo il rischio sistemico. Quando le banche concedevano un mutuo avevano infatti l’immediata possibilità di liberarsi dell’attivo bancario corrispondente e del rischio a esso connesso attraverso operazioni di vendita sul mercato; questo avrebbe dovuto permettere al sistema bancario di liberarsi di una parte dei rischi connessi alla concessione del credito. Aspettative stabilizzate e mercato finanziario più efficiente avrebbero, in conclusione, ridotto i rischi sul mercato, tant’è che all’epoca si diffuse tra gli operatori la convinzione che prestare denaro non fosse più un’attività rischiosa: con tassi d’interesse bassi, le banche alla ricerca di profitti concessero enormi quantità di prestiti; l’offerta di credito e la liquidità sui mercati aumentarono esponenzialmente.
Il ruolo della finanza esterna e la funzione pro-ciclica del credito sono stati perciò assolutamente cruciali nell’evoluzione della crisi: la sofisticazione nel sistema finanziario statunitense ha consentito di veicolare ingenti quantità di capitali verso il mercato immobiliare e non solo (i titoli derivati si sono moltiplicati anche in corrispondenza di altre attività creditizie come i prestiti auto e i prestiti universitari).
La fragilità dei prodotti derivati che hanno finanziato la bolla si è rivelata, tuttavia, come una pericolosa fonte di rischio sistemico poiché una parte molto rilevante di questi si è accumulata nei bilanci delle stesse banche: se i derivati avrebbero teoricamente dovuto distribuire in modo ottimale i rischi nel sistema attraverso la diversificazione rispetto al solo settore bancario, la realtà ha visto gli istituti finanziari comprare e mettere a bilancio ingenti quantità di questi prodotti, attirati dai bassi requisiti di capitale ad essi associati e stabiliti dagli Accordi di Basilea I e Basilea II.
La scintilla a innescare la crisi è coincisa con il moltiplicarsi dei default dei subprime: il finanziamento a debito delle famiglie americane attraverso l’emissione di titoli finanziari derivati si è interrotto con l’inizio dei pignoramenti, avvenuto in corrispondenza del rialzo dei tassi disposto dalla FED; il valore di questi prodotti strutturati è di conseguenza precipitato svelando la sostanziale fragilità del sistema finanziario statunitense. La domanda sostanzialmente illimitata dei titoli derivati che finanziavano i debiti dei mutuatari statunitensi si è congelata, interrompendo prima e invertendo poi la salita dei prezzi. La relativa sicurezza attribuita a tali prodotti si era ormai incrinata – insieme alla fiducia degli investitori – e la bolla immobiliare era ormai scoppiata.
La crisi sistemica si è poi consolidata con la paralisi dell’industria della cartolarizzazione: un’ondata di incertezza ha investito i mercati e la fiducia che aveva caratterizzato gli anni della Great Moderation si è rapidamente dissolta; i derivati in possesso delle banche non erano più percepiti come titoli solidi e gli stessi istituti finanziari iniziavano a mostrare una certa riluttanza a impegnarsi in nuove transazioni.[11] Quando le difficoltà dei vari intermediari e delle società finanziarie delle grandi banche – le special purpose vehicle – si sono riverberate sul sistema bancario, diversi istituti sono andati in difficoltà: quelli più esposti rispetto ai mortgage-backed securities avevano finanziato l’acquisto di tali prodotti con enorme somme di debito a breve termine; quando i creditori si rifiutarono di rifinanziare le banche in corrispondenza dell’iniziale diffondersi della sfiducia, alcune banche fallirono, mentre altre furono salvate dall’intervento pubblico.[12]
Il panico vero e proprio si diffuse col fallimento di Lehman Brothers. Immediatamente dopo il fallimento Lehman, il governo Bush è intervenuto per salvare l’American International Group (AIG), la più grande compagnia assicurativa dell’epoca: tale compagnia costituiva uno snodo cruciale del sistema finanziario internazionale, poiché aveva venduto sui mercati diverse centinaia di miliardi di dollari sotto forma di credit default swaps (CDSs), un titolo che fungeva da assicurazione contro il fallimento dei titoli derivati associati ai mutui. Le ragioni addotte al salvataggio della AIG potrebbe essere riassunte nell’espressione ormai nota “too big to fail”: senza l’intervento governativo, il fallimento del colosso assicurativo avrebbe compromesso un numero significativo di grandi istituti finanziari, sovraesposti rispetto all’ipotesi di default dei titoli assicurativi emessi dalla AIG, catapultando l’intero sistema finanziario internazionale sull’orlo del collasso.
In ogni caso, l’approccio dell’amministrazione Bush ha destato non poche critiche sia da parte dei mercati finanziari che delle opinioni pubbliche. I primi sottolineano l’incoerenza di tale approccio: se inizialmente si decise di salvare Bear Stern, Freddie Mac e Fannie Mae, in seguito l’amministrazione Bush ha deciso di lasciare fallire Lehman e, infine, è tornata sui suoi passi col salvataggio di AIG. Le opinioni pubbliche pongono un problema diverso: perché si dovrebbe salvare dei colossi della finanza responsabili di comportamenti rischiosi e eticamente discutibili con iniezioni massicce di risorse pubbliche provenienti dalle tasche dei contribuenti? Pur rimanendo a un livello di analisi intuitivo, questo interrogativo merita sicuramente una risposta da parte della politica. Resta da valutare quale sarà l’impatto del tentativo di riforma dell’amministrazione Obama rispetto al contesto generale entro il quale si muovono le attività finanziarie di Wall Street.
Ma quali sono le cause profonde della crisi? Perché la bolla si è sviluppata proprio nell’immobiliare statunitense? La maggior parte degli autori riconduce l’immensa mole di liquidità che caratterizzava i mercati negli anni immediatamente precedenti la crisi ai significativi squilibri macroeconomici globali: i twin deficits statunitensi e la crescita della prima economia mondiale sono stati finanziati dai grandi tassi di risparmio che hanno caratterizzato i paesi emergenti (Cina in primis) e i paesi in via di sviluppo, oltreché dai surplus dei grandi paesi esportatori – Giappone e Germania – e dei paesi produttori di petrolio. In questa prospettiva globale di sviluppo molti indicavano nella fuga dal dollaro il principale rischio sistemico, evocando in qualche modo le esperienze dei paesi in via di sviluppo nei decenni precedenti.[13]
Questo approccio tuttavia non sembra del tutto soddisfacente. Quando la bolla è scoppiata, non abbiamo assistito a un “sudden stop” dei capitali diretti negli Stati Uniti, anzi il flusso di capitali netti ha agito come fattore stabilizzante rispetto alla crisi: a fronte di una diminuzione del deficit di conto corrente già avviatasi nel 2006, il dollaro ha subito una forte rivalutazione in corrispondenza del fallimento Lehman; questo indica che non abbiamo assistito al “flight to quality” e al re-indirizzamento dei capitali esteri verso porti più sicuri, ma piuttosto a una contrazione della domanda interna americana dovuta a problemi finanziari.
Un altro approccio teorico individua lo squilibrio fondamentale alla base della crisi nell’eccesso di domanda globale per titoli finanziari sicuri: l’immensa mole di risparmi generati nell’economie emergenti e nei paesi in surplus avrebbe generato un’enorme pressione sul sistema finanziario statunitense, provocando una distorsione degli incentivi al suo interno; tale pressione avrebbe spinto l’ingegneria finanziaria a sviluppare nuovi prodotti per incanalare questi capitali nel sistema, a partire dalla cartolarizzazione di prodotti di bassa qualità, esponendo l’economia globale a un maggiore rischio sistemico.[14] Questo approccio tende, tuttavia, a spiegare anche i bassi tassi d‘interesse presenti sul mercato nei primi anni duemila con la sovrabbondanza di risparmio nei paesi emergenti, che avrebbe comportato ingenti acquisti di titoli del Tesoro americano da parte di tali paesi, spingendo verso il basso i tassi.
Se questo “saving glut” è sicuramente un fattore esplicativo significativo, tale lettura sembra sottovalutare la rilevanza delle politiche monetarie accomodanti dello stesso periodo: altri autori sottolineano infatti le responsabilità della Federal Reserve, che ha mantenuto a lungo i tassi a breve termine bassi, spingendo verso il basso anche gli interessi a lungo termine. Questo atteggiamento ha in qualche modo incoraggiato gli investimenti in assets finanziari più rischiosi rispetto ai titoli di Stato, incentivando per di più a prendere a prestito ulteriori capitali per amplificare gli investimenti nella convinzione che i rendimenti avrebbero ecceduto i costi dei prestiti.[15] Credo sia poi opportuno domandarsi quale sia stato il ruolo della deregulation finanziaria entro il quale si è realizzato il processo di sofisticazione. Prenderò qui in esame il caso statunitense, nella convinzione che la logica sottostante e le relative conseguenze siano estendibili anche alla dimensione europea ed internazionale.
In prospettiva storica, si può notare che il settore finanziario statunitense è stato sottoposto a un regime normativo piuttosto stretto grazie al cosiddetto Glass-Steagall Act (1933), il quale stabiliva una rigida separazione tra banche commerciali e banche d’affari e poneva limiti sulle modalità dei prestiti e sulla misura dei tassi d’interesse bancario. Per quanto concerne la separazione istituzionale delle attività bancarie tradizionali da quelle d’investimento, essa era riconducibile al tentativo di evitare qualsiasi conflitto d’interesse all’interno dei gruppi bancari: si riteneva che «a fronte di passività sostanzialmente a vista, costituite dai depositi della clientela, una banca che non avesse avuto limitazioni in merito alla destinazione delle proprie attività, potesse essere incentivata a massimizzare il proprio profilo di rischio, investendo in attività meno liquide con potenziale pregiudizio per i depositanti».[16] Sembra abbastanza semplice comprendere quali fossero nel 1933 le motivazioni che spinsero il Presidente Roosevelt e la sua maggioranza verso un orientamento di questo tipo, dopo il disastro economico provocato dalla Grande Depressione.
Il sistema è stato tuttavia sottoposto a un intenso processo di deregolamentazione a partire dai primi anni’80 sotto la spinta delle teorie monetariste di Milton Friedman e Friedrich von Hayek: si introdusse la possibilità di fusione tra due istituti bancari simili e una maggiore autonomia circa i tassi d’interesse (Depository Institutions Deregulation and Monetary Control Act, 1980); quest’ultima si è poi rapidamente trasformata nell’introduzione dei mutui a tasso d’interesse variabile (Garn-St. Germain Depository Institutions Act, 1982). In tempi più recenti, infine, il Gramm–Leach–Bliley Act (1999) ha reso possibili le fusioni tra banche commerciali e banche d’affari, garantendo alle banche la possibilità di offrire ai propri correntisti anche servizi finanziari e assicurativi avanzati; tale provvedimento, per di più, ha esentato il mercato dei derivati da qualsiasi tipo di regolamentazione.
Al di là degli aspetti tecnici, questo processo trasformativo ha provocato una rottura a livello culturale che purtroppo non trova lo spazio che merita nelle analisi sulla crisi: se dopo la Grande Depressione e le politiche keynesiane del New Deal il sistema bancario era stato sottoposto a un regime di controllo che tentava di indirizzare l’attività finanziaria verso obiettivi di sviluppo economico e sociale, la deregulation ha contribuito a trasformare il mondo della finanza in uno strumento di darwinismo sociale a disposizione delle élite.
Un ruolo particolare in questo contesto è stato giocato dall’affievolirsi della distinzione tra banca commerciale e banca d’investimento, come fa giustamente notare Stiglitz: «the culture of investment banks was conveyed to commercial banks and everyone got involved in the high-risk gambling mentality. That mentality was core to the problem that we’re facing now».[17]
In conclusione, sebbene il dibattito negli Stati Uniti sia ancora piuttosto acceso[18], le responsabilità del processo di deregolamentazione sembrano perciò piuttosto evidenti. L’intento conclamato della riforma Obama è proprio quello di contrastare i meccanismi perversi attualmente esistenti, come si può desumere dall’incipit del testo legislativo: «To promote the financial stability of the United States by improving accountability and transparency in the financial system, to end “too big to fail”, to protect the American taxpayer by ending bailouts, to protect consumers from abusive financial services practices, and for other purpose».[19]
Gli obiettivi della riforma sono ambiziosi, ma ritengo improbabile che possano essere raggiunti. La libera circolazione del capitale; i conflitti d’interessi tra agenzie di rating e gli istituti di emissione; la regolamentazione del mercato dei derivati; la valutazione del rischio sistemico; le quote di prodotti finanziari rischiosi detenuti dagli istituti bancari; sono solo alcuni dei problemi che devono essere affrontati, in un contesto nel quale troppi operatori si muovono con preoccupante efficacia a difesa dei privilegi e dei profitti che il sistema gli garantisce.
Negli Stati Uniti parlano di questa legge come il più grande tentativo di riforma dagli anni ’30, configurando un parallelo con quello attuato da Roosevelt dopo la Grande Depressione: purtroppo non sono affatto convinto che questo confronto potrà mai essere verosimile; spero di potermi ricredere nei prossimi anni.
Pubblicato in due parti sulla rivista Pandora (qui e qui) il 6 novembre 2015.
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[1] Lo confermano i dati del Fondo monetario internazionale: “World Economic Outlook – April 2009: Crisis and Recovery“, Box 1.1 (page 11-14), IMF, 24 April 2009.
[2] A proposito di questo termine è interessante notare come fosse già stato utilizzato in occasione di alcune delle precedenti crisi: http://economix.blogs.nytimes.com/2009/03/11/great-recession-a-brief-etymology/?_r=0.
[3] R. Jagannathan, M. Kapoor, E. Schaumburg, Why are we in a recession? The Financial Crisis is the symptom not the disease!, Working paper 15404, NBER working paper series, National Bureau of Economic Research, Cambridge, 2009, pp. 27-30.
[4] M. Simkovic, “Competition and Crisis in Mortgage Securitization”, Indiana Law Journal, Vol. 88:213, 2013, p. 224.
[5]“The origins of the financial crisis. Crash course”, The Economist, 7 settembre 2013, p.1.
[6] Il termine è stato coniato da Stock e Watson in: J. H. Stock, M. W. Watson, “Has the Business Cycle Changed and Why?”, NBER Macroeconomics Annual 2002, Volume 17, MIT Press, p. 162.
[7] A tal proposito risulta illuminante l’intervento dell’ex Presidente FED Bernanke alla Eastern Economic Association (Washington, DC, 2004): http://www.federalreserve.gov/BOARDDOCS/SPEECHES/2004/20040220/default.htm.
[8] I. Visco, “La crisi finanziaria e le previsioni degli economisti”, Master di II livello in Economia Pubblica, Inaugurazione dell’Anno Accademico 2008-2009, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Roma, 2009.
[9] R. J. Caballero, 2010, p. 3.
[10] Si parla a proposito di un “accountability gap” in: M. Fiocca e G. Montedoro, Latte & Tulipani, Crisi finanziarie di oggi e di ieri, Società italiana di economia pubblica, Dipartimento di economia pubblica e territoriale, Università di Pavia, p. 10.
[11] R. J. Caballero, 2010, pp. 5-6.
[12] R. G. Rajan, Fault Lines: How hidden fractures still threaten the world economy, Princeton University Press, 2010, Introduction, p. 7.
[13] I. Visco, “La crisi finanziaria e le previsioni degli economisti”, Lezione inaugurale dell’Anno Accademico 2008-2009 del Master di II livello in Economia Pubblica, Facoltà di Economia, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, 2009, p. 4.
[14] R. J. Caballero, “The other imbalance and the financial crises”, working paper 15636, NBE working paper series, National Bureau of Economic Research, Cambridge, 2010, pp. 2-12.
[15] “The origins of the financial crisis. Crash course”, The Economist, 7 settembre 2013, p.2.
[16] Enciclopedia Treccani, Dizionario di Economia e Finanza 2012: “Banca commerciale”.
[17] http://progressive.stanford.edu/cgi-bin/article.php?article_id=341&archive=1.
[18] Si veda a tal proposito le posizioni critiche nei confronti del Gramm-Leach-Bliley Act di Krugman: http://krugman.blogs.nytimes.com/2008/03/29/the-gramm-connection/, contrapposte a quelle di De Long e i monetaristi:http://marginalrevolution.com/marginalrevolution/2008/09/did-the-gramm-l.html.
[19] Dodd–Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act, July 20, 2010, incipit.